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Gemma Bovery inaugura il 32° Torino Film Festival

Diretto dalla regista francese Anne Fontaine, la commedia Gemma Bovery, che ieri ha inaugurato la 32° edizione del Torino Film Festival, trae ispirazione dalla graphic novel del 1999 di Posy Simmonds, già autrice di Tamara Drewe, da cui è stato tratto un film nel 2010. Il film racconta le fantasiose e audaci avventure sentimentali dell’inglese Gemma Arterton, costruite ad arte per fuggire dalla tediosa quotidianità di un villaggio della Normandia.

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La storia si svolge interamente in un paesino francese in cui la vita è scandita dai soliti ritmi: il caffè del mattino, il mercato, il pane appena sfornato. Il panettiere Joubert è proprio la perfetta incarnazione della tranquillità del villaggio; non più giovane, si è convinto di essere al riparo dagli impulsi della giovinezza. Ma le sue convinzioni sono smentite dall’arrivo in paese del signor Bovery e della sua giovane moglie, l’inglese Gemma, dotata di una sensualità e un’inquietudine in grado di sconvolgere il maturo panettiere.

IL TRAILER

Festival di Roma 2014 – As the Gods Will, di Takashi Miike

Depresso e apatico come molti suoi coetanei, Shun Takawata è uno studente al secondo anno di liceo, che si ritrova troppo spesso a pensare sul ciglio livido del terrazzo della scuola alla distruzione del mondo come risoluzione di tutti i suoi problemi, in attesa di una nuova creazione  e di una nuova vita. Un giorno al suo ritorno in classe trova una bambola Daruma che troneggia sulla cattedra accanto al suo insegnante decapitato, e i suoi pensieri più oscuri diventano improvvisamente reali. La bambola con gli occhi sgranati esplode e fa a pezzi l’intera scolaresca ad eccezione di una manciata di studenti. Un massacro senza precedenti. I muri della scuola imbrattati di sangue e segnano l’inizio spettacolare di un gioco crudele a cui tutti i sopravvissuti sono obbligati a partecipare per salvarsi la vita. L’obiettivo finale è lasciare vivo solo il prescelto dagli dei, lo studente più coraggioso e intelligente di tutti , colui che è pronto a sacrificarsi per gli altri, ma anche ad accettare il volere di un’entità superiore spietata, che schiaccia innumerevoli ragazzi innocenti uno dopo l’altro per il puro piacere sadico di vedere il topo sbranato dal gatto, dopo averlo visto contorcersi nelle trappole più ingegnose.

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I mostri sanguinari si mostrano sotto forma delle creature più innocue della tradizione giapponese, che capovolgono il loro potere positivo e ben augurante in una furia omicida inarrestabile, se non con la fine del gioco. Come la Daruma, che si trasforma in una bombola-bomba e il gatto Maneki-Neko, che dà un caloroso benvenuto a tutti i ragazzi che indossano un costume da topo, mangiandoli uno dopo l’altro fino a che non si addormenta con la pancia piena nel bel mezzo della palestra della scuola. Gli animali dall’aspetto mansueto si avvicendano ai giochi tradizionali, animati e riprodotti su scala gigantesca, in un’arena surreale in cui sono tutti contro tutti e si sfidano a colpi di intelletto. Indovinelli, trabocchetti e ostacoli inimmaginabili catapultano Shun Takawata e i suoi sventurati compagni in un gioco suicida a metà tra un mastodontico videogioco e uno splatter spietato in cui la morte si presenta sotto le vesti più fantasiose.
Takashi Miike sfida ancora una volta la razionalità, facendo entrare veri esseri umani tra le pagine di un manga folle, più crudele della fantasia più macabra, ma allo stesso tempo talmente irrealistico da scatenare una risata liberatoria alla vista di ogni nuova creatura che irrompe sulla scena. Ma è proprio la combinazione paradossale tra l’apparenza innocua di questi teneri giochi e la brutalità di cui sono capaci a rendere quest’opera unica nel suo genere e sorprendente in ogni fotogramma, come una matrioska che nasconde una sorpresa più macabra ogni volta che si schiude e mostra il suo nuovo volto.

Festival di Roma 2014 – The Knick, di Steven Soderberg

Follia e metodo: questo gli strumenti con cui il dottor Thackery opera i suoi pazienti, scavando nei loro corpi inermi per indagare i meccanismi delicatissimi che li muovono e sperimentando tecniche inimmaginabili per il panorama scientifico dei primi anni del Novecento, in cui si opera a mani nude tastando il ritmo del cuore con le dita. La follia di Thackery sta nel rischio che corre ogni volta che sperimenta le sue trovate sul tavolo operatorio, molti pazienti muoiono sotto la sua mano, ma ogni perdita più che una sconfitta è un passo avanti nella conoscenza del corpo umano e un sacrificio che in futuro potrebbe valere migliaia di vite. Il metodo sta nella sua applicazione maniacale allo studio e alla continua ricerca e invenzione di congegni funzionali a facilitare i medici nelle operazioni, che si nutre del sonno, e lo tiene sveglio con l’aiuto di cospicue dosi di cocaina. Come un dr House ante litteram, il genio di Thackery non può fare a meno della droga, che inietta in ogni anfratto del suo corpo per trovare le energie e il coraggio per essere il direttore del reparto di chirurgia del Knick, l’ospedale più acclamato di New York, e di portare sulle spalle il peso di centinaia di vite sacrificate al dio della scienza.  Tutta la sua vita gira intorno alla droga, ne è intrisa fino al midollo, e non risparmia nessun momento della sua giornata, dalle sedute nel teatro operatorio ai torbidi amplessi consumati nel bordello locale.

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Thackery è un eroe imperfetto, un professionista illuminato che recita alla perfezione la sua parte di scienziato in pubblico, per poi crollare miseramente quando cala il sipario sullo spettacolo chirurgico. Egocentrico e interamente proiettato verso il progresso scientifico, non riesce a lasciarsi andare alle passioni, considerando i rapporti umani un intralcio al suo lavoro, e lascia ai colleghi più ingenui il compito di correre dietro alle gonne delle infermiere, mentre lui si trastulla con le fiale di cocaina e si lascia stordire dall’oppio. Ma la sua personalità predominante concede ben poco spazio di manovra agli altri personaggi, che girano tutti intorno a questa figura ambigua alla costante ricerca di un cenno di approvazione, e del privilegio di entrare nella cerchia dei chirurghi eletti a cui e concesso operare su un suo paziente. L’esperienza e la purezza della razza sono i requisiti necessari per entrare al Knick che, nonostante le costanti sperimentazioni di cui si fregia, non riesce ad elevarsi dalle impalcature di una New York ormai multirazziale, ma ancora stagnante dal punto di vista ideologico in una stratificazione sociale che impedisce ai pazienti di colore di ricevere la stessa assistenza dei bianchi, e fa rabbrividire i pazienti bianchi al solo pensiero di essere sfiorati da un medico di colore, presumibilmente meno preparato di un loro connazionale e destinato per natura a svolgere lavori manuali. Tackery e tutta la sua equipe non fanno eccezione e seguono alla lettera questa corrente di pensiero, collocandosi a pennello nel contesto storico in cui si muovono, ricostruito in ogni minimo dettaglio dalla mano esperta di Soderbergh, che fotografa quest’epoca di grandi rivoluzioni senza risparmiare i dettagli più indigesti.

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Soderberg non fa sconti, e mette il realismo dell’immagine al di sopra di tutto per entrare a fondo nella realtà cruda del Knick e di tutti i medici che hanno guadagnato terreno nel campo delle scoperte scientifiche lentamente e a un prezzo altissimo. Il tavolo operatorio è sempre al centro dell’immagine, facendo da sfondo alle patologie più disparate, curate con metodi che oggi considereremmo barbari, ma che per l’epoca erano rivoluzionari. La camera indugia sui particolari, segue il fluire del sangue e non prova disgusto, mostrando i suoi personaggi nella cruda quotidianità di un lavoro in cui lo spazio tra la vita e la morte si colloca sul filo di un bisturi. Al Knick non esistono il bene e il male assoluto e ognuno cerca di tenersi in equilibrio tra queste due forze, osando e sfidando gli dei nella speranza di rimettere in moto un cuore ormai spento. Ma fino che punto è giusto spingersi, sperimentando l’impossibile e utilizzando i pazienti come cavie, per un bene superiore? Soderbergh non esprime giudizi e lascia al buonismo dell’uomo contemporaneo il compito di rispondere, senza mai smettere di ricordargli, con il suo fascino perverso per il tavolo operatorio, che la scienza che ritiene infallibile non è altro che il frutto della mente umana e pertanto intrinsecamente votata all’errore.

Festival di Roma 2014 – Tusk, di Kevin Smith

Samuel Taylor Coleridge racconta la storia di un vecchio marinaio che durante una spedizione in mare rimane vittima di una tempesta insieme al suo equipaggio e, preso da un impeto di disperazione, uccide con un colpo di balestra un albatros che si è appollaiato sull’albero maestro. L’uccisione dell’innocente copre il cielo di nuvole scure e trasforma le acque che circondano la nave nella bocca dell’inferno che risucchia tutti i marinai in un abisso di morte, eccetto colui che ha ucciso l’albatros. La condanna per il marinaio che ha compiuto il misfatto è quella di sopravvivere e vagare per il mondo raccontando incessantemente la sua triste storia per espiare la sua colpa.
Come il marinaio di Coleridge, anche l’inquietante Howard Howe aveva trascorso molti anni per mare e qui aveva fatto l’incontro più incredibile della sua vita: un tricheco che gli aveva salvato la vita dopo che una tempesta aveva distrutto la sua nave e lo aveva scaraventato alla deriva. Il tricheco lo aveva stretto tra le sue carni calde e protetto dal freddo dell’Antartide, e gli era stato fedele più di qualsiasi essere umano, fino a sacrificare la vita per lui. Howard lo amava profondamente, al punto da dargli un nome umano: Mr Tusk. Ma era anche un giovane impetuoso e non riusciva a trattenere la fame, così non aveva esitato a sventrare il tricheco innocente e a cibarsi di lui in attesa di essere portato in salvo.

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Il tradimento di questa amicizia e il ricordo di questo atto sanguinoso ai danni di chi lo aveva salvato ha continuato a tormentare Howard per il resto della sua vita. La sua missione è trovare un ascoltatore delle sue storie, un compagno di viaggio immaginario che possa vivere costantemente al suo fianco e vestire, non metaforicamente, i panni del tricheco Tusk, meticolosamente ricostruito con zanne di osso e brandelli di pelle umana. La storia del folle Howard attira l’attenzione dei media e molti curiosi accorrono alla sua dimora dispersa nei boschi del Québec, ingenuamente inconsapevoli che non si tratta di una leggenda metropolitana che colora le pagine dei giornali, ma di una trappola sofisticata, al limite della comprensione umana. Wallace Bryton, uno dei podcaster più irriverenti del momento, è uno dei tanti sprovveduti che si avventurano sulle tracce del misterioso Howard Howe per portare a casa il servizio più assurdo mai realizzato. Armato di spavalderia, irrompe nella mansion e rimane immediatamente incastrato in una trappola verbale di citazioni colte annodate a storie affascinanti, che lo lega al tavolo e lo lascia completamente in balia del vecchio marinaio.

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La follia irrompe in ogni scena, sotto forma di immagini disturbanti che giocano con tutti sensi, passando dal disgusto al godimento sadico, dall’esplosione di riso alla compassione. Kevin Smith non smette mai di giocare con le sue creature e trae un profondo divertimento dalla creazione di un universo paradossale, assurdo, in cui l’umorismo nero bilancia costantemente l’orrore, in un miscuglio perturbante di percezioni, che parodizza consapevolmente il cinema horror e lo porta su un livello di follia raramente raggiunto fino ad ora, in cui il demenziale non attenua l’inquietudine ma la accentua, e colpisce lo spettatore nel profondo delle viscere, lasciandogli addosso il senso di colpa per aver assistito goliardicamente alla creazione di un mostro.

Festival di Roma 2014 – Still Alice, di Wash Westmoreland e Richard Glatzer

Alice è una donna straordinaria, a detta di suo marito, la donna più bella e intelligente che abbia mai conosciuto. Ora che ha appena compiuto cinquant’anni, occupa una cattedra di linguistica alla Columbia University e la maggiore dei suoi tre splendidi figli sta per farla diventare nonna. Adesso sta iniziando quella stagione della vita in cui i figli hanno trovato la propria strada e le responsabilità sono scemate, per cui può finalmente raccoglie con soddisfazione i frutti dei suoi sacrifici e godere a pieno la vita che ha costruito con fatica. Ma all’improvviso nota che la sua memoria si sta indebolendo. All’inizio, fa fatica a ricordare gli appuntamenti e le lezioni, poi cancella inconsapevolmente brevi istanti della giornata, fino a perdere completamente coscienza del suo lavoro, della sua famiglia e dei luoghi in cui si trova. In pochi mesi l’Alzheimer cancella tutta la sua esistenza, concedendole solo pochi brevi istanti di respiro per riconoscere l’amore negli occhi dei suoi cari.

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Come si può descrivere la sensazione di perdere all’improvviso il contatto con il mondo, di vederne i contorni sbiaditi e fumosi, alla stregua di un caos informe di macchie colorate senza nome e provenienza, che girano vorticosamente annullando l’orientamento e confondendo il tempo e lo spazio? Questi sono i sintomi dell’Alzheimer, una malattia degenerativa silenziosa, che distrugge il cervello senza far rumore, cancellando una piccola porzione di informazioni alla volta, fino all’oblio. Alice è una delle tante vittime di questa malattia senza ritorno,  estranea nel mondo in cui ha sempre vissuto, incapace di riconoscere le strade che ha percorso ogni giorno, gli sguardi incrociati distrattamente e i volti che che hanno dato un senso a tutta la sua vita. Ogni giorno perde un pezzo di se stessa e della realtà che la circonda. I ricordi, i nomi dei suoi figli, tutto si fa buio. Se l’Alzheimer può essere paragonato alla morte dell’anima, per chi lo vive con la consapevolezza di una mente brillante come la sua è l’inferno.

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Raccontare una malattia è uno dei compiti più ardui, perché il rischio di lasciarsi andare a slanci patetici e di esplorare solo alcuni aspetti della questione è molto alto, ma Westmoreland e Glatzer non cadono nella trappola della spettacolarizzazione del dolore e si limitano a stare in disparte, ad osservare la vita di Alice da lontano, accompagnandola nel suo percorso prima che il processo sia concluso. Al centro della scena ci sono le piccole perdite quotidiane, quelle sviste che sembrano quasi insignificanti ma che indicano un’avanzamento inarrestabile dell’Alzheimer. Alice fa tutto ciò che è in suo potere per restare il più possibile aggrappata alla sua vita e alla sua preziosa memoria, cercando di costruire  nuovi ricordi ogni giorno, visto che i vecchi sono destinati a disciogliersi nel tempo e, al di là dell’aiuto che le può dare la tecnologia, l’unica speranza è portare con sé le sensazioni, i suoni e gli odori di una giornata al mare come tante, che per lei sarà eternamente presente.

Festival di Roma 2014 – Conversazione con Clive Owen su The Knick

L’attore britannico Clive Owen ha presentato al Festival Internazionale del Film di Roma la serie tv di 10 epsodi, The Knick, diretta dal premio Oscar Steven Soderbergh, che sarà trasmessa a partire dall’11 novembre su Sky Atlantic.

Dopo una lunga carriera cinematografica, come è stato il passaggio alla televisione?

Le serie tv in alcuni casi sono più interessanti dei lungometraggi, specialmente se sono dirette da ottimi registi. C’è più tempo per esplorare i personaggi, si può essere più liberi di osare, e correre rischi, perché non c’è l’obbligo di restare compressi nelle due ore di film o nei vincoli della produzione.  Di solito evito di ripetermi e non mi piace vestire lo stesso ruolo per troppo tempo, per questo non ho mai recitato in una serie, ma quando ho letto questa sceneggiatura sono rimasto molto impressionato dalla scrittura perfetta.

Il chirurgo John Thackery, protagonista assoluto di The Knick, è un personaggio arrogante e brillante allo stesso tempo, ma di sicuro non risulta immediatamente simpatico. È stata una sfida renderlo gradevole?
Di sicuro il personaggio non è simpatico, ma non è mia abitudine scegliere un ruolo in base alla simpatia del personaggio. Per prima cosa bisogna conoscerlo, studiarne la psicologia e comprendere cosa muove le sue azioni. Questo medico è un personaggio estremamente interessante e affascinante, perché è razzista, fa uso di droghe, ma allo stesso tempo non si ferma davanti a nulla ed è un genio nel suo campo, un pioniere. In ogni scena dovevo stare in equilibrio su un filo sottile, ma la sfida era proprio capire fino a che punto si poteva arrivare.

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I medical drama vedono spesso come protagonisti medici scontrosi, arroganti e tossici, ma anche geniali. Perché?

Le serie tv ambientate negli ospedali hanno successo perché qui la posta in gioco è alta, si tratta di vita o di morte. La tensione è sempre alta e lo spettatore si identifica facilmente con le situazioni trattate. Thackery è un personaggio molto ambiguo, un pioniere nel suo settore, ma anche una persona imperfetta che gestisce la pressione quotidiana a cui è sottoposto facendo uso costante di cocaina, che però al tempo era comunemente usata in medicina ed era frequente che i medici che ne facevano uso ne diventassero dipendenti. A mio parere è proprio questa ambiguità a rendere questo personaggio interessante, se fosse stato perfetto non lo sarebbe stato altrettanto.

La scena è molto curata e ed estremamente realistica, anche nei dettagli più cruenti. Questo ha facilitato l’immedesimazione nella New York dei primi del Novecento?

Soderbergh è stato incredibile nella cura dei dettagli, abbiamo lavorato ad un ritmo frenetico e la squadra di scenografi ha fatto un lavoro incredibile. I set erano realistici e ricchi. Quando si entrava in una stanza sembrava reale, c’era tutto, e se si apriva un cassetto spuntavano gli strumenti chirurgici dell’epoca. Inoltre, pur non essendoci il tempo per un’adeguata preparazione medica un team di esperti ci ha costantemente sottoposto le fotografie delle operazioni dell’epoca e i libretti. Dopotutto eravamo nella New York dei primi anni del Novecento ed era necessario essere il più possibile fedeli alla realtà per essere credibili.

Ethan Hawke: Cymbeline dopo Hamlet 2000

Dopo Hamlet 2000, Ethan Hawke torna a vestire i panni di un personaggio shakespeariano inserito in un contesto metropolitano contemporaneo con Cymbeline, l’ultima opera del regista Michael Almereyda, presentata in anteprima mondiale durante la 71′ edizione della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia.

In questa versione di Cymbeline, una delle opere meno conosciute di Shakespeare e mai adattata per il grande schermo, si consuma l’amore impossibile tra Imogen, la figlia di Cymbeline, il leader di una gang di motociclisti, e lo squattrinato Posthumus, l’uomo che decide di sposare contro la volontà del padre. Costretta a divorziare e con il giovane marito mandato in esilio, Imogen rimane reclusa nelle sue stanze finché non si decide a sposare il partito prescelto del padre, Cloten. La sua ribellione è il vero motore di una storia a tinte cupe, che si dipana tra intrighi e scontri sanguinosi, mostrando il lato ambiguo di ogni personaggio, primi tra tutti Iachimo, interpretato da Ethan Hawke, che mette alla prova l’onestà di Imogen per conto del malfidato Posthumus, e la perfida manipolatrice Queen, la moglie del boss con le fattezze di Milla Jovovich, che cerca di persuadere Cymbeline a combinare le nozze della figlia con il facoltoso Cloten.

Lo sfondo contemporaneo degli scontri sanguinosi tra una gang di motociclisti e la polizia corrotta si pone in netto contrasto con il testo originale shakespeariano, e l’esperimento di Almereyda non può non riportare alla mente Hamlet 2000, messo in scena più dieci anni fa dallo stesso regista con Ethan Hawke nei panni del protagonista, che declamava i versi di Shakespeare in una modernissima New York dominata dalla tecnologia.

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“Una straordinaria avventura shakespeariana e un testo straordinario. Ethan Hawke è stato il primo ad aderire al progetto, elettrizzato e affascinato da questa sfida” – ha dichiarato il regista Michael Almereyda – “‘Cymbeline è selvaggio, un testo pieno di energia ed emozioni – ed è questo che ha motivato sia me che gli attori. Si sente l’eco dei più grandi drammi shakespeariani, e anche se ufficialmente è classificata come una tragedia, contiene sprazzi di commedia.”

 “Il film si concentra sulla storia d’amore” – ha aggiunto Almereyda – “un dramma emotivo in cui l’amore non corrisposto si confonde con il tradimento. Abbiamo fatto del nostro meglio per mantenere intatta l’intimità della storia ma l’abbiamo ambientata in una scena inaspettata, quotidiana e spettacolare allo stesso tempo”.

 

IL TRAILER:

 

L’argentino Luminaris vince la rassegna Giovinazzo a corto di cinema

Luminaris, il cortometraggio in stop-motion del regista argentino Juan Pablo Zaramella, vince la sesta edizione del festival internazionale di cortometraggi Giovinazzo a corto di cinema, organizzata dall’associazione culturale Formicalata.

In una Buenos Aires fantastica, in cui l’art deco si combina al surrealismo e al tango, nasce Luminaris, la storia di un uomo che vive in un mondo controllato dalla luce in cui ogni mattina tutti si svegliano e vanno a lavoro spinti dalla luce del sole, che agisce sui suoi abitanti come una forza magnetica. Il protagonista lavora in una fabbrica di lampadine e, mentre sogna una vita diversa, segue i movimenti del sole sulle note del brano “Lluvia de Estrellas”, composto da Osmar Maderna negli anni Quaranta.

Il regista argentino Juan Pablo Zaramella, che da anni realizza cortometraggi in stop-motion, è stato ispirato da questa melodia per creare uno dei suoi cortometraggi più riusciti, in cui ha sperimentato una nuova tecnica d’animazione denominata “pixilation”, che non richiede la creazione di modellini e in cui gli attori reali sono animati fotogramma per fotogramma, e ogni fotogramma è composto e girato separatamente. Un film come questo, in cui la luce ha una funzione dominante, ha richiesto due anni per la completa realizzazione, visto che a causa del movimento del sole e delle condizioni meteorologiche la posizione delle ombre cambiava in continuazione ed era necessario modificare per ogni fotogramma il time-lapse e l’esposizione.

La versione integrale di Luminaris: