colonna sonora

Tenet, di Christopher Nolan

Il TEMPO è un concetto astratto generato in epoca ancestrale e, da sempre, oggetto di studi filosofici, prima che scientifici. La maggior parte della nostra esperienza temporale si basa sull’osservazione dei fenomeni intorno a noi, siano essi immediati (la vita quotidiana, il succedersi di giorno e notte, l’alternarsi delle stagioni), macroscopici, come l’universo, o microscopici, come la materia, intesa come sostanza di cui tutto è fatto. Ma la percezione di questi fenomeni viene registrata in maniera diversa sia da soggetto a soggetto sia dalle diverse figure di ricercatori: per un filosofo, ma anche per molti altri, il concetto di tempo è legato ai cambiamenti che un determinato oggetto di osservazione subisce anche stando fermo e presuppone altri concetti astratti come un “prima” e un “dopo”, mentre per un fisico questi concetti sono inammissibili scientificamente come concreti perché un oggetto “è”, “esiste” a prescindere e anche quando avviene una trasformazione il tempo verbale che si usa è al massimo un passato prossimo come “è diventato”.

In questo anarchico contesto ha avuto terreno fertile il terzo “ricercatore”, quello religioso che, senza addentrarci in intricate e pericolose disquisizioni, ha sfruttato da sempre la paura innata della morte e dell’ignoto per fornire al tempo un’importanza morale più o meno strumentalizzata nei secoli con lo scopo, neanche troppo celato, di guidare l’ignorante ad operare per il bene della specie e della sua evoluzione.

Tenet

Prendiamo una cosmogonia fra le più celebri: i greci hanno considerato Kronos come padre di Zeus e degli altri dei dell’Olimpo, ma figlio a sua volta di Urano e Gea, interpretabili come Universo e Terra. Quindi il tempo nasce dall’interazione della terra con il firmamento, quindi è associabile ai moti di rotazione e rivoluzione. Inoltre, sembra che il tempo governi un po’ tutti gli elementi se non si considera una figura mitica ben più importante e al di sopra di tutto per la mitologia greca: il Fato, inteso come la necessaria ed ineluttabile storia già scritta, a volte visto come “destino” dal punto di vista degli esseri viventi. E di questi tempi, in cui siamo costretti a vivere in spazi limitati, cercando di ottimizzare un tempo ristretto o dilatandolo in maniera abnorme rispetto alla frenetica quotidianità a cui eravamo abituati, ci rendiamo molto più conto di quanto sia il Fato a scrivere la storia del mondo, ma non in maniera ineluttabile, questo vuole affermare in maniera energica Tenet.

«La più antica e potente emozione umana è la paura,
e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto»

Howard Phillips Lovecraft

Il nuovo film di Christopher Nolan sembra far tesoro della massima homo faber fortunae suae e dimostrare che ognuno può svolgere un ruolo comunque fondamentale in un progetto che va magari al di là della sua comprensione e svolgere la funzione di eroe, quantomeno della propria storia, e scriverne un finale anche più che soddisfacente. Nolan, con il suo film pronto già in periodo di lockdown forzato, non s’inchina al tempo avverso e abbraccia il fato che, meschino, gli aveva inserito uno scoglio quasi insormontabile sul cammino e diventa l’eroe di cui il cinema aveva bisogno proprio in quel momento, non quello che merita, dato quanto ha dovuto tribolare per poter uscire in sala, come emblema di speranza per un sistema che naviga a vista sull’orlo del baratro.

Tenet

Oggi, portare a termine un progetto cinematografico così complesso e stratificato, dall’intreccio così intricato – non la trama che è, di per sé, abbastanza semplice e “lineare” – è da considerarsi impresa davvero leggendaria.

Il fatto è che un bel film come Tenet, per quanto sorprendentemente raffinato e storicamente importante, da solo non può salvare tutto un mondo ancorato a logiche commerciali anacronistiche, ormai da rivedere e innovare quasi totalmente. Scusate il piccolo excursus.

Ma intanto Tenet può essere considerato il film più significativo di questo funesto 2020 per il momento storico della sua uscita, per la speranza che rappresenta e per le ore di intrattenimento altamente intelligente che ha fornito a chi aveva alle spalle mesi di frustranti bollettini medici e palinsesti che iniziavano a raschiare il fondo del barile dei b-movie.

L’intreccio di Tenet assorbe gran parte delle energie, dicevamo, per la sua complessità, ma ciò nonostante è impossibile non rendersi conto che la sceneggiatura costruisce personaggi degni di nota, memorabili, che potrebbero benissimo godere di nuova vita in seguiti, prequel o spin-off.

Tenet

Addirittura le battute non sono mai dei semplici riempitivi, utili solo a giocare con l’attenzione della sala. Ogni linea di dialogo è densa di significato e ottiene d’incollare allo schermo anche le orecchie, oltre che gli occhi e i neuroni.

A tal proposito è significativo l’uso dei volumi: gli effetti sonori di Tenet e le musiche composte per l’occasione da Ludwig Göransson [Creed, Creed II, Black Panther] disturbano o addirittura sovrastano le conversazioni, fornendo un ulteriore motivo di attenzione oltre che rendere maggiormente reale la messa in scena. Per non parlare della chicca veramente sbalorditiva di eseguire le partiture al contrario quando il Protagonista – proprio questo è il nome con cui viene identificato il protagonista! – è in viaggio nel tempo in modalità reverse. Un vero tocco di genio, ciliegina su una torta deliziosa.

Tornando all’esperienza vissuta dallo spettatore e alla sua attenzione “ferrea” calamitata dal film, si nota che persino l’immancabile spiegone nolaniano sembra una lezione oltremodo interessante su di un argomento per cui il regista pare sfidare chiunque a far di meglio: la base della trama è immersa dalla testa ai piedi, senza talloni d’Achille, nelle teorie più dibattute di fisica quantistica, una materia pressoché intrattabile dai mass media fino a pochissimo tempo fa. Discorsi intricatissimi ad appannaggio di un’élite veramente ristretta di menti supreme.

Tenet

Tenet è un’enigmatica variazione sul tema del controllo del tempo, giocata un po’ in stile James Bond, con tanto di femme fatale [Elizabeth Debicki: Everest, Macbeth, Guardiani della galassia Vol. 2] e un po’ in stile heist movie, sofisticata come Inception, ma dotata di una concretezza molto più solida. A conferire questa credibilità alla trama non è tanto la spiegazione pseudoscientifica, che mescola fisica quantistica, algoritmi fisici e paradossi temporali, quanto più la messa in scena realistica, senza fulmini, dissolvenze e portali luminosi. A questa asciuttezza scenica va abbinato il continuo ricorso al gergo militare, che contribuisce non poco fornendo consistenza ai discorsi e tangibilità a quanto avviene di straordinario nel film: ricordate l’insegnamento di The prestige?

«[…] Il secondo atto è chiamato “la svolta”.
L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire.
Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo il prestigio

The prestige

Della colonna sonora si è già parlato. Anch’essa concorre abilmente a puntare un grosso riflettore sull’ordinario per distrarre e poi sorprendere, ma per mandare davvero tutti fuori rotta fin dall’inizio, il regista sceglie il metodo hitchcockiano del macguffin, che ha rappresentato, in pratica, lo scheletro stesso su cui è stata orchestrata la trama, solo fintantoché il film non è approdato in sala: quello che viene definito il quadrato magico del Sator. Si tratta di un’iscrizione latina ritrovata nel 1925 a Pompei, per poi “scoprirla” da sempre presente su vari monumenti nel mondo. L’appellativo “magico” deriva dalla disposizione delle parole a formare un quadrato di 5×5 in modo che le scritte si leggano in più direzioni. È un palindromo molto complesso che ha scatenato non poche interpretazioni, finanche quella religiosa, che anagramma le lettere fino a costruire una croce con le parole “paternoster” più un paio di alpha e di omega a decorazione sui lati. Un codice studiato durante le persecuzioni dei paleocristiani? Tutto è possibile. Anche che Nolan lo abbia sfruttato come specchietto per le allodole in modo da depistare le spie cinematografiche che, così, hanno avuto un bel macguffin su cui fondare le loro illazioni sul film, senza rovinare la sorpresa.

Tenet

Nolan riesce addirittura nell’impresa di tenere all’oscuro tutti della trama. Persino il suo fedele Michael Caine [Interstellar, Youth] ha dichiarato di aver recitato conoscendo solo lo stretto indispensabile per portare a termine le sue scene. Non sembra nemmeno un’esagerazione se si devono fare i conti con giornali fondati su scoop e leaks che hanno a cuore il loro tornaconto, non certo i vantaggi di una visione priva di spoiler.

Tornando allo sfruttamento del quadrato come macguffin nel film di Nolan, Sator [Kenneth Branagh: Assassinio sull’Orient Express, Dunkirk] è l’antagonista del Protagonista – è questo il nome del personaggio interpretato da John David Washington [Blackkklansman]. Rotas è la ditta che Sator adopera per i suoi nefasti scopi (non aggiungerò altro per ovvi motivi).

«Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza guerra mondiale, ma la quarta sarà combattuta con pietre e bastoni»

Albert Einstein

A questo punto permettetemi di aggiungere la mia personale interpretazione: i termini SATOR e ROTAS sono ai margini del quadrato, o meglio al confine, che in latino si direbbe FINIS, parola sempre di 5 lettere guarda caso! Con questa parola si possono coprire le tre funzioni narrative del binomio SATOR-ROTAS perché FINIS è “limite” o confine, rappresentato dalla lotta contro il tempo, ma vale anche per “scopo, obiettivo”, che rimanda alla missione dell’organizzazione denominata TENET che vuole scongiurare la fine (sempre FINIS) del mondo, obiettivo dei nemici. Per concludere – e metterci una croce su 😊 – TENET è al centro del quadrato magico formando proprio una croce (in hoc signo vinces??), è il cuore che opera dall’interno infiltrandosi nelle maglie del piano nemico. E nessun nome è casuale, a questo punto Neil [un convincente Robert Pattinson: The Batman, Le strade del male] ha la stessa pronuncia di nihil che è “niente” e, infatti, non se ne sa niente, ma a volte basta un niente, no 😉? Kat invece equivarrebbe all’inglese “cut”, il taglio che serviva per risolvere l’arcano, per dirla in maniera criptica.

«Posso darti solo una parola: Tenet. Può aprire molte porte, ma alcune di queste saranno sbagliate»

Nel tempo – sarebbe proprio il caso di dire – ma è meglio dire… Nella storia del cinema e della letteratura di genere abbiamo vissuto fantastiche avventure su locomotive e DeLorean volanti, siamo stati coinvolti in cacce all’uomo avanti e indietro nel tempo, ci siamo abituati a dubitare dei flashback e a riordinare intrecci annodati stretti dalle solite menti intricate. Sappiamo poi che non bisogna cambiare il passato se non si vogliono avere ripercussioni di varia natura sul futuro, o bisogna farlo, se il cambiamento si profila necessario, magari per la salvezza dell’intera umanità. Ma quello che accomuna tutte queste esperienze straordinarie è la ferma consapevolezza che l’uomo non potrà mai dominare appieno il tempo. Il tempo governa l’universo. Così, Nolan, mitico eroe dei nostri giorni, dopo aver domato proprio l’universo con Interstellar e aver saggiato la forza del tempo, si è posto un nuovo obiettivo di altissimo profilo: dominare quella che è per noi simultaneamente la bestia più indomabile e il nostro bene più prezioso, ossia il tempo.

Tenet

Tenet, con il coraggio e l’innovazione, inverte l’entropia di un’industria cinematografica sempre più votata – o dovrei scrivere “vuotata” – al vuoto cosmico, permeata com’è di trame spegnicervello e di prodotti sempre più minimali dal punto di vista tecnico-artistico, per privilegiare un percorso di fruizione più immediato e veloce che privilegia la serie TV e il film pensato esclusivamente per il mercato homevideo. Non ci sono note di biasimo in queste affermazioni, solo la constatazione del cambiamento di un mondo dell’intrattenimento che si è adattato al pubblico di riferimento, stressato e quindi desideroso di sentirsi appagato nel vedere qualcosa che non sia troppo impegnativo e che ben si adatti alla resistenza media all’abbiocco sul divano dopo cena. Per tutti gli altri esistono quelle serie che hanno fatto da apripista a Tenet, permettendone la comprensione e il conseguente apprezzamento. Uno su tutti? Dark! Lo spettatore-target del film di Nolan è presumibilmente lo stesso della serie tedesca e, per dirla con un sillogismo aristotelico: se Dark è la miglior serie TV mai realizzata e Tenet tratta argomenti simili ad essa, il pubblico non può non apprezzare il film. Quello che però va premesso è che il pubblico-target va inteso come insieme di persone che hanno ben radicato in loro il desiderio di cimentarsi nella soluzione di un enigma cinematografico. Che poi potremmo benissimo definirlo il pubblico tipico di Nolan, anzi, dei Nolan, vista la predilezione dei due fratelli per le trame ad incastro e cervellotiche che procedono su più linee narrativo-temporali. È come una missione che si sono tacitamente assegnati: quali novelli Prometeo si adoperano in ogni frangente per intrattenere sì ma anche per istruire la massa e dare una spinta all’evoluzione della specie “spettatore”.

Tenet

Rispetto a Inception, Tenet perde un po’ in spettacolarità, è chiaro, ma guadagna un sacco in fascinazione: l’essenziale, insegna Il piccolo principe, è invisibile agli occhi e l’amore che Nolan dissemina nel film è un amore titanico per l’enigma. I suoi film sono sfingi da decifrare, oracoli da interpretare, codici da decriptare. Con buona pace di chi non ce la fa e che sceglie di comportarsi poi come la volpe con l’uva se non li capisce, i film di Nolan sono ad un livello superiore d’intrattenimento. Non sono adatti per chi è assuefatto alla società dei consumi, del “cotto e mangiato”, del visto e subito dimenticato. Si tratta di opere stratificate dove ogni successiva fruizione porta sempre lo spettatore ad una riflessione a posteriori e ad una consapevolezza in più rispetto a prima. Un’evoluzione. E questa spinta evolutiva è stata ben ponderata da altri che, inconsapevolmente – mi riferisco sempre a Dark, ma anche a Black Mirror – hanno educato il pubblico a non dare per scontato nulla e a seguire invece con attenzione qualsiasi elemento, pure l’oggetto apparentemente più insignificante, per non perdere nessun nesso logico.

Tenet ha, quindi, come target uno spettatore istruito, non tanto sulla fisica quantistica, quanto più sulla scienza da film, quella che già sa piegare il tempo ai suoi voleri, che sa viaggiare oltre la fantasia in uno spazio plausibile, che sa entrare e (forse) uscire dai meandri della psiche umana senza perdere coerenza. Inception, Interstellar e ora Tenet godono di questa maturità nel narrare e narrare cose che voi umani – un tempo si sarebbe detto – non potete neanche immaginare.

«L’ignoranza è la nostra arma»

Tenet

C’era una volta a… Hollywood, di Quentin Tarantino

C’era una volta…

Così cominciano le fiabe e così inizia l’avventura del nuovo lavoro di Quentin Tarantino: dal titolo. Non quello sovrimpresso nell’incipit del film, volutamente assente e significativamente collocato alla fine. Sto parlando di quello che campeggia sui poster che hanno creato l’attesa spasmodica e che richiamano un’altra epoca, l’epoca d’oro del cinema, che lui ama e che noi stessi amiamo, forse ancora di più proprio perché lui la ama così tanto e ce ne rende immancabilmente partecipi.

Ogni volta, il regista di Pulp fiction e The hateful eight ha lo straordinario potere di sospendere lo spettatore tra sogno e realtà, come un papà che, accanto al letto del bambino, inventa e rielabora, perché non ricorda o fa finta di non ricordare o semplicemente perché da grandi poteri derivano grandi responsabilità, sì, ma se hai il dono di raccontare bene forse puoi anche fare qualcosa di più: cambiare il corso della storia anche solo per il tempo di una fiaba affinché sia davvero una buona notte.

Chi legge questa recensione prima di vedere il film troverà, spero, abbastanza criptica questa introduzione. Lungi da me spoilerare la trama o addirittura il finale! Pensate che per molto tempo sul sito di wikipedia, probabilmente per proteggere il piacere della visione, è stata pubblicata una trama dotata di un finto finale! Perciò non aggiungerò niente di più, se non una piccola sinossi della trama per poi analizzare il film quel tanto che si può, senza scendere troppo nei particolari, cosa non certo facile.

Vedendo C’era una volta a… Hollywood capirete che non è tanto la fine ad essere sotto minaccia dello spoiler quanto più tutte quelle citazioni, quei riferimenti palesi o celati, quel sottotesto velato ma intriso di ammiccamenti ai cinefili che Tarantino è un maestro a disseminare anche in questo suo nono lungometraggio. Non manca niente del suo stile inconfondibile neanche stavolta. Come al solito il “collega spettatore” Quentin ha tenuto fede al suo modo estremamente ludico di far vivere l’esperienza cinematografica:

  • camei, riferimenti, citazioni e chicche per veri appassionati disseminati in una ricostruzione maniacale delle scenografie e dei costumi, senza dimenticare di inserire qualcuna delle sue fake brands;
  • il fascino per ciò che concerne la cultura pop, l’universo dei B movie, la golden age of exploitation e la filosofia grindhouse, ingredienti affini ma differenti, mescolati e shakerati, in perfetta adesione al postmodernismo, fino a smarrirne i confini distintivi e a perdere soprattutto la differenza tra verità e finzione, tra desiderio e disillusione, tra sogno plausibile e realistico e realtà dura e cruda ad iniziare dalle tanto amate locandine disegnate alle insegne al neon di una Los Angeles di fine anni Sessanta, passando per i megaposter pubblicitari, copertine di riviste come Mad magazine, i drive-in, le sale cinematografiche old style, la vita dei set al di qua e al di là della macchina da presa;
  • la simpatia nei confronti del mondo underground, del retroscena, del reietto, dell’outsider che viene finalmente illuminato dai riflettori della ribalta; spesso le scene a cui assistiamo sono momenti verosimili di vita da set: Rick si blocca durante le riprese e si fa suggerire le battute, Cliff battibecca con Bruce Lee dietro le quinte de Il calabrone verde e lo stesso palesare la presenza degli stuntmen è già di per sé una prova di questa simpatia; curiosità a margine: la presenza di Kurt Russell (lo stuntman Randy, ma anche voce narrante) e Zoë Bell (sua moglie e collega Janet) come coordinatori degli stuntman, sempre per The Green Hornet, è al tempo stesso una conferma di questa rivalsa dell’ombra e un riferimento alla filmografia del regista di Kill Bill: Russell, suppergiù con lo stesso look, aveva interpretato Stuntman Mike in Grindhouse – A prova di morte (2007) dove recitava come attrice la Bell, che in realtà lavora da sempre come controfigura, soprattutto di Uma Thurman; a tal proposito, bisogna aggiungere che Tarantino accredita loro insieme a Michael Madsen e altri come “The Gang”, praticamente i suoi attori-feticcio (proprio Zoë Bell è la regina delle presenze in 7 lungometraggi del regista). Inoltre, un altro habitué, Tim Roth, ne è accreditato come membro, anche se le sue scene sono state tagliate da questo film;
  • la consueta quantità spropositata di dialoghi e monologhi su argomenti solo apparentemente divaganti, ma che risultano coerenti con quel sottotesto intriso di cinefilia;
  • lo stallo alla messicana, o mexican standoff, che ricorre in più punti con protagonista Cliff Booth; 
  • mentre invece è assente il trunk shot, l’inquadratura da dentro il bagagliaio dell’auto, e dire che ci si arriva davvero vicinissimi al ranch! mi sa che Tarantino si è divertito a farcelo credere, questa volta, mantenendo pertanto la nostra attenzione attiva per tutto il film, salvo non si consideri la ripresa da dentro un’ambulanza, come trunk shot, del resto per Bastardi senza gloria lo si è fatto;
  • il foot fetishism, ovvero l’ossessione per i piedi, in questo caso innalzata da mero elemento ricorrente ed eccentrica firma artistica a filo conduttore nascosto e stilema vero e proprio: pensate che i piedi sono presenti nell’inquadratura in ben 36 scene, per un totale di quasi 10 minuti, senza contare che in una scena al ranch della Manson’s family c’è un tripudio di piedi, se mi passate il gioco di parole;
  • i tecnicismi, per veri intenditori, con movimenti di macchina inconsueti; l’utilizzo di dolly, crane e grandangoli; l’alternanza di vari formati di pellicola che presuppone l’utilizzo di svariati tipi di mdp, anche pezzi d’antiquariato; il montaggio tramite jump cut; lo slow motion; il ricorso al piano-sequenza e al piano nomade a sorpresa e con significati profondi;
  • la colonna sonora, ben nutrita, con 37 brani, tra cui anche uno di Charles Manson, potrebbe essere utilizzata, come al solito, per insegnare ogni funzione che può assumere la musica nell’accostamento con le immagini: si va dal semplice commento allo straniamento, dalla consonanza alla dissonanza e così via.

Il regista si diverte – è sicuramente il caso di dirlo – a far sì che tutti questi elementi occupino un’ampia porzione di film, completamente incurante delle ansiose esigenze dello show business e delle regole della comunicazione odierna con la soglia dell’attenzione ridotta ad 8 miseri secondi per l’audiovisivo (per quanto riguarda la lettura avrei già dovuto concludere qualche riga fa per sperare almeno nei fantomatici 25 lettori manzoniani!).

Ambientato nella Los Angeles del 1969, C’era una volta a… Hollywood segue le vicende di un attore in odore di declino, Rick Dalton [Leonardo Di Caprio: Revenant, Django Unchaned], e della sua inseparabile controfigura, Cliff Booth [Brad Pitt: Allied, Bastardi senza gloria]. Tra set, viaggi in macchina, flashback la trama si dipana leggiadra e si fa largo la netta sensazione che l’intero film sia un divertissement di più di 2 ore e mezza, tutt’al più un mockumentary sullo star system dell’epoca, a cavallo tra due periodi fondamentali: l’era del rassicurante cinema classico americano e la cosiddetta Nuova Hollywood, che rinnovava il processo produttivo e contaminava i generi privilegiando il realismo, decretando il successo di personaggi dal carattere complesso e di registi che erano sempre più liberi autori. Un ottimo esempio è proprio il Roman Polanski che, filmicamente parlando, abita proprio accanto a Rick Dalton in Cielo Drive: è rappresentato come l’idolo inarrivabile dell’attore protagonista – ciò lo rende simulacro di un mise-en-abyme di simulacri su cui è meglio non addentrarsi – insieme alla moglie Sharon Tate, interpretata magistralmente da Margot Robbie [Suicide Squad, Tonya], che appare sullo schermo forse meno dei piedi di Di Caprio, ma che riesce con pochi gesti misurati a trasmettere i sentimenti corretti.

Nonostante la sua presenza in scena non sia commisurata a quella dei due protagonisti, il personaggio di Margot Robbie è fondamentale. È suo il compito di far immedesimare appieno lo spettatore. Il momento in cui si giunge addirittura all’identificazione tra le due, anzi, le tre figure è la tenerissima scena in cui Sharon Tate diegetica è al cinema, scalza e con un paio di occhiali più grandi della gonna che indossa – tutto materiale fornito dalla sorella stessa della compianta attrice – a guardare la reale se stessa recitare nel film The wrecking crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), accucciata sulla poltrona, nel buio della sala, come uno spettatore qualunque, per sbirciare titubante le reazioni del pubblico al frutto delle sue fatiche artistiche.

Carica di significato anche la figura di Cliff, personificazione dell’ombra dietro l’attore. Per Rick è l’alter ego fuori dalle luci dei riflettori e della ribalta ma anche l’amico fraterno che sa consigliare e appoggiare ma anche restare al suo posto, sicuramente più costruttivo del se stesso-villain con cui litiga proprio vestito da villain attraverso lo specchio nella roulotte-camerino in una scena di eccezionale impatto.

Alla luce di tutto questo, C’era una volta a… Hollywood è un evento irrinunciabile per ogni appassionato di cinema, è la summa del processo di maturazione dell’eccentrico Quentin nel Maestro Tarantino. Non più così cinico, ironico e destabilizzante, anche se rimane la predilezione per un montaggio poliedrico e discontinuo dove si connettono spezzoni di film tra veri, falsi e ritoccati ad arte, jump cut, raccordi sugli oggetti e sei movimenti, flashback e inserti. Anche la tanto amata spettacolarizzazione della violenza, con ettolitri di sangue ad invadere lo schermo, lascia spazio all’introspezione, alla riflessione sul cinema e sullo star system. È sicuramente il suo film più personale, passionale e sentimentale pur rifuggendo il sentimentalismo in cui poteva scadere. Chissà se quando ha la sceneggiatura sapeva di mettersi a scrivere una storia per il cinema che riscriveva la storia del cinema!

La matematica annovererà questo come il 9° lungometraggio, ma il sapore che lascia dopo l’attenta analisi di ogni singolo elemento, anche quelli su cui non si può spoilerare, è che C’era una volta a… Hollywood possa tranquillamente rappresentare quello che fu 8e1/2 per Federico Fellini. Dopo The hateful eight quindi ecco il 9e1/2 di Tarantino!

Ma in mezzo ai virtuosismi, al linguaggio metacinematografico, a quel funambolico muoversi sul sottile confine tra sogno e realtà, tra passione sfrenata e malinconia latente, quello che la pellicola trasuda è il medesimo desiderio di rivalsa dei personaggi tarantiniani e così dopo tutto il giro sulla giostra dei ricordi, dopo i giochi di rimandi e citazioni, dopo la semina di quegli elementi ricorrenti e quelle firme autoriali che abbiamo imparato a trovare, il film diventa qualcos’altro: la ricostruzione arriva al momento fatidico, alla sera dell’eccidio di Cielo Drive ma… da questo punto in poi ci si rende conto che tutto ciò che ci è stato mostrato non ha il valore della divagazione – forse il McGuffin più lungo della storia del cinema – e che quell’intersecare sapientemente personaggi realmente esistiti con personaggi fittizi, il declino dietro l’angolo in contrasto con l’ascesa meritata, le ingiustizie della vita reale con le rassicuranti sceneggiature del cinema classico e delle serie tv di allora, porta ad un unico possibile punto di non ritorno, la fiabesca resa dei conti, dove la tensione, cresciuta lenta ma inesorabile per tutto il film, sfocia in un concentrato di assurda violenza – la spettacolare violenza che ci aveva lasciato più di un languorino dopo il breve assaggio al ranch-covo della Manson’s family. È l’equivalente di uno schiaffo che risveglia non, però, dal sogno bensì dalla realtà e nutre il desiderio di rivalsa attraverso un’illusione effimera che viene malinconicamente tarpata dal significativo titolo del film in sovrimpressione. Un piano nomade – espediente tecnico-linguistico già utilizzato in questo film – sottolinea l’artificiosità della storia, ricordando che certamente i sogni son desideri chiusi in fondo al cuor ma che il cinema i sogni li può rendere verosimili solo per il tempo che è concesso dalla visione e per il limitato spazio buio della sala.

C’era una volta…

Così iniziano le fiabe e così conclude Tarantino.

Hell or high water, di David Mackenzie

Prima di parlare di Hell or high water permettemi di fare un passo indietro per osservare il fenomeno dalla giusta distanza ed ammirare il piano d’insieme.

Pensare che il genere western sia ormai sepolto in qualche fossa senza nome con una pietra tombale anonima nell’era dei social e del “tutto subito” è legittimo. I tempi di un tirato duello giocato sui nervi, tesissimi, mentre i rivali si scrutano e al di fuori del loro animo, giusto o malvagio che sia, sembra non accada nulla, sembra non sia più gradito dalle nuove generazioni, cresciute con ricostruzioni in CGI o realtà aumentata di qualsiasi cosa, anche esistente in natura, con coreografie ben studiate che prolungano all’inverosimile scazzottate e combattimenti spesso privi di un pathos ben costruito, di un’epicità tangibile, di un background che mantenga l’interesse anche in rapporto alle fruizioni successive del prodotto cinematografico.

Eppure David Mackenzie è riuscito a confezionare un western, Hell or high water, dall’ambientazione contemporanea che mantiene vivo quell’epico scontro se vogliamo cavalleresco tra uomini di legge e banditi, riproponendo in chiave moderna il sapore della caducità del tempo e dell’anacronistica lotta manichea tra un Bene e un Male che s’intrecciano senza soluzione di continuità, lasciando il retrogusto dolceamaro di una vendetta che appare giusta e di una giustizia che risulta in fin dei conti solo vendicativa.

In Hell or high water dominano i dualismi. Lo scontro non è solo reato vs legge, outsider vs sceriffi, è cowboy in disgrazia vs burocrazia e banche. Alla coppia di fratelli, Toby [Chris Pine, il capitano Kirk del nuovo Star Trek] e Tanner [Ben Foster, L’ultima tempesta, Warcraft] Howard, rapinatori di banche, si contrappone in chiasmo la coppia sceriffo-vice, in cui uno è la mente e l’altro il braccio, uno ragiona da outsider e l’altro medita nell’ombra, tentando un’emulazione dell’altro che non può e forse non deve riuscire, perché ognuno ha un destino scritto nel carattere, che lo voglia o no, e che si affanni o no a cambiar traiettoria.

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Hell or high water è un film che ha alla base una bellissima storia di amore fraterno, virilmente commovente, messa in scena con maestria, senza esasperazioni recitative, perché è in grado di comunicare visivamente e verbalmente tutto l’amore che c’è ben nascosto dietro un vaffanculo detto con il cuore.

«Ti voglio bene, Toby! Sul serio»
«Anch’io»
«Ehi, Toby! Vaffanculo!»
«Vaffanculo tu!»

Sebbene i protagonisti effettivi siano i fratelli Howard, a riempire lo schermo e le orecchie, candidandosi a gran voce per il premio Oscar® 2017, è il Texas Ranger Marcus Hamilton, interpretato dal già premio Oscar® come protagonista per Crazy heart nel 2010, Jeff Bridges. Il ranger di Bridges è un personaggio dal carattere scomodo sotto ogni aspetto, per sé ma soprattutto per chi gli sta intorno, ammesso che qualcuno voglia star nei suoi paraggi: un vedovo rancoroso verso la vita in generale, un cane rabbioso che sa indagare quasi quanto ringhiare le sue intolleranze da texano DOC all’infinito, che non molla la caccia all’uomo e in una battaglia personale anche contro il tempo che lo vuole in pensione contro la sua ferma volontà narcisista di rimanere in compagnia di «qualcuno meno in gamba da umiliare».

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Hell or high water è inoltre candidato come miglior film, miglior sceneggiatura originale [Taylor Sheridan, Sicario] e miglior montaggio [Jake Roberts, Brooklyn]. Manca invece la nomination per la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, che paga dazio nello scontro impari con la concorrenza di questo 2017, La La Land su tutti. Nel quintetto in lizza per l’ambita statuetta, è Passengers che ha soffiato ingiustamente il posto ad una serie di canzoni di straordinaria orecchiabilità e significato narrativo, che rappresentano la ciliegina sulla torta, o meglio le amarene, perché ben si innestano in un tessuto narrativo da western revival decadente, raccontando, con le note ancora prima che con la fotografia seppur incantevole, storie che, in altre epoche, sarebbero state tramandate sottoforma di leggende popolari. Il trionfo di Hell or high water come miglior film significherebbe non un ritorno in auge del passato, ma la possibilità che il futuro abbia sempre storie da raccontare per ogni genere, evolvendosi secondo le necessità formali contemporanee in un prodotto che sappia riempire schermo e sedili.

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Una menzione speciale, infine, è d’obbligo per la scafata cameriera-“vipera” [la caratterista Margaret Bowman, Non è un paese per vecchi] di un ristorante monopietanza stile T-bone, un personaggio che è già cult, l’unico che zittisca il ranger Hamilton.

«Ho caldo e non ho voglia di lavorare! Allora, che cos’è che non volete? … Lavoro in questo ristorante da cinquant’anni e nessun cliente ha mai ordinato altro che una bistecca con patate al forno! A eccezione di uno stronzo di New York che voleva una trota nel 1987. Non serviamo nessuna dannata trota! Soltanto bistecche! Quindi i casi sono due: o non volete il contorno di mais o non volete il contorno di fagiolini. Che cos’è che non volete?».

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Trafficanti, di Todd Phillips

E se per qualcuno il sogno americano andasse a braccetto con l’incubo della guerra?

Trafficanti, nella versione originale War Dogs, diretto da Todd Phillips, parte proprio da questo presupposto.

«I tipi come noi li chiamavano “cani da guerra”: avvoltoi che fanno soldi con le guerre senza mai mettere piede sui campi di battaglia. Era dispregiativo nelle intenzioni, ma a noi piaceva».

Phillips ci ha divertito con commedie spassose come Starsky & Hutch, Parto col folle, ma soprattutto con la saga di The Hangover – Una notte da leoni. Con Trafficanti, basato su fatti realmente accaduti, riesce nell’intento di plasmare ciò che è ormai materia giornalistica, di riflettere sui retroscena neanche troppo celati di ogni guerra, mantenendo quello che è ormai il suo stile visivo e narrativo, giocato su forti contrasti, sulle decisioni sbagliate, che inesorabilmente hanno effetti esponenzialmente più grandi delle cause scatenanti e delle aspettative dei protagonisti, e sull’ironia della vita che, come ha sempre sostenuto il regista fin dagli esordi da documentarista, riesce spesso ad essere più assurda, bizzarra e pazzesca della fantasia.

La sceneggiatura, frizzante e dal ritmo incalzante, è opera dello stesso Phillips, affiancato da Stephen Chin [Un altro giorno in paradiso, Gummo] e Jason Smilovic [Slevin – Patto criminale e Kidnapped (serie TV)], e trae spunto da un articolo scritto da Guy Lawson e successivamente pubblicato in un libro diventato bestseller con il titolo Arms and the Dudes.

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«Quando la vita mi prendeva a calci, io rimanevo a terra. Efraim no: la prendeva a calci lui».

Due amici di Miami Beach, ex compagni di scuola e di scorribande, i ventenni David Packouz [Miles Teller] e Efraim Diveroli [Jonah Hill] inseguono a loro modo il sogno americano, tirando su in poco tempo un’impresa di traffico d’armi che si elevi «dalle briciole all’intera torta». I guai iniziano quando, all’apice del successo, ottengono un contratto governativo da 300 milioni di dollari per armare fino ai denti l’esercito afghano. Bugie, sotterfugi e truffe andranno ben oltre i limiti della moralità.

Ironia e divertimento sono assicurati e, anche se i fatti ormai sono di dominio pubblico e la storia bene o male si conosce, Todd Phillips sa come raccontare per immagini in maniera avvincente e spettacolare. Si ride davvero di gusto ed in maniera intelligente.

«David, siamo trafficanti. Andiamo a trafficare!»

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Miles Teller [Whiplash, The Divergent Series e il pessimo reboot de I Fantastici 4] interpreta il massaggiatore professionista David Packouz e rappresenta il punto di vista privilegiato dello spettatore ideale.

Jonah Hill [The Wolf of Wall Street, Ave, Cesare!, Superbad, 21 Jump Street e successivi] è il camaleontico Efraim Diveroli, la mente strapensante e straparlante della ditta AEY, genio e sregolatezza, cresciuto con il mito dello Scarface interpretato da Al Pacino, di cui imita inizialmente il vestiario finché l’evoluzione del personaggio non si spinge verso tute griffate e un abbigliamento da gangster moderno curato dal costumista Michael Kaplan [premio BAFTA per Blade runner, da una sua idea nasce il look di Alex in Flashdance, una moda che ha stregato un’intera generazione].

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È parte del cast, anche come produttore, con la neonata compagnia Joint Effort, il pluricandidato agli Oscar® Bradley Cooper [Una notte da leoni, American sniper, Il lato positivo, Joy], che svolge un ruolo fondamentale nella vicenda.

Dulcis in fundo, la bravissima Ana de Armas, la cui solarità recitativa si fonde con una disarmante bellezza che vale da sola il prezzo del biglietto. Una stupenda conferma dopo il successo di Knock Knock. L’abbiamo ammirata nel biopic drammatico Hands of stone sulla vita del pugile Roberto Duran presentato al Festival di Cannes 2016 da Jonathan Jakubowicz e la rivedremo prestissimo – e speriamo sempre più spesso – nel sequel ancora senza titolo di Blade runner, con Ryan Goslin e Harrison Ford.

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Girato tra Bucarest, Casablanca, Las Vegas, Miami e California, con Arri Alexa XT Plus, Panavision Primo, Primo V e lenti PCZ Lenses, Trafficanti viene portato in sala dalla Warner con un’aspect ratio molto ampia, secondo il rapporto 2.35 : 1, che esalta la spettacolarità delle riprese in esterni e soprattutto la scena top dell’inseguimento alla stazione di servizio di Falluja, girata nel deserto del Marocco, che per Trafficanti è l’Iraq filmico, coerenti con una delle massime di Efraim: «Dire la verità ha mai aiutato qualcuno?». Lo stesso accade per le scene in Albania, in realtà filmate in Romania.

Il commento musicale è affidato ad un’altra vecchia conoscenza di Phillips, Cliff Martinez, vincitore del Soundtrack Award come miglior compositore al Festival di Cannes per The neon demon, che però, per Trafficanti, si limita a riciclare solo due dei suoi brani più versatili, uno dal film Contagion e l’altro da Presagio finale – First snow, forse era lecito aspettarsi qualcosa in più.

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Ben nutrita e martellante, invece, il resto della colonna sonora, che risulta davvero poliedrica, spaziando tra canzoni profondamente distanti nel genere e nel tempo: dal gangsta rap alla Carmen di Bizet, da Dean Martin agli UB40, da Haddaway a Pitbull, passando per evergreen strafamosi e strautilizzati dal cinema come Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival, Wish you were here dei Pink Floyd, Sweet emotion degli Aerosmith e Behind blue eyes firmata The Who.

Tanti i riferimenti ad altre pellicole “di genere” a partire dallo Scarface di Brian De Palma, quasi un’ossessione per Efraim e citato anche nella grafica della locandina ufficiale del film, per finire con Traffic, passando per Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, ma anche per Rain Man – L’uomo della pioggia e The Social Network, omaggiato quasi al punto di creare un parallelismo tra le due coppie di giovani rampanti Packouz-Diveroli e Zuckerberg-Parker.

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«VegasX… è come un Comicon con le granate!»

Curioso, poi, che David Packouz abbia acconsentito a partecipare al film in un ironico cameo musicale, nel quale interpreta Don’t fear the Reaper dei Blue Oyster Cult in versione acustica, mentre Efraim Diveroli non si sia prestato alla causa.

«I soldi si fanno tra le righe».

Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater

Everybody wants some, ovvero Tutti vogliono qualcosa, è una commedia giovanile, un buddy movie, un film corale, una pellicola d’autore e una realistica ricostruzione del 1980, un film su una squadra di baseball del college, avvincente, esilarante, effervescente, emozionante senza che i personaggi giochino mai neanche una partita. Com’è possibile? Solo Richard Linklater, maestro del cinema indipendente americano, è capace di compiere questo tipo di imprese.

Sull’onda del successo di Boyhood, il regista estrae dal cilindro un nuovo capolavoro che ricrea quei meccanismi ormai consolidati nel suo modo peculiare di far cinema: l’ottimizzazione del basso budget a disposizione; attori non famosi che hanno saputo calarsi nei panni di personaggi ben caratterizzati e collocati in un’epoca ben distante dalle loro vite; la supremazia dei personaggi, sempre ordinari in contesti ordinari, rispetto all’intreccio, subordinato, in questo specifico caso, anche alla ricostruzione scenografica che è maniacale, da candidatura agli Oscar®, probabilmente. Quello che sorprende è l’utilizzo per tutto il film della parola, dei dialoghi in una maniera che riecheggia Dazed and confused – La vita è un sogno, citato visivamente in molte inquadrature, e che sembra segnare una sorta di continuità concettuale con il sopracitato Boyhood, con digressioni filosofiche che spezzano la narrazione lineare, riuscendo a mescolare gli episodi di The twilight zone – Ai confini della realtà con i Maya, i druidi e la telepatia, capacità che, ovviamente, dopo una tirata di bong, i protagonisti sperimentano, per poi tornare agli argomenti più amati: «il baseball e la passera».

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«Quando giochiamo a baseball parliamo di passera e, invece, quando abbiamo davanti tutta questa passera parliamo di baseball!».

Se poi il coach esigente dà delle regole «niente alcool in casa» e «niente ragazze nelle camere da letto» perché non vuole «compromettere il programma per un po’ di pelo!» per le quali è lui stesso a trovare un escamotage in modo da trasgredire al piano di sotto, possiamo tranquillamente metterci comodi sulla poltrona ed aspettarci un paio d’ore di divertimento senza inibizioni.

Detta così può sembrare una commedia alla Animal house e invece ci troviamo davanti ad un vero spaccato di realtà, che è fatta di chiacchiere a volte senza senso, di turni davanti allo specchio per pettinarsi, di racconti inventati e spacconate, di deliri e cazzeggi. Tutti vogliono qualcosa è un’escursione nei meandri della mente di un ex-adolescente alle prime esperienze lontane dalla famiglia e fuori da qualsiasi controllo. Al contempo è un viaggio nei ricordi di Linklater, del periodo in cui ha iniziato a frequentare il college come fa il protagonista Jake Bradford [Blake Jenner] che arriva nelle case affidate alla squadra di baseball della Texas State University e subito viene coinvolto dai compagni più socievoli nelle attività preferite: «Tutti al “Fox”!» a bere, poi tutti insieme a ballare e divertirsi alla discoteca “Sound machine”, dove la confraternita di baseball è sempre gradita guest star con entrata libera e birra gratis. Infine, soprattutto, sempre e comunque, rimorchiare in ogni locale, in ogni occasione, a qualsiasi festa, che sia a tema country, punk, disco o del corso di teatro, grazie soprattutto alle tecniche sopraffine di Finnegan [Glen Powell], il vero trascinatore del gruppo.

«Studio da cunnilinguista!».

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Una squadra quanto mai reale – chi è stato membro di una squadra sa di cosa si parla – con personaggi che possono a primo avviso sembrare macchiette ma che rispecchiano le varie tipologie di giocatore. Ogni personaggio ha le sue fisime, la sua indole, le sue superstizioni e i suoi rituali, molto carina a tal proposito la dissertazione per spiegare la differenza tra queste ultime due caratteristiche.

«Bisogna avere due strambi in ogni squadra», perciò ecco il veterano scommessa-dipendente Nesbit e la matricola spaccona Nails, che ama definirsi un «cane da combattimento». Se Finnegan è espansivo e logorroico, gli fa da contraltare il burbero Roper che a Jake si presenta così: «Io odio i lanciatori. Saremo compagni di squadra ma non saremo mai amici» o il capitano McReynolds [Tyler Hoechlin], che assolutamente non prende bene le sconfitte e non tollera che la sua leadership sia messa in discussione. Tra giovani promesse sul campo di gioco e schiappe nella vita di tutti i giorni, veri fulminati e cazzeggio dipendenti, l’assortimento di tipi umani da manicomio è quanto di più vero possa esserci in una qualsiasi squadra, che ci crediate o no.

«Copriamo tutte e nove le posizioni».

Il colpo di genio di Linklater sta proprio nel divertire e coinvolgere nella reale vita di squadra senza che succeda un evento sportivo degno di nota. Nei tre giorni che lo separano dall’inizio delle lezioni, a partire dal “28 agosto 1980”, Jake assaggerà quel nuovo mondo tra sfide a schicchere sulle nocche, bevute in compagnia, discussioni e litigi, ragazze da una notte e via, magari alla ricerca di quella speciale che alle amiche «…dirà con orgoglio: è un giocatore di baseball!», l’unica per cui lui possa affermare «sono pazzo del baseball ma c’è qualcos’altro nella vita».

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Oltre alle gag esilaranti, non mancano due chicche da nerd: il personaggio di Willoughby e le sue azioni sono una citazione sottile dell’episodio “Una sosta a Willoughby” di The twilight zone – Ai confini della realtà, serie tv di cui lui stesso vanta una collezione completa in VHS; l’altra chicca è il titolo della tesina che Jake ha portato per il diploma, “Sisifo e il baseball”, che vede il dolore del personaggio mitologico nella Divina commedia non come supplizio eterno ma come scopo per combattere ogni giorno, perché lottare per un obiettivo è un dono, nella vita come nello sport, e che le cose assumono un significato quando siamo noi ad attribuirgliene uno. Una commedia giovanile abbiamo detto, ma che dialoghi!

Il clima di cazzeggio, la sceneggiatura priva di tempi morti e il coinvolgimento dei dialoghi fa dimenticare persino che nei primi fotogrammi sia stata inserita per errore una ripresa in cui il crane si riflette sulla macchina. Un errore che somiglia un po’ a quello di Kubrick in Shining, con l’ombra dell’elicottero che entra nelle inquadrature iniziali, per essere considerato tale.

La squadra di lavoro di Linklater, ormai consolidata e coesa dopo i tanti successi e i pochi fallimenti vissuti insieme, rispecchia l’affiatamento dei personaggi di Tutti vogliono qualcosa, tra veterani e matricole promettenti: il direttore della fotografia Shane F. Kelly [Boyhood, A scanner darkly], il film editor Sandra Adair [Boyhood, Prima del tramonto, School of Rock, Me and Orson Welles, Bad News Bears – Che botte se incontri gli orsi!, Prima dell’alba, Fast food nation, Tape, La vita è un sogno], lo scenografo Rodney Becker [Boyhood, Bernie, A scanner darkly] e la costumista Kari Perkins [Boyhood, Bernie, A scanner darkly, Fast food nation]. Ognuno ha contribuito a rendere questo film un gioiello del cinema indipendente d’autore.

«Metti insieme persone competitive e diventi vittoria dipendente»

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Tutto il film permette un nostalgico tuffo nel passato grazie ad un lavoro di ricerca minuzioso sotto ogni aspetto, dalla scenografia ai costumi, dal make up agli argomenti di discussione.

«Sento che gli Astros vinceranno il campionato».

Perfino la colonna sonora è estremamente curata con 45 top hits dell’epoca che esplorano ogni genere in voga in quegli anni. Non da ultimo una stupenda performance corale degli attori che si cimentano in un brano rap originale che racconta le vicende dei personaggi da loro interpretati. Il brano è una chicca posizionata nel bel mezzo degli end credits, perciò, se vogliamo dirla con un acronimo a tema: Rimanete Al Posto!

«Ehi, Coma! Almeno togliti gli occhiali! Sembri uno della narcotici!
E togli la camicia dai pantaloni! Sembri un venditore di bibbie!».

Per concludere, Tutti vogliono qualcosa è un film indimenticabile, per chi sa cosa significhi essere parte di una squadra vera, una marmaglia mal assortita di persone che si spalleggiano reciprocamente nel campo di gioco come nella vita, che condividono gioie e dolori non solo in quell’arco di tempo in cui gli è concesso di essere giocatori. Anche se le strade poi si separano, quelle scene, quei sapori, quegli odori, le vittorie, le discussioni, le incomprensioni, le imprese, le sconfitte, le conquiste di ogni duro allenamento, le dimostrazioni d’affetto, il senso di appartenenza, il gusto di sentirsi rispettato, stimato, a volte indispensabile, sono tutte emozioni forti che compongono preziosi ricordi, che possiamo portare incastonati nel cuore per sempre e che permettono di superare gli ostacoli della vita, quelle frontiere citate sulla lavagna il primo giorno di lezione: «“LE FRONTIERE SONO DOVE LE TROVI”».

Mai farsele imporre. Superarle sempre. E Linklater, più di ogni altro, sa come valicarle con stile e originalità.

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