Dodici notti e dodici giorni scanditi da un enorme quadrante umano in cui le lancette si rincorrono ansiose di compiere il proprio destino. Il palcoscenico delimita il tempo e l’esistenza dei personaggi, che in questo spazio ristretto vivono le loro storie, intrecciate a doppio filo le une con le altre, nonostante spazi enormi li dividano. Uno dopo l’altro ruotano intorno al quadrante di questo orologio delimitato da dodici sedie, così come dodici sono gli attori, che entrano in scena a turno, come negli orologi rinascimentali, raccontano il loro frammento di storia e poi tornano a girare insieme agli altri, in un moto che sembra infinito.
A dare avvio a questo giro del tempo è un naufragio, che porta sulle coste dell’Illiria due gemelli, Viola e Sebastiano, separati dalle onde e giunti in città in un tempo diverso. Viola, per difendere il suo onore in una terra sconosciuta, si traveste da uomo e inizia a lavorare come paggio per il duca Orsino, che smania d’amore per Olivia, una nobildonna devastata dal lutto per la morte del fratello e insensibile al suo corteggiamento ostinato. Sebastiano invece sviluppa un particolare affetto per il capitano Antonio, acerrimo nemico di Orsino. Il travestimento di Viola, sebbene pensato per salvarle la vita, la aggroviglia in una serie infinita di intrighi, perché si innamora di Orsino, ma non può confessargli il suo amore, e a sua volta Olivia si innamora di lei, o meglio della sua versione maschile, quando la raggiunge per portale i messaggi d’amore di Orsino.
Dodici notti è il tempo che è loro concesso per sciogliere la matassa di inganni in cui sono imbrigliati, svelare la loro vera natura e i loro sentimenti, ma altri personaggi, tra aiutanti e malevoli consiglieri, ruotano attorno al loro destino e concorrono a sconvolgerne i piani. Ma è proprio qui il gioco a cui ci chiama Shakespeare, il gioco dell’inganno che nasce dal travestimento e genera equivoci, confonde e dissimula, anche lo spettatore che sospende l’incredulità e si trova ad essere parte integrante di questo grande sogno in cui nulla è quello che sembra.
Loredana Scaramella conduce lo spettatore in questo viaggio straordinario, accompagnando i suoi passi con la musica, e riempiendo i suoi occhi con costumi steampunk che collocano il racconto in un tempo sospeso, irriconoscibile, più un tempo della mente che della realtà, ma scandito con tale cura da sembrare reale. La dodicesima notte (o quel che volete) è architettato come un sogno e per questo costretto in un tempo limitato, in cui gli eventi si accavallano senza tregua per giungere al sospirato finale prima del risveglio, ma proprio per questo il tempo della rappresentazione è ancora più prezioso e porta con sé un’aura di magia, pronta a dissolversi non appena si chiude il sipario.
Venere e Adone, di Daniele Salvo
Londra, 1593, anno nero come la peste che la dilania. I teatri sono chiusi e c’è il divieto assoluto di assembrarsi, ma l’immobilità degli individui non corrisponde a quella del loro genio creativo. Il teatro vive e freme nella penna dei suoi autori, e nuove idee scalpitano desiderose di incarnarsi sulla scena. William Shakespeare, costretto lontano dal palcoscenico per quasi due anni, compone i poemetti Venere e Adone e Il Ratto di Lucrezia, il primo dedicato a Henry Wriothesly, terzo conte di Southampton, probabile ispiratore dei suoi sonetti d’amore.
Il poema tesse in 1194 versi il desiderio di Venere, dea dell’amore, per il giovane Adone, più sensibile al richiamo della caccia al cinghiale che a quello dell’amore carnale. Venere lo insegue come “la colomba insegue il grifone”, tenta la strada dell’adulazione, della tenerezza, dell’invocazione disperata, ma nulla sembra vincere il cuore di piombo di Adone, più duro della pietra scalfita dalla pioggia. Le lacrime di Venere non sono più efficaci della sua sottile arte di seduzione, e nulla basta a trattenerlo nella selva con la dea, né i baci rubati, né i lamenti, né i dolci sospiri. Forse solo la morte può spaccargli il cuore.
La passione di Venere e Adone infiamma il Globe Theatre di Roma, accende il palcoscenico di fuoco e sangue, sotto il passo di una Venere appassionata e selvaggia che si avventa su un Adone pallido e freddo come il ghiaccio. Melania Giglio incarna la dea con una potenza sovrumana, portando i versi shakespeariani in musica e in parole, senza privarli della loro forza, al contrario trasformandoli in carne, sangue e passione. Adone, impersonato da Riccardo Parravicini, controbilancia lo slancio voluttuoso di Venere con una compostezza quasi eterea, celebrando l’amore che innalza l’animo al paradiso e atterrando la lussuria che lo trascina all’inferno.
Opposti come fuoco e ghiaccio, estate e inverno, rosso e bianco, Venere e Adone si rincorrono senza mai toccarsi, mossi ad arte da uno Shakespeare presente in scena nei panni di Gianluigi Fogacci, che li muove come burattini, regista dello spettacolo delle loro vite. Shakespeare li abbraccia e li divide, li percuote e li consola, deus ex machina di un poema nato in un momento storico di isolamento, che trova nell’attualità la sua perfetta realizzazione, grazie alla lungimiranza di Daniele Salvo, che ha saputo cucire la storia presente addosso ai personaggi e adattare il poema shakespeariano al teatro con una naturalezza tale da abbattere la distanza spaziale e temporale che ci separa dalla Londra di fine Cinquecento, e portare sulla scena spirito vivo del passato, grondante di sangue e d’amore.
Dopo il forzato distanziamento sociale e il lockdown, il Silvano Toti Globe Theatre, l’unico teatro elisabettiano d’Italia, nato nel 2003 grazie all’impegno dell’Amministrazione Capitolina e della Fondazione Silvano Toti per una geniale intuizione di Gigi Proietti, riaprirà le porte alla nuova stagione il 29 luglio 2020.
L’obiettivo è quello di confermare agli spettatori un appuntamento di incontro e condivisione che è diventato consuetudine dell’estate a Roma. L’intento sarà quello di offrire una serie di spettacoli coerenti con la programmazione che ha distinto il teatro, cercando per quanto possibile di non penalizzare la ricchezza numerica degli interpreti, senza trascurare uno sguardo alla formazione e alla didattica.
La grande novità di quest’anno è la collaborazione con un partner naturale per collocazione ed eccellenza, l’Accademia Nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico”.
In coproduzione con Politeama s.r.l. – Teatro di Roma – Accademia Silvio d’Amico, il Globe ospiterà una nuova versione de “I due gentiluomini di Verona” con le musiche del premio Oscar Nicola Piovani , la traduzione originale di Vincenzo Cerami, per la regia di Andrea Baracco. Offrirà a giovani attori l’occasione, l’emozione di debuttare nella professione, incontrando un pubblico numeroso, recitando su un grande e vero palcoscenico le parole di un autore che costituisce un appuntamento fondamentale per ogni interprete.
È questo il giusto sviluppo di uno spazio che ha ospitato in precedenza i debutti degli allievi di tante scuole nazionali di recitazione e ha organizzato laboratori incentrati su testi shakespeariani. Anche in questa stagione si terrà uno studio/laboratorio di Marco Carniti su “Lucrezia” di William Shakespeare.
Nonostante il rallentamento dovuto al Covid-19, il 16 aprile 2020, è stato inaugurato l’Archivio Silvano Toti Globe Theatre, promosso e ospitato dal Dipartimento di Lingue Letterature e Culture Straniere dell’Università Roma Tre, con cui continua anche quest’anno la collaborazione. Durante la stagione, infatti, il teatro ospiterà il PCTO di Roma Tre rivolto a studenti delle scuole superiori romane e laziali, dedicato alle potenzialità del teatro Shakespeariano per l’apprendimento della lingua inglese.
PROGRAMMA
La stagione 2020 del Silvano Toti Globe Theatre
Dal 29 luglio al 2 agosto ore 21.15
VENERE E ADONE
Regia di Daniele Salvo.
Traduzione e adattamento Daniele Salvo
Produzione Politeama s.r.l.
Dal 6 al 23 Agosto, ore 21.15 (da giovedì a domenica)
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
Regia di Riccardo Cavallo
traduzione Simonetta Traversetti
Produzione Politeama s.r.l.
11, 12 Agosto ore 21.15
CANZONI
Uno spettacolo di Germano Mazzocchetti e Nicola Fano.
Supervisione artistica Marco Carniti
Produzione Politeama s.r.l.
18, 19 Agosto – 15,16, 22 Settembre ore 21.15
LE OPERE COMPLETE DI SHAKESPEARE IN 90 MINUTI
Regia Andrioli, Checcacci, Degl’Innocenti.
Prodotto da Politeama s.r.l. e Macchina del suono
Dal 27 al 30 Agosto 21.15
Studio da
I DUE GENTILUOMINI DI VERONA
Regia di Andrea Baracco
Prodotto da Politeama srl – Teatro di Roma – Teatro Nazionale e
Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”
Dal 2 al 6 Settembre, ore 21.00
SHAKESPEA RE DI NAPOLI
regia di Ruggero Cappuccio
Prodotto Teatro Segreto e Politeama S.r.l.
11 ,17, 18, 23, 24, 25 Settembre ore 21.00
12,13 , 19, 20, 26, 27 Settembre ore 18.00
LA DODICESIMA NOTTE
Regia Loredana Scaramella
Traduzione e adattamento Loredana Scaramella.
Produzione Politeama s.r.l.
7 Settembre ore 21.00
MURMAT SHORT FILM FESTIVAL
Il MSFF nasce nel 2018 da un’idea di Angelica Mureddu e Valerio Matteu con il fine di sviluppare una manifestazione culturale, capace di creare connessioni tra i professionisti del settore artistico e cinematografico. La manifestazione è organizzata senza alcun scopo di lucro, dall’associazione Shake Art, in collaborazione con Murmat Studio e Nuvole Rapide Produzioni.
Al Globe con mamma e papà
Il Sabato e la Domenica mattina spettacoli per bambini in compagnia di Shakespeare
1,2, 22, 23 Agosto – 5, 6,19, 20 Settembre ore 11.00
RICCARDINO TERZO
Scritto e diretto da Gigi Palla
Produzione Politeama s.r.l.
8, 9, 29, 30 Agosto – 12, 13, 26, 27 Settembre ore 11.00
LE TRE STREGHE DI MACBETH
Scritto e diretto da Gigi Palla
Produzione Politeama s.r.l.
Sogno di una notte di mezza estate, di Riccardo Cavallo
Un salto indietro nel tempo, il teatro elisabettiano in tutto il suo fascino: al Silvano Toti Globe Theatre si concretizza la vera magia di Shakespeare. Sogno d’una notte di mezza estate non ha bisogno di presentazioni. È la commedia della magia, della dimensione onirica e del sogno a occhi aperti, del divertimento popolare e della beffa. È un merletto raffinato, cucito alla perfezione da uno Shakespeare a metà circa della sua carriera, un labirinto in cui la realtà si contrappone al sogno, l’indiscutibile si confronta con l’incertezza, il mondo della magia e della natura si mescolano al mondo degli uomini e ai loro terreni affanni. È sopratutto il gioco a incastri, tema caro al grande drammaturgo, del teatro nel teatro.
La magia che scaturisce da questa storia di amori, sortilegi, fughe e duelli rivive di fronte agli occhi dello spettatore romano in tutta la sua sublime unicità grazie a una location del tutto eccezionale: la ricostruzione esatta del Globe Theatre di Londra, quel mitico luogo che, tra il 1586 e il 1612 circa, vide susseguirsi sul suo palcoscenico la più straordinaria produzione drammaturgica di tutti i tempi, quella di tale Sir. Shakespeare.
Diretto da Gigi Proietti e situato nella piacevole cornice di Villa Borghese, il Silvano Toti è uno splendida struttura in legno che propone nella calda estate romana una selezione di opere del repertorio shakespeariano, tra commedie e tragedie in lingua originale o con originali riadattamenti.
Al di là del singolo titolo al botteghino dunque, l’atmosfera che si respira è pura magia. Il teatro è volutamente spartano (sedili in legno e posti in piedi sul parterre) per riproporre al pubblico in tutta la sua interezza l’esperienza del teatro elisabettiano, passatempo popolare accessibile anche alle classi meno abbienti.
Ideato e rappresentato in occasione di una celebrazione di nozze, il Sogno si snoda lungo un intricato guazzabuglio di situazioni e personaggi fino a formare un percorso ad anello che va dall’annuncio di un matrimonio tra il re di Atene e la sua consorte conquistata in guerra a una benedizione nuziale “multipla”, in un lieto fine che unisce a festa tutti i personaggi.
Le chiavi di lettura con cui è possibile analizzare questa commedia sono infinite come infinito è il gioco degli specchi che frantuma le prospettive e espande una storia in mille nodi narrativi.
Il testo shakespeariano, con la traduzione di Simonetta Traversetti, riprende vita per la regia di Riccardo Cavallo in un adattamento che conserva in modo lucido e intelligente il legame con la tradizione.
In primis nel far emergere benissimo gli intrecci psicologici e i movimenti di tensione che si nascondono nei diversi ruoli dei protagonisti: Ippolita non è una regina innamorata ma una preda, Elena non è solo una fanciulla preda delle pene d’amore ma una donna piena di insicurezze e lacerata tra la fedeltà all’amica d’infanzia Ermia e la gelosia che la bellezza dell’amica suscita in lei. Persino di Titania e Oberon, Re e Regina delle Fate, esemplari di un mondo incantato e irraggiungibile, sembra possibile comprendere le ragioni di comportamenti capricciosi e futili grazie alle puntuali interpretazioni degli attori.
Elemento forse ancora più importante e apprezzabile è la resa drammaturgica, fedele ma magistralmente attualizzata, delle gag comiche per eccellenza della rappresentazione: la compagnia di zotici artigiani che con improbabili manie di grandezza e con la scatenata bizzarria di assurde trovate sceniche tenta di mettere in scena uno spettacolo in vista delle nozze del Re di Atene.
Si tratta di Peter Quince, Francis Flute, Snug e Tom Snout – rispettivamente interpretati da Marco Simeoli, Roberto Stocchi, Andrea Pirolli e Claudio Pallottini – protagonisti loro malgrado degli intermezzi tra i più divertenti della storia della commedia.
La loro maldestra ignoranza è contestualizzata e resa attuale da una calata napoletana che conferisce alla loro esibizione, tutta focalizzata su iperboliche e disastrose prove teatrali, un aspetto di farsa partenopea a cui è impossibile restare indifferenti. Fanno divertire il pubblico con gestualità esagerate e tempi comici perfetti.
Lo studiato meccanismo del teatro nel teatro, costruito ad hoc dall’autore, acquista una credibilità e un’efficacia insolita e divertentissima.
Abbassa definitivamente ogni tono drammatico della storia la beffa per eccellenza: la Regina delle fate, costretta con un filtro d’amore a prostrarsi folle d’amore a Nick Bottom, tessitore con velleità artistiche, per di più mostruosamente trasfigurato in un essere antropomorfo con la testa d’asino.
Straordinaria emerge la figura di Titania, interpretata da Claudia Balboni, gigante tanto nel timbro vocale quanto nella presenza scenica. A Gerolamo Alchieri, splendidamente poliedrico nella sua interpretazione, spetta invece il difficile ruolo di Nick Bottom, forse il personaggio comico più riuscito di Shakespeare.
Tutt’altro che secondari alla riuscita della giusta ri-creazione dell’atmosfera festosa e fiabesca del Sogno sono i costumi, curati da Manola Romagnoli, capaci al tempo stesso di identificare la classe sociale d’appartenenza (elemento fondamentale nel gioco dei ruoli di Shakespeare) e di astrarre totalmente ogni ipotesi documentaristica di datazione epocale per innalzare tutto a un piano sospeso tra il mito e la leggenda.
Personaggio cerniera dell’intera vicenda è Puck: folletto scaltro, malandrino, tutt’altro che impavido con il suo padrone ma scanzonato e risolutivo, è lui a fare da ponte tra il mondo magico delle fate e il mondo degli uomini.
Gerolamo Alchieri da’ a questo personaggio una fisicità per nulla “follettosa” ma ancor di più stupisce la sua capacità di sembrare piccolo, invisibile nell’oscurità del bosco, indaffarato a rimediare ai suoi pasticci e, infine, immenso nel vibrante monologo finale che incarna e rivela le parole e il pensiero di Shakespeare in persona, il suo legame con il palcoscenico, con il pubblico e la sua intera concezione del teatro come “sogno a occhi aperti”.
La scenografia, a cura di Silvia Caringi e Omar Toni, è semplice, come nel teatro elisabettiano. Pochi elementi bastano a far vivere una molteplicità di situazioni che si susseguono nei due topoi della commedia classica: il palazzo e il bosco. Le luci, disegnate da Umile Vainieri, creano le atmosfere, scandiscono il passare delle ore e soprattutto demarcano quella sottile linea di confine tra il giorno e la notte, tra il regno della magia e la società degli uomini.
Potere evocativo di immagini, musica, trame che si sovrappongono e – non ultimo – il fascino della parola di Shakespeare: ogni elemento si ricompone in un grande quadro finale, tutto si salda in una compiuta unità. Tuttavia ogni cosa resta sospesa nel Sogno. Tutto è ricoperto da un aurea di magia e incanto.
Il pubblico, a fine rappresentazione, si chiede se abbia assistito a un sogno o a uno spettacolo reale. E puntale nel preciso istante in cui la magia del teatro ha compiuto la sua missione, dal palco riecheggiano le parole di Shakespeare, messe in bocca al folletto Puck: “Pensate, per rimediare al danno/che qui vi abbia colto il sonno/durante la visione del racconto/e questa vana e sciocca trama/non sia nulla più di un sogno.”
Gigi Proietti in Omaggio a Shakespeare
Kean, ou Désordre et Génie. Genio e sregolatezza. Così Alexandre Dumas definisce Edmund Kean, l’attore inglese che nei primi anni dell’Ottocento ha scardinato la forma classica della recitazione, interpretando i grandi eroi shakespeariani come nessuno aveva fatto prima di allora, privandoli della gestualità ampollosa e della voce affettata che caratterizzava interpretazioni classiche. Kean ha inventato la recitazione emozionale moderna e ha riscritto Shakespeare sul palcoscenico, ma il suo lavoro non è stato sempre compreso dai suoi contemporanei e la sua carriera ha visto momenti bui, porte chiuse e sgambetti da parte dei suoi rivali, alternati a momenti di grande splendore in cui l’attore si abbandonava agli eccessi. Ma in ogni momento Shakespeare era con lui e i suoi personaggi erano diventati i protagonisti della sua tragedia personale, la sua voce e il suo spirito.
Sono passati quattrocento anni dalla morte di William Shakespeare, ma grazie agli attori come Kean i suoi versi continuano a risuonare nei teatri, suscitando le stesse emozioni di quando sono stati scritti. Oggi a metterli in scena è Gigi Proietti, che sale per la prima volta sul palcoscenico del Globe Theatre di Roma per riportare in vita questo grande attore inglese e la sua tragica storia. Le parole sono quelle di Raymund FitzSimons, che nel 1989 aveva scritto per Ben Kingsley un monologo in cui raccontava l’ascesa e la caduta di Edmund Kean, in cui a dare voce alle sue emozioni più profonde era proprio William Shakespeare, il drammaturgo che aveva amato di più.
Il copione di FitzSimons è un testo aperto, che lascia entrare e uscire di continuo tutti i grandi personaggi shakespeariani che hanno scandito la carriera di Kean sin dai tempi in cui veniva bistrattato come l’ebreo Shylock e relegato al ruolo di Arlecchino nella provincia londinese, fino a quando era all’apice del suo successo al Drury Lane e si abbandonava senza freno ai piaceri della carne, prendendo in prestito i versi di Amleto e Otello per parlare d’amore alle sue amanti. Poi anche la stella di Kean è tramontata e, come è toccato in sorte anche a Macbeth e Riccardo III, il piccolo regno che si era costruito sul palcoscenico si è disgregato tra le sue stesse mani e l’attore è piombato in un abisso di disperazione.
Shakespeare per Kean è vita, è l’aria che respira ogni sera sul palcoscenico, e lo stesso è per Gigi Proietti, fatto della stessa sostanza del teatro, che non ha mai abbandonato nonostante il grande successo riscosso al cinema e in televisione. Il Globe Theatre di Roma esiste grazie a lui, Shakespeare continua a vivere grazie al suo amore sconfinato per il teatro o oggi anche Edmund Kean torna a vivere nella sua straordinaria interpretazione. Chi meglio di un grande attore può mettere in scena lo stato d’animo di chi è vissuto di teatro, ha visto il successo e la sconfitta, la speranza e la frustrazione, l’ammirazione e l’odio dei rivali? Proietti mette in scena se stesso, trasponendo nella biografia di Kean la sua carriera di attore ancora all’apice della forma e del successo, e come lui riesce a toccare il cuore del pubblico, a farlo ridere e a commuoverlo senza simulare le emozioni, ma portando in scena solo se stesso.
Re Lear, di Daniele Salvo
“Che potrà dir Cordelia? Tacere, solo, ed amare in silenzio”. Questa è la sorte di chi ha il cuore leggero e non ha bisogno di appesantirlo con vane parole, per aggiungere orpelli alla purezza dei suoi sentimenti. Cordelia, la figlia minore dell’anziano Re Lear, ama suo padre con sincerità, ma il suo sentimento è schiacciato dalle lusinghe di Goneril e Regan, le figlie più furbe, che lo imboniscono per accaparrarsi una fetta più grande del suo regno. Re Lear è anziano, ma non abbastanza saggio per leggere il cuore invece delle parole, e senza esitazione punisce Cordelia per il suo amore silenzioso, la bandisce dal suo regno e lascia le sue sorelle a ballare sui suoi possedimenti.
Il regno è smembrato tra i due cani famelici travestiti da donne, e Lear resta solo con il suo seguito a vagare per la foresta in cerca di un riparo, di qualcuno che lo accolga nella sua dimora, come re e come padre. Ma le sue beneamate figlie non conoscono la pietà, hanno perso l’umanità nell’istante stesso in cui sono diventate regine, e la Britannia non è più la casa accogliente dei suoi ricordi, ma una terra fredda, violenta, in cui la giustizia trionfa sull’ingiustizia e l’adulazione vince i cuori più deboli. Anche allo sprovveduto conte di Gloucester spetta la stessa sorte, annebbiato dai racconti calunniosi del figlio bastardo Edmund alle spalle dell’ignaro Edgar, allontanato dalla corte con l’accusa di tradimento e gettato in pasto alle bestie feroci con l’unica colpa di aver amato troppo suo padre. Edgar vaga nella natura, vestito di stracci e pazzo di solitudine, proprio come Lear ma, quando le loro strade si incontrano, la luce della verità spacca l’oscurità e gli anziani sovrani di Britannia vedono la verità oltre la cecità dei loro occhi stanchi.
I giovani e gli anziani si scontrano su un campo di battaglia universale, schierando la lealtà e la vanagloria a difesa della propria vita, su un palcoscenico vuoto, spogliato da Daniele Salvo di tutti gli elementi decorativi in favore dell’essenzialità e della nitidezza interpretativa, in cui l’uomo si batte contro l’uomo sotto lo sguardo impietoso della natura. La natura infatti è l’unica scenografia possibile per questa triste vicenda umana, in cui i re abbandonano i costumi regali per ritrovarsi nudi al cospetto della verità, così come di una foresta in cui non c’è riparo per le tempeste della vita.
Ma se il vecchio Lear e il giovane Edgar hanno abdicato ai beni materiali, un bene più grande li attende nella natura selvaggia: la follia e con questa il privilegio di toccare l’essenza delle cose, la verità senza l’impalcatura della ragione. E nella sua messa in scena Daniele Salvo punta proprio a svelare la verità dei sentimenti, annullando gli orpelli stilistici che nei secoli hanno appesantito questo testo, per ricondurre la parola al suo potere originario e regalare ai personaggi un’umanità dimenticata, lasciando al corpo e al sangue il privilegio di narrare il dramma di Re Lear.
Molto Rumore per Nulla, di Loredana Scaramella
Molto Rumore per Nulla è il dramma della parola, più affilata di una spada e più dolce del miele, tessitrice di inganni e soave incantatrice. Loredana Scaramella traduce e adatta la parola umoristica e tagliente di Shakespeare in una calda estate salentina e la fa esplodere con tutto vigore sul palcoscenico del del Globe Theatre.
L’eco dei tamburi di guerra risuona ancora nelle orecchie dei giovani reduci in cammino verso la quiete bucolica del focolare domestico, dove le donne, in fermento per il loro ritorno, volteggiano spensierate tra i panni freschi di bucato. La guerra degli uomini è finita. Ma ora, nell’inter-regno di pace che intervalla i combattimenti per dare ristoro ai soldati, un’altra guerra sta per avere inizio, quella dei sessi, che rivendicano il diritto di plasmare a loro piacimento le regole della società come uomini contemporanei. Il grembo della terra d’origine li attira con le lusinghe delle belle donne, la squisitezza del cibo e del vino, e la musica travolgente delle feste, ma allo stesso tempo li mette alla prova su un campo di battaglia più scivoloso del precedente, in cui vince solo chi ha la lingua più affilata e l’intelletto più arguto.
Beatrice, vergine bisbetica, e Benedetto, misogino burlone, sono i campioni dei due schieramenti, l’una abbarbicata al ruolo di maschio dominante, l’altro paralizzato nel cameratismo adolescenziale. La guerra della parola è annunciata. A colpi di battute di spirito, Beatrice atterra Benedetto stoccata dopo stoccata, rivendicando con tutto il fiato che ha in gola la sua dignità di donna non accompagnata per scelta, orgogliosa della sua indipendenza e onorata all’idea di arrivare alla tomba vergine piuttosto che sposata controvoglia a un gentiluomo che non la eguaglia in arguzia. Con il suo atteggiamento schietto e vivace, Beatrice rappresenta la dona fool, che non teme di dire il vero e di scontrarsi con gli uomini ad armi pari, usando lo strumento più potente che possiede, ancora di più della sensualità ammaliatrice: la parola. E inaugura così un nuovo modello di donna guerriero, svincolata dagli obblighi sociali che fino a quell’epoca la vedevano relegata nella veste di moglie e madre, aprendo la strada alle eroine brillanti come la regina Elisabetta I, che non temono il peso del trono in un mondo dominato dagli uomini.
La vivacità di Beatrice tuttavia non intimorisce Benedetto, che al contrario si sente a proprio agio a sostituire il corteggiamento classico con una battaglia all’ultima trovata di spirito, perché l’amore-odio con la ragazza gli ricorda il rapporto spassoso che ha con i compagni d’armi, e senza neanche accorgersene si trova preso all’amo gettato involontariamente da Beatrice. La parola riottosa usa l’ironia per fare ponte tra il mondo maschile e quello femminile e stabilisce una tregua, se pur momentanea, tra i due schieramenti, obbligati a unire le forze per difendere il loro mondo idilliaco dalle calunnie e dai giochi di potere orditi da chi è tornato dalla guerra con l’odio nel cuore. La luce accecante è attraversata da una lama d’ombra.
Le musiche festose di una cultura popolare sospesa nel tempo, che hanno accompagnato l’epoca del corteggiamento e degli amori, lasciano lentamente spazio ai complotti, e i balli in maschera in cui gli innamorati si ricorrevano per sussurrarsi parole dolci senza mostrare il loro volto, si trasformano in danze macabre di maschere umane, disposte a mentire e a simulare pur di raggiungere i propri obiettivi. La musica non suona più e i colori si incupiscono di pari passo con gli animi dei personaggi, che tornano a combattersi in una guerra d’arguzia, stavolta con un’arma più sottile della spada e più grossolane della parola: la mistificazione.
Il recitazione nella recitazione, ovvero il play within the play, è un elemento ricorrente in Shakespeare ed enormemente sfruttato dai personaggi per ordire tranelli o, al contrario, per risolvere le controversie in vista di un finale in cui trionfi la giustizia. Qui la “trappola per topi” è usata nel bene e nel male, dai buoni e dai cattivi, per portare gli eventi sulla strada giusta, e la parola si dimostra la protagonista assoluto delle scene improvvisate dai personaggi per uscire vincitori dalle situazioni più sgradevoli e intricate. Simulare l’amore suscita l’amore, simulare il tradimento suscita l’odio, e simulare la morte suscita il perdono, non c’è nessuno dei personaggi che non ne sia consapevole e che esiti ad usare la finzione per facilitarsi la vita lasciando intatto l’onore.
L’opera shakespeariana è vivida sul palcoscenico di Loredana Scaramella, così come i dialoghi tra i personaggi, adattati in una lingua contemporanea e palpabile, che si cuce alla perfezione sui corsetti e sulle spade senza creare discromie nelle sfumature semantiche tra le epoche. La guerra della parola è attuale e bruciante e supera, grazie all’universalità che gli appartiene, lo sbalzo temporale e spaziale che ci separa da Shakespeare, riproponendo sotto forma di dramma lo scontro tra i sessi che accomuna ogni tempo, perché insito nell’essere umano desideroso di far cadere la maschera e scendere dal palcoscenico su cui le convenzioni del mondo lo hanno relegato. Come la parola, anche la musica tradizionale salentina si fa universale, e si pone come ponte invisibile tra le culture aspirando, se non alla pace, almeno alla tregua, dalla guerra in un idillio bucolico fuori dal tempo.