fumetto

Edward Mani di Forbice – Qualche anno dopo, di Kate Leth e Drew Rausch

Quando a maggio 2017 mi è stato chiesto di recensire questo fumetto la mia gioia è stata immensa. Spesso si suggerisce di non giudicare un libro dalla copertina. Ecco, mai consiglio fu più vero! Ho aspettato tanto perché a caldo il mio giudizio sarebbe stato affrettato, figlio naturale di un pregiudizio e di un’aspettativa tradita. Nel frattempo ho meditato, letto e indagato, non proprio in quest’ordine, diciamo in ordine sparso e ho maturato che nel caso di Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo i lettori non possono che trovarsi un po’ spaesati per il contrasto grafico fra la copertina scelta dall’editore e i disegni sulle pagine che poi ci si trova a sfogliare. Per onestà di giudizio, bisogna ammettere che in fin dei conti si tratta di un prodotto che chiaramente vuole ottenere degli obiettivi economici specifici e, probabilmente, lo fa egregiamente, sfruttando quella gran voglia di sequel e remake che caratterizza l’attuale target, la fascia di mercato che detiene in questa fase storica il potere d’acquisto maggiore: la generazione x, che ha visto il film di Tim Burton e che vuol colmare il gap con i figli-screenager.

Negli Stati Uniti Edward Scissorhands è edito dalla IDW Publishing. Il successo delle nostalgiche sceneggiature della canadese Kate Leth e delle avanguardistiche illustrazioni dell’artista californiano Drew Rausch ha spinto la casa editrice californiana a creare una serie di 10 numeri, poi raccolta nella versione deluxe, oversized handcover che ha convinto la Nicola Pesce Editore a pubblicarne la traduzione: Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo è un volume 14×21 cm, brossurato [cartonato in originale], con alette, di 128 pagine tutte a colori. Nessun problema fin qui, se non fosse per la copertina scelta: quella che è una variant cover celebrativa nell’originale, in Italia diventa la copertina ufficiale, creando, di fatto, un’incoerenza grafica molto forte con i disegni che poi caratterizzano l’intero fumetto.

Questo fumetto non è un pedissequo adattamento del film, che di per sé avrebbe avuto poco senso data la perfezione della pellicola. Si tratta invece di una storia nuova, poetica come l’originale, gotica e toccante”, tranquillizza e spiega la descrizione del prodotto sul sito ufficiale della casa editrice e questo è sufficiente per chiudere la questione e pensare a Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo per quello che è: un fumetto per ragazzi che riprende il filo della narrazione di un film che ha fatto epoca per fornirgli una vita più che nuova, in un contesto contemporaneo… è un po’ la storia stessa di Edward, no?

Sono passati tanti anni, Kimberly, l’amore mai dimenticato di Edward, non c’è più, mentre Edward non è invecchiato di un giorno e continua ad essere l’emblema della solitudine, un mostro dal cuore tenero che il mondo non ha mai capito ma isolato nel suo maniero abbandonato, consolato dalla sola compagnia delle sue creazioni artistiche: figure scaturite dal taglio delle siepi o del ghiaccio. Talmente è solo che quando un giorno trova un altro androide, disattivato perché pericolosamente incompleto, Edward lo riattiva pensando di poterlo gestire… Intanto, Megan, una ragazza curiosa e piena di sentimenti positivi, in tutto e per tutto identica a nonna Kimberly, indaga sul passato della sua famiglia e quindi, in cerca di risposte, si avventura nel vecchio maniero dove vive Edward…

I disegni di Drew Rausch sono intriganti e freschi, accattivanti nei loro colori desaturati e segnati da contrasti decisi, sebbene troppo deformati comicamente per il gusto dei burtoniani. Manca una profondità dei neri, e qui ci sarebbe da sviluppare un discorso infinito su quanto il gotico sia legato necessariamente ad un ampio ventaglio di tonalità dark, in questo caso stranamente mancanti. Soprassediamo e torniamo invece ai pro, visto che il contro è ormai chiarissimo: sono bellissime le tavole di intermezzo fra i capitoli con gli a solo di Edward e le siepi tagliate ad arte sotto un cielo stellato; in appendice altre meravigliose tavole realizzate da vari artisti che hanno reinterpretato secondo la loro natura artistica i personaggi creati da Tim Burton; in più bozzetti, bibbia dei personaggi e dei luoghi e le prove di montaggio di alcune tra le pagine più interessanti.

Se lo si potesse considerare un fumetto a sé, ossia slegato completamente dal prodotto cinematografico originale, Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sarebbe passabile, per giunta piacevole per molti aspetti, un modo simpatico per avvicinare nuove generazioni ad uno dei personaggi più iconici del già particolare mondo gotico di Tim Burton.

Il risultato finale dipende quindi da quale sia il pubblico chiamato a comprarlo: se si tratta di un’operazione di mercato tipo “Bambini, venite a conoscere Edward” se ne può anche parlare e, seppur, con una certa riluttanza, accettare, ma se l’obiettivo è “Fan di Edward, guardate un po’ chi è tornato”, beh, non ci siamo proprio, perché a venir meno è lo spirito che era alla base di quel novello Frankenstein in cerca di amore.

Il giudizio molto personale e quindi non certo insindacabile del sottoscritto è che Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sia un poco riuscito connubio di tematiche horror e mood da commedia adolescenziale con un personaggio talmente fuori dalla sua “naturale” ambientazione gotica da sembrare la caricatura di sé stesso.

Peccato per le incongruenze, peccato per chi si aspettava un fumetto differente, maggiormente conformato all’originale cinematografico.

Aliens 30° Anniversario, di Mark Verheiden e Mark A. Nelson

SaldaPress cavalca il rinnovato interesse del pubblico per la saga di Alien e degli xenomorfi con un ampio ventaglio di fumetti abbastanza liberamente ispirati alle vicende narrate per immagini in movimento da Ridley Scott & company:

Aliens : la serie regina in cui vari disegnatori si alternano per schizzare di terrore visionario le storie sempre scritte da Brian Wood;

Fire & Stone : in contemporanea con l’arrivo nei cinema del film Alien: Covenant, una serie-evento in 5 volumi, che coinvolge in un’unica emozionante storia tutte le properties legate all’Alien Universe: Xenomorfi, Ingegneri, Predators:

  1. Prometheus Fire & Stone,
  2. Aliens Fire & Stone
  3. Predator Fire & Stone,
  4. Alien vs. Predator Fire & Stone,
  5. Prometheus: Omega Fire & Stone

Ma è su un prodotto celebrativo che vogliamo porre maggiore attenzione in questa occasione:

 

ALIENS

30° anniversario

 

Si tratta di un volume celebrativo, unico non solo perché presenta una storia autoconclusiva, la raccolta completa della prima miniserie Aliens, ma anche per alcune peculiarità editoriali che lo rendono apprezzabile al 100% solo nella sua forma cartacea: un’accattivante copertina nera lucida su cui campeggia ovviamente il vero protagonista, lo xenomorfo, apprezzabile anche a livello tattile grazie ad una texture in rilievo dello xenomorfo sul granitico cartonato nero, e a perfezionare il tutto il bordo esterno delle pagine rigorosamente nero, una finezza per veri intenditori, in conformità con l’edizione originale americana.

Il disegno di Aliens 30° anniversario è ovviamente un po’ retro, e non poteva essere altrimenti vista la data della prima pubblicazione Dark Horse che risale al 1988, in occasione della realizzazione del terzo film.

«Verso la fine del 1987, ero al telefono con Mike e, a un certo punto, lui sganciò la bomba che la Dark Horse avrebbe realizzato i fumetti di Aliens. Non si trattava di un adattamento del film, ma di nuove storie derivate dal secondo film. E serviva uno sceneggiatore». Chi pronuncia queste parole è proprio Mark Verheiden lo sceneggiatore-produttore che ha dato vita ai mondi di The Mask, Timecop, Battlestar Galactica, Falling Skies e Daredevil, ora alle prese con la serie tv che dovrebbe risarcire il pubblico dalla deludente trasposizione cinematografica de La Torre Nera.

«Adoravo Aliens! – prosegue Verheiden – Il primo Alien era stato superbo, un film horror dalla vena stupendamente dark. L’Aliens di James Cameron, però, aveva l’azione, l’horror e la passione messi tutti insieme all’interno di un prodotto spettacolare. Poter lavorare con un universo tanto mitico senza le limitazioni dettate dal budget era la realizzazione di un sogno. E, quando Mark Nelson fu scelto per disegnare il progetto, ogni pezzo del puzzle andò al suo posto. Mark realizzava i disegni in bianco e nero utilizzando l’ormai introvabile carta a reazione chimica Duoshade: l’abilità stava nel far emergere dal cartoncino i retini incorporati, stendendo con il pennello un apposito reagente.

I disegni di Mark erano straordinari, incredibilmente dettagliati e carichi di atmosfera. Perciò, quando decisi di evidenziare l’aspetto horror del mondo di Alien, sapevo che lui era la persona giusta e che non avrebbe tradito le mie aspettative. E già che è il momento dei complimenti, tanto di cappello a Willie Schubert, letterista infaticabile; Willie ha fatto un lavoro superlativo con tutte le narrazioni in prima persona che si incrociano nella storia
».

Un bianco e nero fortemente contrastato e una cura massima del dettagli nei momenti cruciali di contatto fra umani e xenomorfi sono i punti forti del fumetto. I testi, molto ben curati, senza mai scadere nel banale, suscitano emozioni che vengono costantemente dinamizzate da un montaggio eccentrico delle vignette.

Una nutrita appendice grafica di eccezionale pregio presenta tavole a tutta pagina che svolgono la funzione di visual credits: tutti i realizzatori dell’opera sono disegnati nei panni di vittime nella catena alimentare degli xenomorfi.

La storia, sebbene oggi possa apparire un po’ inflazionata, è in linea con gli standard dell’epoca: un buon numero di scene di terrore puro, innestate in un mood di estremo delirio, sospeso fra incubi e realtà e tipico di personalità dissociate per via delle conseguenze di un’aggressione mostruosamente aliena: se il mostro non ti divora dall’esterno, sarà la paura di rincontrarlo a divorarti dall’interno!

Per quanto riguarda i personaggi, invece, gli autori hanno dovuto combattere con assenze pesanti e limitazioni che hanno reso il loro lavoro non solo più arduo ma anche frustrante perché questo volume unico risulterà sempre slegato dalla linea narrativa che la saga cinematografica ha intrapreso successivamente. Nella prefazione Verheiden lo spiega chiaramente:

«Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di aver ricevuto ben poche direttive. Una era “vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra.” Due: nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks”. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley (divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War).

Era il momento di creare la storia. Volevo esplorare un futuro high-tech e distopico insieme, dove religione, affari e tecnologia entravano in conflitto con le creature aliene, con i nostri disgraziati personaggi che ci finivano in mezzo. Non ci voleva molto a immaginare che le esperienze di Newt con gli xenomorfi su LV-426 avessero lasciato segni profondi nella sua mente o che Hicks, con metà faccia bruciata dall’acido, fosse evitato dai suoi commilitoni come un paria. Un’altra cosa che mi intrigava dei due film erano gli androidi, Ash e Bishop. Sentivo che c’era molto da scavare nell’esistenza di una vita artificiale senziente.

A parte questo, dovevo muovermi con grande attenzione nel fare ipotesi su alcuni aspetti su cui poggia la mitologia del film Aliens. Per esempio sulla vera identità dello “space jockey”. Ho analizzato sia il film che gli scatti del set, ma non avrei mai immaginato che la “faccia” elefantiaca della creatura fosse, come si vede nel film Prometheus del 2012, una maschera d’ossigeno per un pilota umanoide. L’unica analogia tra i miei “space jockey” alieni e gli Ingegneri umanoidi di Prometheus è che entrambi ce l’hanno a morte con gli xenomorfi. Be’, almeno su quello ci siamo trovati.

L’altra ipotesi che facemmo tutti fu che Newt e Hicks fossero sopravvissuti al post-Aliens, ma i titoli di testa di Alien3 mi tolsero rapidamente ogni illusione in proposito. Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien3 e, a essere sinceri, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato un vero e proprio schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella televisione, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare “l’attesa dell’inatteso”. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien3, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale».

Aliens 30° anniversario è arricchito dai bozzetti, le cover e i frontespizi messi a punto per la prima edizione, da prefazione e postfazione entrambe molto appassionate e dalla storia breve Aliens: Fortunato, tutti elementi succulenti da aggiungere alle già decantate tavole in appendice e texture di copertina, che sono già di per sé lo spettacolo per cui val la pena di pagare il prezzo del “biglietto”. Chi sceglierà una versione digitale sa ora cosa si perde! Al vero fan poco importa se il prodotto non è d’avanguardia. In fondo Alien ci piace così: un’avventura horror sci-fi con quel suo gusto vintage inconfondibile e… rassicurante, mi si passi il termine per esprimere l’abitudine spettatoriale dei più nostalgici, mentre per tutto il resto del pubblico permane l’eco impossibile di quelle affascinanti urla di terrore dissipate nello spazio profondo.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa».

Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

Un anno senza te, di Luca Vanzella e Giopota

Quando essere lasciati sembra essere l’unico modo per trovare se stessi.

Quante banalità si dicono a un amico che ha appena rotto una relazione? Possono essere frasi giustificate o meno dalla sanità del rapporto in cui era invischiato, ma in ogni caso si prova sempre a lenire le ferite con quelle che, spesso, si dimostrano banalità “dai esci, chiodo schiaccia chiodo” , “solo il tempo riuscirà a fartelo dimenticare” , “la verità è che non ti merita davvero” (ma sua quale sia la verità Ken Kwapis ci ha girato una commedia romantica per certi aspetti illuminante). Antonio, come chiunque abbia vissuto quest’esperienza, lo sa: immaginarsi lontano da Tancredi è uno strazio, figuriamoci concepire la propria vita senza di lui a un anno di distanza. Cade nell’ennesima missione d’amore della sua vita, dandosi anima e corpo all’uomo sbagliato e investendo tutto se stesso in un rapporto a senso unico, dove l’ultimo DJ di turno è in grado “dopo appena sei mesi” come gli urla in faccia per scuoterlo il coinquilino Zeno di lasciarlo a pezzi e senza nemmeno la forza di riattaccarli.

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Un anno senza te sembra la solita storia di amore infranto a cui la televisione, il cinema e secoli di letteratura ci hanno abituato. Verrebbe quindi da chiedersi cosa aggiunge di nuovo a questo filone.

Io dico che aggiunge TUTTO.

In primo luogo il tono del testo non è mai triste; la trama della storia è tessuta fittamente di ironia e leggerezza e per questo il fumetto non assume il ruolo di mezzo con cui amplificare il proprio lutto da rottura, ma diventa le lente d’ingrandimento grazie alla quale capire meglio le profonde pieghe del proprio animo. Antonio, del resto, è un giovane laureando e come tale sta attraversando uno dei periodi più difficili e mutevoli della propria vita. Anche una fase di transizione così importante, grazie all’ironia e alla levità del testo, viene, paradossalmente, scandagliata in molti dei suoi aspetti, spingendo il lettore di qualunque età a rimanere completamente coinvolto non solo nelle vicende di Antonio (chi, del resto, non ha mai avuto il cuore a pezzi?), ma di tutti gli studenti della grassa Bologna che appaiono nella storia, direttamente o indirettamente coinvolti nella vita del protagonista. Sono tanti i temi trattati (non approfondisco nemmeno l’omosessualità perché è presentata con la naturalezza che le spetta e, quindi, non risulta particolare), ma tutti appaiono dignitosi e mai banali: disabilità, precarietà, nepotismo accademico, insicurezze per il futuro.

In secondo luogo il disegno di Un anno senza te è tra i più puliti e rilassanti delle ultime mie letture, dove le scale cromatiche sono accostate con sapienza e abilità, le architetture sono definite con precisione quasi maniacale e la suddivisione delle tavole accompagna i sentimenti che scorrono nel testo, spingendo a sfogliare una pagina dopo l’altra senza rendersi conto di come aver raggiunto la fine.

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In terzo luogo la scelta geniale degli autori di Un anno senza te – che, per inciso, sembrano essere due mani sole, talmente coerenti risultano i loro stili di disegno e sceneggiatura – di fondere il realismo prosastico delle giornate passate a spulciare tomi di epigrafia per studiare i Santi dimenticati in preparazione alla tesi di laurea con un’ambientazione surreale e fantastica, in dosi così equilibrare da far apparire normale che cadano conigli bianchi al posto dei fiocchi di neve o che la meta più ambita per l’Erasmus sia Atlantide. Non c’è alcuno stacco straniante tra queste due dimensioni che, tra l’altro, accentuano la levità di Un anno senza te. I due piani si fondono con estrema naturalezza al punto da chiedersi se chiunque, in una fase così complicata e contorta della propria esistenza (e non soltanto perché è stato appena mollato) non tenda a vivere in un proprio mondo, parallelo a quello reale ma autonomo rispetto al primo, in cui è la fantasia a vincere sui turni con i coinquilini per pulire l’appartamento condiviso.

Un modo per sopravvivere? Forse. Io leggo più una tappa obbligata da attraversare per capire meglio se stessi. Poco importa se fatta di cinque, dodici o cento mesi. Prima o poi il mondo non sarà più lo stesso o come lo ricordavi. E lo stesso vale per i lettori di Un anno senza te.

Airboy, di James Robinson e Greg Hinkle

“Airboy. Un progetto che ha deliziato alcuni e fatto infuriare altri. Un’opera sicuramente provocatoria e – spero – divertente. Ma quello che davvero mi auguro è che sia, anche se opportunamente filtrata e deformata, sincera.
[James Robinson]

Il britannico James Dale Robinson, in qualità di sceneggiatore noto semplicemente come James Robinson (Manchester, 1º aprile 1963), ha consegnato alla storia un graphic novel d’autore fresco, veloce, che diverte e si diverte a dissacrare miti cartacei e la sua stessa figura di scrittore di successo. Robinson, infatti, è stato premiato con l’Eisner Award 1997, nella categoria “Miglior storia a puntate”, per la saga contenuta nei numeri dal 20 al 23 del suo Starman, finora la sua opera di maggior pregio, in cui ha rivitalizzato un personaggio della Golden Age del fumetto americano, caduto nell’oblio degli anni ‘50, come molti suoi colleghi anche di maggior fama, rendendolo un successo di critica e pubblico.

Un milione di anni fa, nell’attesa che una delle due grandi case editrici di fumetti americane, la Marvel Comics e la DC Comics, mi ingaggiassero come autore, scrivevo graphic novel e miniserie piuttosto bizzarre per piccoli editori. Qualcuno che abbia familiarità con i miei lavori ricorda per caso Illegal Alien, Blue Beard, 67 Seconds o la mia prima opera pubblicata, London’s Dark? Non mi ero allontanato consapevolmente da questo tipo di cose, che definirei personali e sperimentali, eppure erano passati anni dall’ultima volta in cui avevo anche soltanto pensato a qualcosa del genere. Anni? Se ci rifletto bene, credo fossero decenni. Volevo togliermi di dosso un po’ di quella ruggine creativa che avevo accumulato e Airboy mi sembrava l’occasione giusta. Volevo superare i confini tradizionali di questo genere di storie. Volevo turbare e provocare, comunicare le paure e le insicurezze che avevo dentro, le meschinità tra colleghi, l’angosciante terrore che la mia prossima idea potrebbe essere l’ultima. Volevo mettermi a nudo. E volevo farlo con un umorismo incentrato il più possibile su di me.

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Airboy è un aviatore, il protagonista di una celebre serie a fumetti ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale e appartenente, sempre, alla Golden Age. Un personaggio in guerra perenne contro il nazismo e declinato attraverso avventure che si dipanano tra cielo e terra, affiancato da uno squadrone di assi dell’aria. Il presupposto, però, che innesca la trama dell’Airboy di James Robinson (storia) e Greg Hinkle (disegni), è che il copyright del personaggio in questione non è stato rivendicato da nessuno alla scadenza. Così, come in un crossover tra realtà tangibile e un multiverso fatto di matita e china, un James Robinson riluttante e depresso viene assunto da Eric Stephenson di Image Comics [casa editrice della versione originale] per forgiare per Airboy un reboot come solo lui sa fare, un probabile trionfo come quello di Starman o Hawkman. Quello che ne nasce è una straordinaria avventura metafisica, metafumettistica farcita di humour ed elementi autobiografici anche intimisti, che vede Robinson coinvolgere Hinkle in stravizi e festini a base di sesso, droga, poco rock e molto rolla&sniffa nell’attesa di avere l’ispirazione giusta. Ma con Airboy non si scherza! Un personaggio integerrimo e incorruttibile come lui non può lasciare le mirabolanti peripezie del suo squadrone in mano a due debosciati pusillanimi. La sua bussola morale risulterà intaccata dalla nostra realtà depravata e superficiale? Come ottenere attenzione e rispetto dai suoi due increduli nuovi autori? Quale realtà avrà la meglio sull’altra?

AIRBOY è uno dei fumetti Image Comics più sorprendenti, geniali e divertenti degli ultimi anni. Un delirio assurdamente lucido di Robinson, che Hinkle fa volteggiare ad alta quota con il suo stile da indipendente e che Saldapress orgogliosamente pubblica in Italia in un volume brossurato di 120 pagine totalmente a colori e senza censure di alcun tipo, al prezzo di 14,90€. I primi quattro numeri sensazionali capitoli di Airboy sono impreziositi da contenuti extra di notevole interesse: la prefazione di James Robinson – che introduce in maniera puntuale quanto necessaria il lettore all’interno dell’opera ancora prima di aver letto il primo balloon –, gli studi sui personaggi, pagine della sceneggiatura originale, storyboard e making of del processo di realizzazione di alcune delle tavole più belle. Lecito aspettarsi un giorno, speriamo non troppo lontano, una deluxe edition cartonata.

Tutti quelli che leggono Airboy a un certo punto mi chiedono: «E allora? Tutte quelle cose sono successe veramente? Quanto c’è di vero?». E la mia risposta è sempre la stessa: «Tutto e niente. Decidete voi». Sono immensamente orgoglioso di questo lavoro. Lo considero tra i migliori tra quelli che ho scritto durante tutto l’arco della mia carriera. Credo fermamente, però, che qualsiasi sforzo artistico funzioni meglio quando nessuno lo spiega. Io ho finito, quindi, adesso tocca a voi. Grazie
[James Robinson]

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Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, di Franco Giubilei

Andrea Pazienza non se n’è mai andato veramente. È sempre rimasto qui con noi nonostante siano passati 23 anni da quel maledetto 15 giugno 1988. Se è vero che per diventare immortali bisogna avvalersi di un registro universale in grado di toccare il cuore delle persone a cui ci si rivolge, Paz ha fatto quello che doveva fare. Per questo, pur essendo separati da una differenza incolmabile di anni, Pazienza è riuscito a parlarmi ma soprattutto a raccontarmi di quelle sensazioni che attraversano ognuno di noi nei momenti più belli ma anche più difficili della nostra vita. Era questa la sua straordinaria forza: riuscire a sintetizzare con il disegno e il testo la realtà che lo circondava. In fondo, riprendendo le parole di Vincino:

Andrea non cercava altro che il segno del tempo

Franco Giubilei rinuncia ad imporre la sua parola al capitolo Pazienza, preferendo dare voce a chi, quegli anni, li ha vissuti e condivisi con la rockstar del fumetto italiano. Ecco quindi prendere parola le donne amate (Isabella, Betta, Marina,), gli amici (come Marcello D’Angelo, Gino Castaldo) o i compagni di strada (come Marcello Jori, Vincino, Filippo Scozzari). Il ritratto che ne esce non vuole essere definitivo, sarebbe una pretesa impossibile, tutt’al più rende più nitidi i contorni della sua figura. Attraverso le diverse testimonianze viene soprattutto approfondito quel mondo che Pazienza abilmente tratteggiava. La sua esistenza, invece, riusciamo solo a sbirciarla o a spiarla ma è giusto che sia così. Infatti nella realtà quotidiana non ci viene mai offerta l’occasione di conoscere qualcuno in una sola volta (e spesso neanche passandoci tutta la vita) perché quindi pretendere la stessa cosa da un libro?

Pazienza era amato da tanti per quella sua capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino adulto e carpirne l’essenza per le sue tavole, e odiato, perché se n’è andato troppo presto e gli interrogativi su quello che avrebbe potuto realizzare sono infiniti. Ma è andata così. Da questo libro ne esce un affresco umano e pieno di sensibilità sulla persona che era Andrea Pazienza, con i suoi pregi e i suoi difetti, un ragazzo/uomo innamorato della vita e del suo lavoro, ma allo stesso tempo sopraffatto da qualcosa di oscuro che lo tormentava fino a soffocarlo. La ricostruzione di Giubilei ci restituisce un Paz ricco di genio ma anche miserevole in tanti lati. Un Pazienza che una parte considerevole dei suoi “amici” o semplicemente ammiratori non vogliono ricordare, dedicandosi ad un vergognoso quanto patetico revisionismo storico dello scomparso prematuramente.

Paz

In questa biografia si affrontano gli inizi di quel bambino precoce a San Severo, sempre con una matita in mano intento a emulare il padre – un rapporto conflittuale sull’arte “alta” come la pittura e quella inferiore del fumetto che lo tormenterà fino alla fine – e i primi amori, il sud, la scuola e il trasferimento a Pescara dove la personalità prorompente e il fisco atletico lo faranno diventare un personaggio unico, da fumetto se vogliamo. Poi c’è la Bologna del DAMS, quella della rivoluzione artistica e musicale, quella di Tondelli, di Freak Antoni e degli Skiantos. Una Bologna simile a una Berlino dei giorni nostri. E lì ci trova Isabella Damiani, il suo primo grande amore che lo segnerà per sempre, e che lui tenterà di dimenticare invano, anche attraverso un matrimonio improvviso con Marina Comandini a Montepulciano dove si trasferì negli ultimi anni per trovare nuova pace interiore.

Quello che manca a questo prezioso lavoro del giornalista milanese è un (necessario) apparato iconografico che accompagni la narrazione della vita attraverso visione di estratti delle sue opere. Elemento imprescindibile per consentire anche al “profano” di capire i tanti riferimenti e rimandi contenuti in questo ottovolante umano e artistico che è la Vita di Paz.

“A me – dice Andrea Paz Pazienza in un’intervista a 25 anni – non interessa la maturità perché io non credo nella maturità nel senso di acquisizione di conoscenza, responsabilizzazione, presa di coscienza di certi fatti. Mi piacerebbe rimanere giovane il più possibile, nel senso di non doverla mai menare a nessuno dicendogli quello che secondo me deve o non deve fare”.

Franco Giubilei, Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, Odoya, Roma 2016, pagine 301, euro 18.

Il fumetto di Lo chiamavano Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, sarà al cinema dal 25 febbraio.

Intanto, per ingannare l’attesa, Lucky Red e La Gazzetta dello Sport presentano il fumetto basato sul film, disponibile in edicola da sabato 20 febbraio.

Scritto e curato da Roberto Recchioni [Dylan Dog, Orfani] e disegnato da Giorgio Pontrelli [Dylan Dog, Batman, legend of the dark knight] e Stefano Simeone [Orfani, Semplice, Ogni piccolo pezzo], questo interessante prodotto creativo che unisce le due arti, cinema e fumetto, generando qualcosa di completamente autonomo e parallelo, senza rischio di spoiler. Un sequel della pellicola che però è una storia a sè stante, che presenta dei rimandi ma non svela particolari fondamentali. Il consiglio da fanatici scrupolosi è di leggerlo, comunque, solo dopo aver visto il film, così da non rischiare nulla.

Sinossi del film: Enzo Ceccotti, piccolo delinquente di borgata, entra accidentalmente in contatto con una sostanza radioattiva. Data la sua esistenza, basata su espedienti, non passerà molto prima che scopra di aver acquisito dei superpoteri. Oltre lo strato di sporcizia e criminalità, oltre il rifiuto delle responsabilità derivate dai poteri, oltre il suo lato oscuro, più oscuro della melma che lo ha elevato al di sopra di ogni altro uomo, Enzo dovrà scegliere cosa essere: un paladino del Bene, un supercriminale o un cavaliere oscuro?

Un albo tutto a colori, al prezzo di 2,50 euro in aggiunta al costo del quotidiano, che sarà disponibile in quattro diverse copertine da collezione, come si addice ai migliori supereroi, realizzate dai fenomenali

Zerocalcare [La profezia dell’armadillo, Un polpo alla gola]

Leo Ortolani [Rat-Man]

Giacomo Bevilacqua [A Panda piace…]

e dallo stesso Roberto Recchioni.

«Lo chiamavano Jeeg Robot unisce Gomorra con Chronicle, è ambientato in un contesto di bassa criminalità romana, con questo tipo che acquista poteri straordinari… Ha dimostrato che anche per noi italiani è possibile fare un bel film di supereroi». – [ Leo Ortolani ] –

Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti

«… cioè… un supereroe con le scarpe di camoscio non s’è mai visto!»

Quando pensiamo ai supereroi, al loro ambiente naturale, non ci verrebbe in mente mai Roma, o meglio penseremmo per prima ad una metropoli americana, reale o verosimile che sia, o al massimo, i più geek tra noi, potrebbero pensare a Hong Kong, Tokyo o qualche altra città dotata di grattacieli da buttare giù, folle urlanti di terrore al cospetto del villain di turno, oceani immensi in cui immergere giganteschi robot. Figurarsi se un produttore italiano poteva credere in un progetto così intelligente, che supera le “barriere architettoniche” di una città monumentale come Roma e le rende plausibile ambientazione di una storia fichissima. Gabriele Mainetti non fa un azzardo, semplicemente crede nel suo progetto fantastico, in se stesso e soprattutto nelle possibilità infinite del cinema,  si auto produce e dimostra sul campo tutto il suo coraggio. Per rappresentare bene un supereroe, bisogna, in fondo, un po’ esserlo.

Tor Bella Monaca fa da sfondo alle vicende di Enzo Ceccotti [Claudio Santamaria], piccolo delinquente di borgata, che entra accidentalmente in contatto con una sostanza radioattiva. Data la sua esistenza, basata su espedienti, non passerà molto prima che scopra di aver acquisito dei superpoteri. Taciturno, solitario e chiuso in se stesso, Enzo sceglie la strada della superdelinquenza, solo gli obiettivi si fanno più facili da raggiungere. Alessia, vicina dissociata per via di un lutto, rivede nelle capacità di Enzo le caratteristiche positive del suo eroe-fissazione: Jeeg robot d’acciaio. Oltre lo strato di sporcizia e criminalità, oltre il rifiuto delle responsabilità derivate dai poteri, oltre il suo lato oscuro, più oscuro della melma che lo ha elevato al di sopra di ogni altro uomo, Enzo dovrà scegliere cosa essere: un paladino del Bene, un supercriminale o un cavaliere oscuro?

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Un superhero movie sui generis, pieno di azione e divertimento, che non sfigura di fronte ai suoi stessi modelli di riferimento, ma che sa essere romantico, nel senso originario della parola, commovente e profondo e, quindi, qualcosa di imparagonabile. Trapela una diffusa tenerezza dietro tanto fragore di lotta e macerie. Un trasporto nel narrare per immagini, che assomiglia a quello riscontrato già nei corti di Mainetti, Basette, del 2008 e Tiger boy, del 2012, in cui sradica un personaggio appartenente al contesto di animazione giapponese per innestarlo in un ambiente suburbano perché sia la scintilla che serve al protagonista per crescere e reagire ad una sorte avversa che non gli si addice. Allo stesso modo in Lo chiamavano Jeeg Robot la fragilità dei personaggi dovrà fare inesorabilmente i conti con un’invulnerabilità fortuita e la voglia o no di redenzione.

La coraggiosa operazione di Gabriele Mainetti e della sua Goon Films si basa su di un perfetto equilibrio tra la forza centrifuga, esercitata dagli elementi che il pubblico non appassionato di fumetti, anime e film di genere non può che considerare fuori dal suo contesto, e la forza centripeta dell’ambientazione romana, che riporta, invece, lo spettatore alla realtà, fornendo credibilità, concretezza, tangibilità, proprietà necessarie per partecipare emotivamente alle straordinarie vicende che si abbattono sui personaggi del film.

Dopo l’adrenalinico incipit in media res del protagonista, inseguito dalla polizia, per i vicoli del centro storico, fino al Lungotevere, si viene inesorabilmente rapiti nel crescendo emozionale di un preciso meccanismo cinematografico, senza fretta, proprio come il tema musicale principale che cresce d’intensità, di pari passo con la consapevolezza di Enzo.

«Poi organizziamo per il giorno delle tenebre, eh!»

La struttura narrativa è semplice, classica, ma non per questo banale. Una sceneggiatura magistrale, quella di Nicola Guaglianone e Menotti (anche fumettista), costruita su forti contrasti: Enzo alias Jeeg Robot, o Hiroshi, come lo chiama Alessia, e Fabio, lo “Zingaro”, sono contrapposti non solo sul campo di battaglia, ma anche per la filosofia di vita, che anche se è malavita, non è detto che debba essere senza onore. Quello che Enzo desidera per sé è passare inosservato e rimanere nell’ombra e nella sporcizia, dove è sempre stato, lontano dalle preoccupazioni, senza responsabilità, abituato a fare i conti solo con se stesso. Un outsider solitario e introverso. Tutto il contrario dello Zingaro che, protetto da un manipolo di subalterni senza diritti di opinione, vuole lasciare un segno della sua presenza nel mondo, fare “er botto”, mosso da una filosofia tutta sua, senza alcun valore, tendente all’effimero. In passato ha assaporato i suoi 15 minuti di notorietà partecipando al programma TV Buona Domenica e da allora ha sempre sperato che di nuovo i riflettori potessero illuminarlo. Di nuovo, come già notato per Creed, nell’anno de Il risveglio della forza, è dall’oscurità e dalla melma che emerge l’eroe mentre il cattivo viene rappresentato sempre alla luce del sole, come a voler dire che il Male oggi non si cela nell’ombra ma, ben visibile, si mostra senza essere riconosciuto come tale.

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Lo Zingaro che Luca Marinelli diventa sul grande schermo, è una sua personale rivisitazione del personaggio del Joker, mentalmente instabile, istrionico clown e spietato assassino, crudele e ironico. Le sue battute di spirito sono memorabili, specialmente nel duello verbale con Enzo.

«Ma se po’ sapè te chi cazzo sei? T’ha mozzicato un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da n’artro pianeta?»

Anche la musica, scelta per caratterizzare i personaggi è studiata per sottolineare questo dualismo. Da una parte il tema musicale del personaggio di Enzo e la versione intima della sigla italiana della serie televisiva, cantata con sentimento dallo stesso Santamaria mentre scorrono i credits, dall’altra, in perfetto contraltare, il repertorio “da esibizione” dello Zingaro, costituito da alcune delle canzoni più popolari degli anni della messa in onda di Jeeg in Italia: del 1978 è Un’emozione da poco di Anna Oxa, tutte del 1982, invece, Latin lover di Gianna Nannini, Non sono una signora di Loredana Bertè e, infine, Ti stringerò di Nada, impiegata magistralmente per generare un efficace straniamento in una scena di ultraviolenza che richiama Arancia meccanica e Natural born killers.

All’astrazione della trama si contrappone, infine, la solidità degli elementi scenici, degli effetti meccanici e digitali, e la tangibilità della condizione sociale rappresentata, della fotografia che fornisce solennità ma non astrae. A questo, leggiadramente, concorrono gli espliciti elementi di significazione simbolica come il murales celebrativo di un’impresa di Enzo con la scritta xenofoba che insulta invece lo Zingaro, sempre per sottolineare visivamente il contrasto tra i due avversari, e gli elementi nascosti nel sottotesto, dove a diventare un concentrato di significati allegorici è un palloncino, emblema dell’infanzia e dell’innocenza già nel famosissimo cortometraggio Il palloncino rosso, Palma d’Oro nel 1956.

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Speriamo che il coraggio e la concretezza dimostrati da Mainetti siano d’esempio e d’orgoglio per il cinema italiano, fossilizzato in un loop di romanzi criminali e solite commedie che, alla fine, non ci portano, se non raramente, alle vette che meritiamo già solo per le ambientazioni naturali e cittadine, che il mondo intero ci invidia.

«Noi restiamo tutti con te…»

La graphic novel ufficiale di Maze Runner – La fuga

«Fuggire dal labirinto era solo l’inizio»

Edita da Panini Comics, Maze Runner – La fuga è la graphic novel ufficiale, un’antologia tie-in per approfondire il mondo distopico creato da James Dashner e il passato dei personaggi che incrociano il cammino di Thomas, il protagonista dell’emozionante saga trasformata in film dalla 20th Century Fox.

«Sto parlando del mondo di Maze Runner – una versione futura del nostro mondo, spoglio e insensibile eppure ancora pieno di cose come l’amicizia, la lealtà e una feroce volontà di sopravvivere. E con personaggi che sono diventati reali per così tante persone. Vederlo prendere vita in un film – sul grande schermo – è stato indescrivibilmente elettrizzante per me».

Disegni stilizzati, personaggi riconoscibili, atmosfera mantenuta il più possibile simile a quella dei film, ampia tavolozza di colori, tra l’altro ben dosati e soprattutto bellissime le tavole divisorie a tutta pagina. Cinque storie che mostrano momenti inediti del passato dei ragazzi rinchiusi nella Radura al centro del Labirinto ma anche rivelazioni incredibili sulla dottoressa Ava Page, l’origine del W.C.K.D. e la vera funzione del Labirinto. Impreziosiscono il volume due storie scritte dal regista e dallo sceneggiatore dei film, Wes Ball e T.S. Nowlin e un’introduzione veramente intimista dell’autore dei romanzi, citata a più riprese in questa recensione. Tutto il design grafico è stato realizzato, inoltre, da autori di fumetti di fama mondiale.

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“CORRI SOLO”
STORIA: Wes Ball & T.S. Nowlin TESTI: Jackson Lanzing & Collin Kelly [autori di Hacktivist] MATITE: Marcus To [The Flash] CHINE: Richard Zajac & Marcus To COLORI: Josan Gonzalez [The woods]
In cui approfondiamo i pensieri di Minho mentre deve addestrare un nuovo velocista.
“IL MIO AMICO GEORGE”
SCRITTO da Wes Ball & T.S. Nowlin DISEGNI: Marcus To COLORI: Josan Gonzalez
Alby, il primo ad entrare nel labirinto è in compagnia del suo unico amico, ormai “spaccato”, George. Si tratta forse del fratello di Brenda?
“IL VERO LABIRINTO”
SCRITTO da Jackson Lanzing & Collin Kelly DISEGNI: Nick Robles COLORI: Josan Gonzalez
È Aris il protagonista di questa storia ambientata in un altro labirinto dove lui è l’unico elemento maschile.
“BRUCIATI”
SCRITTO da Jackson Lanzing & Collin Kelly DISEGNI: Andrea Mutti [Uomini che odiano le donne] COLORI: Vladimir Popov [Clive Barker’s Hellraiser]
Il primo incontro tra Brenda e Jorge.
“IL MONDO È WICKED”
SCRITTO da Jackson Lanzing & Collin Kelly DISEGNI: Tom Derenick [Batman/Superman] COLORI: Whitney Cogar [Giant days e Adventure time]

La storia più interessante per mole di informazioni raccontate: gli antefatti che hanno portato alla diffusione della malattia, ai tentativi di cura, alla creazione dei labirinti per scopi medici e le divergenze di opinione tra le dottoresse Ava Page e Mary Cooper, il Braccio Destro.

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Questo volume, totalmente a colori, fa da preludio al secondo adattamento cinematografico, mostrando particolari nuovi e inediti sia per i fan dei romanzi sia per chi ha amato la versione su grande schermo. A chi non ha letto i romanzi consiglio, però, di leggere questa graphic novel solo dopo aver visto il secondo film per non rovinarsi gli elementi-sorpresa.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa.»