graphic novel

La profezia dell’armadillo, di Emanuele Scaringi

Zero (Simone Liberati), indigeno di Rebibbia, ha ventisette anni e sbarca il lunario come può. Dà ripetizioni a uno studente delle medie straniero (in quanto abitante di Roma Nord), lavora per Aeroporti di Roma controllando il lavoro degli operatori (pensando ingenuamente che i suoi numeri servano a migliorare la qualità dei servizi offerti), ma soprattutto disegna. Disegna poster per cantanti punk, manifesti per i centri sociali e fanzine dal contenuto impegnato. Nella sua vita sempre uguale, un pendolo oscillante tra i plum cake e il delirio dei mezzi pubblici, solo due cose lo tengono legato alla realtà: la madre (Laura Morante) che non riesce a nascondere le sue ansie per un figlio adulto che non ha concluso nulla e l’armadillo (Valerio Aprea), sua onnipresente coscienza che lo accompagna ogni giorno con massime e profezie sul modo di comportarsi. Una mail del padre di Camille, una cara amica dell’adolescenza e suo amore mai dichiarato, in cui gliene comunica la morte, lo costringe a fare i conti con la vita e con il significato della parola maturità.

La profezia dell’armadillo rappresenta l’esordio al lungometraggio per Emanuele Scaringi e la sua scelta non poteva essere più azzardata e rischiosa. Il graphic novel di Michele Rech (aka Zerocalcare, che ha collaborato alla sceneggiatura – e solo a quella come dice qui – insieme a Valerio Mastandrea, Oscar Glioti e Johnny Palomba) non è un fumetto mainstream come quelli dei supereroi che da decenni si prestano a trasposizioni cinematografiche. Non è nemmeno un romanzo con una storia ben definita, trasponibile in un continuum filmico come Persepolis. La profezia dell’armadillo è uno stato d’animo disegnato e immaginare come un sentimento e una condizione del cuore e della mente possano essere trasferiti sul grande schermo, fa venire in mente solo due parole: tradimento e delusione.

Profezia Armadillo

E questo urleranno tutti gli spettatori che si recano al cinema da fan sfegatati delle opere di Zerocalcare, pensando di ritrovarlo in carne e ossa in un film che possa essere letto pedissequamente seguendo le pagine del fumetto, così come si farebbe con un libretto all’Opera. Ma La profezia dell’armadillo di Emanuele Scaringi è una produzione artistica altra rispetto a un graphic novel che, in questo caso, per sua endemica essenza è intrasferibile su qualunque altro mezzo che non sia il fumetto stesso. E se ci si reca al cinema ricordando i sentimenti provati durante la lettura del romanzo, il disagio sulla propria vita osservato con gli occhi di un disegnatore e il dolore per la perdita di qualcuno (che in questo caso è un’amica d’infanzia strappata alla vita da un dolore profondissimo), cercando in ogni scena quello lo spleen Baudelairiano che anima ogni pagina di Zero, ecco, solo in questi casi, si rimarrà soddisfatti.

La profezia dell’armadillo è un film riuscito. Di fronte ad alcuni demeriti, come un ritmo a volte troppo lento e affaticato, e a molti meriti dell’opera, tra i quali l’interpretazione magistrale di Valerio Aprea nei panni, sì, di un armadillo, o l’ambientazione fedelissima nella Roma di Zerocalcare, non si può far altro che uscire dalla sala soddisfatti e con una voglia sfrenata di riprendere in mano il fumetto per ritrovare lo stesso sentimento appena provato in sala. Un progetto che ha affascinato molti dei noti attori del panorama cinematografico italiano (tra cui Kasia Smutniak, che in una breve intervista a fine proiezione ha dichiarato che si sarebbe accontentata di fare la comparsa della vecchina per strada pur di lavorare anche un solo giorno con Emanuele Scaringi) e che dato la possibilità a Simone Liberati e a Pietro Castellitto (nei panni dell’amico Secco) di misurarsi con un’interpretazione difficile, ma convincente.

 

Si chiama profezia dell’armadillo qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

 

 

Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

Frantumi, di Giovanni Masi e Rita Petruccioli

I giapponesi la chiamano kintsugi. È l’arte di valorizzare gli oggetti di ceramica che si sono incrinati o frantumati.
Esattamente come un recipiente di ceramica, anche Mattia, il protagonista di questa graphic novel edita da BAO Publishing, si incrina. L’insicurezza del suo rapporto con Sofia si amplifica per via di una precaria situazione di salute di lei.
Lo capiamo da uno scambio di messaggi dettati da quella tiepida diplomazia di chi cancella ciò che pensa veramente per paura di ferire (o di ferirsi) e affida ai balloon della chat solo quella parte di emozioni che non comportano alcun rischio. Entrambi gli attori di questo scambio di battute censura la propria autenticità e senza rendersene conto alimenta la propria disintegrazione emotiva.

In quel martellante “sta scrivendo…” lo sceneggiatore svela un’insicurezza comunicativa che si preoccupa di riformulare, amputare e trasformare frasi e pensieri. Con un semplice scambio di battute il lettore avverte la caparbia volontà di Mattia di tenere insieme le tesserine che compongono il mosaico della sua realtà. Ma basta il perdurare di un silenzio per distruggere tutto e mandare in frantumi la sua vita.
Il problema è che la sua vita non fa in frantumi in senso figurato.
Seduto in un bar di Termini, mentre aspetta l’amore della sua vita e le risposte che lei non può darle, il quadro che compone la realtà davanti ai suoi occhi semplicemente di squarcia in mille pezzi.

Tutto precipita in un mare denso, senza fondo, senza appigli e soprattutto senza senso logico. Mattia si risveglia su una spiaggia, come ogni naufrago che si rispetti.
Scopre un luogo onirico, in cui altri relitti umani aspettano di ritrovare quello che hanno smarrito. Senza sapere cosa hanno smarrito. La regola diffusa di questo posto-non posto è una sola: non si parla del problema in modo che il problema stesso non esista.
A ognuna di queste persone manca, sempre letteralmente, un pezzo e l’isola su cui tutti sono naufragati diventa uno spettrale cimitero di bambole rotte.
Sospeso in questo limbo tanto fisico quanto conoscitivo, Mattia non ricorda più  quello che stava aspettando quando il suo incubo è iniziato e si affanna a cercare di recuperare il pezzo mancante della sua memoria. Sua unica guida nel labirinto in cui si trova suo malgrado incastrato è Laila, una ragazza all’apparenza forte, sicura, ormai cinicamente abituata alla sua vita da naufraga. Ha smesso di affannarsi per risolvere la sua situazione e invita Mattia a fare altrettanto.

A metà strada tra Alice nel Paese delle Meraviglie e Oralndo Furioso nel palazzo di Atlante, Mattia compie il suo atipico viaggio di formazione, e scopre che la realtà autolesionistica con cui si è imprigionato non ha confini, l’unico modo per “tornare a casa” è accettare l’insicurezza della sua situazione.
Un istante prima di disintegrare se stesso, Mattia riparte proprio da dove si è spiaggiato: dall’ultimo messaggio inviato dal cellulare, il suo ultimo disperato grido di aiuto lanciato all’amata. Quella stessa realtà temuta e fuggita dal protagonista si ricompone come le tessere di un puzzle quando lui sceglie di abbracciarla nonostante tutto.
Come per l’arte giapponese, la scelta di riassemblare con la pasta dorata i pezzi di una ceramica rotta genera nuova bellezza.

È una storia profondamente metaforica quella ideata da Giovanni Masi, universale nell’approccio al tema del dolore e della perdita. Mentre il tratto grafico, al tempo stesso lineare ed estremamente espressivo, segno distintivo di Rita Petruccioli, smorza l’estrema oniricità della narrazione. Diventa praticamente didascalica la definizione di graphic novel per un’opera come questa, in cui la sintesi di linee e colori diventa uno strumento capace di restituire anche le atmosfere narrative più intense e semanticamente stratificate.
Ne è un mirabile esempio la sequenza in cui i due protagonisti della vicenda, naufragando su un frammento di nave in quel paludoso mare di malessere senza confini, sentono salire dagli abissi le voci di quella categoria del genere umano che si sente in dovere di dare consigli.
Moderno Ulisse in mezzo alle sirene, Mattia resta schiacciato dal turbinio di voci e di volti che sovrastano ogni cosa.
La storia ideata da Masi è un frammento: è infatti volutamente breve, semplice nella sua linearità e al tempo stesso complessa per il sovrapporsi di strati di significato. Un racconto grafico sul dolore causato dalla perdita, sulla superficialità con cui ci si accosta alla sofferenza altrui e soprattutto sulla caparbietà di chi, non si arrende al dolore ma è costretto ad adattarsi alla situazione di cui è suo malgrado vittima.
Rita Petruccioli traduce questa matrioska metaforica con superfici di colori complementari, con linee nette, capaci di essere rigide quando raffigurano gli ambienti visivi del dolore e sinuose quando in primo piano deve emergere la fragilità umana di personaggi ed emozioni.
Non è certo un caso che le schegge di cui si scompone la realtà sono spigolose, dalle ombre spesse, quasi a sottolineare il peso anche di un solo frammento perso lungo la strada.

Forse l’unico difetto del fumetto sono i passaggi estremamente sospesi tra un momento di pathòs e il successivo momento di equilibrio narrativo. Le dissolvenze sono tutt’altro che sfumate e spesso sono costituite da pagine vuote, riempite solo di colore. Effetto senza dubbio perseguito dagli autori e giustificato dalla necessità di rendere visivamente l’insondabilità del dolore, del vuoto e dell’assenza. Le pagine senza vignette sono quasi delle “epifanie grafiche” in cui il silenzio e il nulla regnano con una evidenza così netta, da non potersi esprimere in nessun modo.

Frantumi è un fumetto raffinato, simbolico nella narrazione ma assolutamente “reale”: come nei racconti ancestrali, le situazioni più surreali sono affrontate nel modo più realistico possibile da un narratore che imprigiona il suo personaggio in un mondo illogico e lo lascia lì, senza ancore di salvezza. È la perfetta resa narrativa del dolore: irrazionale eppure assolutamente reale.
E la metafora del viaggio, del naufragio e della quest  ci ricordano che non si torna mai al punto di partenza nello stesso modo in cui si è partiti: ogni cicatrice o frammento di esperienza modificano in modo irreversibile l’identità sia del personaggio che del lettore.

Titolo: Frantumi
Autori: Giovanni Masi, Rita Petruccioli
Formato: Cartonato 19×26
Pagine: 128
Data di pubblicazione: 01/06/2017

Un anno senza te, di Luca Vanzella e Giopota

Quando essere lasciati sembra essere l’unico modo per trovare se stessi.

Quante banalità si dicono a un amico che ha appena rotto una relazione? Possono essere frasi giustificate o meno dalla sanità del rapporto in cui era invischiato, ma in ogni caso si prova sempre a lenire le ferite con quelle che, spesso, si dimostrano banalità “dai esci, chiodo schiaccia chiodo” , “solo il tempo riuscirà a fartelo dimenticare” , “la verità è che non ti merita davvero” (ma sua quale sia la verità Ken Kwapis ci ha girato una commedia romantica per certi aspetti illuminante). Antonio, come chiunque abbia vissuto quest’esperienza, lo sa: immaginarsi lontano da Tancredi è uno strazio, figuriamoci concepire la propria vita senza di lui a un anno di distanza. Cade nell’ennesima missione d’amore della sua vita, dandosi anima e corpo all’uomo sbagliato e investendo tutto se stesso in un rapporto a senso unico, dove l’ultimo DJ di turno è in grado “dopo appena sei mesi” come gli urla in faccia per scuoterlo il coinquilino Zeno di lasciarlo a pezzi e senza nemmeno la forza di riattaccarli.

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Un anno senza te sembra la solita storia di amore infranto a cui la televisione, il cinema e secoli di letteratura ci hanno abituato. Verrebbe quindi da chiedersi cosa aggiunge di nuovo a questo filone.

Io dico che aggiunge TUTTO.

In primo luogo il tono del testo non è mai triste; la trama della storia è tessuta fittamente di ironia e leggerezza e per questo il fumetto non assume il ruolo di mezzo con cui amplificare il proprio lutto da rottura, ma diventa le lente d’ingrandimento grazie alla quale capire meglio le profonde pieghe del proprio animo. Antonio, del resto, è un giovane laureando e come tale sta attraversando uno dei periodi più difficili e mutevoli della propria vita. Anche una fase di transizione così importante, grazie all’ironia e alla levità del testo, viene, paradossalmente, scandagliata in molti dei suoi aspetti, spingendo il lettore di qualunque età a rimanere completamente coinvolto non solo nelle vicende di Antonio (chi, del resto, non ha mai avuto il cuore a pezzi?), ma di tutti gli studenti della grassa Bologna che appaiono nella storia, direttamente o indirettamente coinvolti nella vita del protagonista. Sono tanti i temi trattati (non approfondisco nemmeno l’omosessualità perché è presentata con la naturalezza che le spetta e, quindi, non risulta particolare), ma tutti appaiono dignitosi e mai banali: disabilità, precarietà, nepotismo accademico, insicurezze per il futuro.

In secondo luogo il disegno di Un anno senza te è tra i più puliti e rilassanti delle ultime mie letture, dove le scale cromatiche sono accostate con sapienza e abilità, le architetture sono definite con precisione quasi maniacale e la suddivisione delle tavole accompagna i sentimenti che scorrono nel testo, spingendo a sfogliare una pagina dopo l’altra senza rendersi conto di come aver raggiunto la fine.

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In terzo luogo la scelta geniale degli autori di Un anno senza te – che, per inciso, sembrano essere due mani sole, talmente coerenti risultano i loro stili di disegno e sceneggiatura – di fondere il realismo prosastico delle giornate passate a spulciare tomi di epigrafia per studiare i Santi dimenticati in preparazione alla tesi di laurea con un’ambientazione surreale e fantastica, in dosi così equilibrare da far apparire normale che cadano conigli bianchi al posto dei fiocchi di neve o che la meta più ambita per l’Erasmus sia Atlantide. Non c’è alcuno stacco straniante tra queste due dimensioni che, tra l’altro, accentuano la levità di Un anno senza te. I due piani si fondono con estrema naturalezza al punto da chiedersi se chiunque, in una fase così complicata e contorta della propria esistenza (e non soltanto perché è stato appena mollato) non tenda a vivere in un proprio mondo, parallelo a quello reale ma autonomo rispetto al primo, in cui è la fantasia a vincere sui turni con i coinquilini per pulire l’appartamento condiviso.

Un modo per sopravvivere? Forse. Io leggo più una tappa obbligata da attraversare per capire meglio se stessi. Poco importa se fatta di cinque, dodici o cento mesi. Prima o poi il mondo non sarà più lo stesso o come lo ricordavi. E lo stesso vale per i lettori di Un anno senza te.

Airboy, di James Robinson e Greg Hinkle

“Airboy. Un progetto che ha deliziato alcuni e fatto infuriare altri. Un’opera sicuramente provocatoria e – spero – divertente. Ma quello che davvero mi auguro è che sia, anche se opportunamente filtrata e deformata, sincera.
[James Robinson]

Il britannico James Dale Robinson, in qualità di sceneggiatore noto semplicemente come James Robinson (Manchester, 1º aprile 1963), ha consegnato alla storia un graphic novel d’autore fresco, veloce, che diverte e si diverte a dissacrare miti cartacei e la sua stessa figura di scrittore di successo. Robinson, infatti, è stato premiato con l’Eisner Award 1997, nella categoria “Miglior storia a puntate”, per la saga contenuta nei numeri dal 20 al 23 del suo Starman, finora la sua opera di maggior pregio, in cui ha rivitalizzato un personaggio della Golden Age del fumetto americano, caduto nell’oblio degli anni ‘50, come molti suoi colleghi anche di maggior fama, rendendolo un successo di critica e pubblico.

Un milione di anni fa, nell’attesa che una delle due grandi case editrici di fumetti americane, la Marvel Comics e la DC Comics, mi ingaggiassero come autore, scrivevo graphic novel e miniserie piuttosto bizzarre per piccoli editori. Qualcuno che abbia familiarità con i miei lavori ricorda per caso Illegal Alien, Blue Beard, 67 Seconds o la mia prima opera pubblicata, London’s Dark? Non mi ero allontanato consapevolmente da questo tipo di cose, che definirei personali e sperimentali, eppure erano passati anni dall’ultima volta in cui avevo anche soltanto pensato a qualcosa del genere. Anni? Se ci rifletto bene, credo fossero decenni. Volevo togliermi di dosso un po’ di quella ruggine creativa che avevo accumulato e Airboy mi sembrava l’occasione giusta. Volevo superare i confini tradizionali di questo genere di storie. Volevo turbare e provocare, comunicare le paure e le insicurezze che avevo dentro, le meschinità tra colleghi, l’angosciante terrore che la mia prossima idea potrebbe essere l’ultima. Volevo mettermi a nudo. E volevo farlo con un umorismo incentrato il più possibile su di me.

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Airboy è un aviatore, il protagonista di una celebre serie a fumetti ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale e appartenente, sempre, alla Golden Age. Un personaggio in guerra perenne contro il nazismo e declinato attraverso avventure che si dipanano tra cielo e terra, affiancato da uno squadrone di assi dell’aria. Il presupposto, però, che innesca la trama dell’Airboy di James Robinson (storia) e Greg Hinkle (disegni), è che il copyright del personaggio in questione non è stato rivendicato da nessuno alla scadenza. Così, come in un crossover tra realtà tangibile e un multiverso fatto di matita e china, un James Robinson riluttante e depresso viene assunto da Eric Stephenson di Image Comics [casa editrice della versione originale] per forgiare per Airboy un reboot come solo lui sa fare, un probabile trionfo come quello di Starman o Hawkman. Quello che ne nasce è una straordinaria avventura metafisica, metafumettistica farcita di humour ed elementi autobiografici anche intimisti, che vede Robinson coinvolgere Hinkle in stravizi e festini a base di sesso, droga, poco rock e molto rolla&sniffa nell’attesa di avere l’ispirazione giusta. Ma con Airboy non si scherza! Un personaggio integerrimo e incorruttibile come lui non può lasciare le mirabolanti peripezie del suo squadrone in mano a due debosciati pusillanimi. La sua bussola morale risulterà intaccata dalla nostra realtà depravata e superficiale? Come ottenere attenzione e rispetto dai suoi due increduli nuovi autori? Quale realtà avrà la meglio sull’altra?

AIRBOY è uno dei fumetti Image Comics più sorprendenti, geniali e divertenti degli ultimi anni. Un delirio assurdamente lucido di Robinson, che Hinkle fa volteggiare ad alta quota con il suo stile da indipendente e che Saldapress orgogliosamente pubblica in Italia in un volume brossurato di 120 pagine totalmente a colori e senza censure di alcun tipo, al prezzo di 14,90€. I primi quattro numeri sensazionali capitoli di Airboy sono impreziositi da contenuti extra di notevole interesse: la prefazione di James Robinson – che introduce in maniera puntuale quanto necessaria il lettore all’interno dell’opera ancora prima di aver letto il primo balloon –, gli studi sui personaggi, pagine della sceneggiatura originale, storyboard e making of del processo di realizzazione di alcune delle tavole più belle. Lecito aspettarsi un giorno, speriamo non troppo lontano, una deluxe edition cartonata.

Tutti quelli che leggono Airboy a un certo punto mi chiedono: «E allora? Tutte quelle cose sono successe veramente? Quanto c’è di vero?». E la mia risposta è sempre la stessa: «Tutto e niente. Decidete voi». Sono immensamente orgoglioso di questo lavoro. Lo considero tra i migliori tra quelli che ho scritto durante tutto l’arco della mia carriera. Credo fermamente, però, che qualsiasi sforzo artistico funzioni meglio quando nessuno lo spiega. Io ho finito, quindi, adesso tocca a voi. Grazie
[James Robinson]

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Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, di Franco Giubilei

Andrea Pazienza non se n’è mai andato veramente. È sempre rimasto qui con noi nonostante siano passati 23 anni da quel maledetto 15 giugno 1988. Se è vero che per diventare immortali bisogna avvalersi di un registro universale in grado di toccare il cuore delle persone a cui ci si rivolge, Paz ha fatto quello che doveva fare. Per questo, pur essendo separati da una differenza incolmabile di anni, Pazienza è riuscito a parlarmi ma soprattutto a raccontarmi di quelle sensazioni che attraversano ognuno di noi nei momenti più belli ma anche più difficili della nostra vita. Era questa la sua straordinaria forza: riuscire a sintetizzare con il disegno e il testo la realtà che lo circondava. In fondo, riprendendo le parole di Vincino:

Andrea non cercava altro che il segno del tempo

Franco Giubilei rinuncia ad imporre la sua parola al capitolo Pazienza, preferendo dare voce a chi, quegli anni, li ha vissuti e condivisi con la rockstar del fumetto italiano. Ecco quindi prendere parola le donne amate (Isabella, Betta, Marina,), gli amici (come Marcello D’Angelo, Gino Castaldo) o i compagni di strada (come Marcello Jori, Vincino, Filippo Scozzari). Il ritratto che ne esce non vuole essere definitivo, sarebbe una pretesa impossibile, tutt’al più rende più nitidi i contorni della sua figura. Attraverso le diverse testimonianze viene soprattutto approfondito quel mondo che Pazienza abilmente tratteggiava. La sua esistenza, invece, riusciamo solo a sbirciarla o a spiarla ma è giusto che sia così. Infatti nella realtà quotidiana non ci viene mai offerta l’occasione di conoscere qualcuno in una sola volta (e spesso neanche passandoci tutta la vita) perché quindi pretendere la stessa cosa da un libro?

Pazienza era amato da tanti per quella sua capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino adulto e carpirne l’essenza per le sue tavole, e odiato, perché se n’è andato troppo presto e gli interrogativi su quello che avrebbe potuto realizzare sono infiniti. Ma è andata così. Da questo libro ne esce un affresco umano e pieno di sensibilità sulla persona che era Andrea Pazienza, con i suoi pregi e i suoi difetti, un ragazzo/uomo innamorato della vita e del suo lavoro, ma allo stesso tempo sopraffatto da qualcosa di oscuro che lo tormentava fino a soffocarlo. La ricostruzione di Giubilei ci restituisce un Paz ricco di genio ma anche miserevole in tanti lati. Un Pazienza che una parte considerevole dei suoi “amici” o semplicemente ammiratori non vogliono ricordare, dedicandosi ad un vergognoso quanto patetico revisionismo storico dello scomparso prematuramente.

Paz

In questa biografia si affrontano gli inizi di quel bambino precoce a San Severo, sempre con una matita in mano intento a emulare il padre – un rapporto conflittuale sull’arte “alta” come la pittura e quella inferiore del fumetto che lo tormenterà fino alla fine – e i primi amori, il sud, la scuola e il trasferimento a Pescara dove la personalità prorompente e il fisco atletico lo faranno diventare un personaggio unico, da fumetto se vogliamo. Poi c’è la Bologna del DAMS, quella della rivoluzione artistica e musicale, quella di Tondelli, di Freak Antoni e degli Skiantos. Una Bologna simile a una Berlino dei giorni nostri. E lì ci trova Isabella Damiani, il suo primo grande amore che lo segnerà per sempre, e che lui tenterà di dimenticare invano, anche attraverso un matrimonio improvviso con Marina Comandini a Montepulciano dove si trasferì negli ultimi anni per trovare nuova pace interiore.

Quello che manca a questo prezioso lavoro del giornalista milanese è un (necessario) apparato iconografico che accompagni la narrazione della vita attraverso visione di estratti delle sue opere. Elemento imprescindibile per consentire anche al “profano” di capire i tanti riferimenti e rimandi contenuti in questo ottovolante umano e artistico che è la Vita di Paz.

“A me – dice Andrea Paz Pazienza in un’intervista a 25 anni – non interessa la maturità perché io non credo nella maturità nel senso di acquisizione di conoscenza, responsabilizzazione, presa di coscienza di certi fatti. Mi piacerebbe rimanere giovane il più possibile, nel senso di non doverla mai menare a nessuno dicendogli quello che secondo me deve o non deve fare”.

Franco Giubilei, Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, Odoya, Roma 2016, pagine 301, euro 18.

Tobiko, di Maurizia Rubino

Tobiko è il primo graphic novel di Maurizia Rubino: un esordio sorprendentemente tenero e profondo

L’unica colpa di Tobiko e Pop è quella di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sulla terra vige uno scenario apocalittico dove tutti gli esseri viventi sono scomparsi, annientandosi a vicenda a partire proprio dalla specie umana che si è dimenticata del ruolo dell’amore anteponendo alle ragioni del cuore quelle del potere. Solo due fazioni sono sopravvissute alla devastazione: quella degli orsi polari, a cui Pop appartiene, e quella dei corvi, che hanno allevato come una di loro la piccola Tobiko, l’unica umana rimasta sulla terra. In mezzo a questa lotta all’ultimo sangue per la supremazia, Tobiko e Pop vivono la loro storia di amicizia, iniziata per caso ed evolutasi in un legame in grado di abbattere anche le spesse e insormontabili barriere dell’odio. E qui si interrompe la mia trattazione della trama: così come nelle migliori storie che lasciano il lettore con il naso immerso nelle pagine, anche Tobiko avrà mille soprese da svelare tavola dopo tavola. Maurizia Rubino esordisce nel mondo dei graphic novel e lo fa col botto, entrando a pieno titolo nell’Olimpo delle nuove generazioni di disegnatori sensibili e profondi ma al tempo stesso consapevoli della necessità di trovare forme espressive nuove e, perché no, contaminate. Quello che apparentemente sembra un graphic novel destinato ai lettori più giovani, in realtà calza perfettamente a pennello con il titolo di libro per tutti.

Tobiko

I bambini e i giovani adolescenti capiranno il valore della tenerezza, in Tobiko in forte contrasto con la desolazione circostante, nelle relazioni che si vivono ogni giorno. Questi lettori, bombardati da mille stimoli materiali e consumistici nell’era della comunicazione digitale, apriranno nella loro quotidianità una parentesi di delicatezza e levità in grado di educarli al rispetto del prossimo.

Gli adulti, dal canto loro, scopriranno una veste inedita dell’amore, sentimento che diventa il detonatore di un’arma di distruzione (usata subdolamente dal partito dei corvi in grado di superare in crudeltà i predecessori umani). Leggendo di Pop e Tobiko si apriranno nuove porte sui recessi reconditi del sentimento più complicato e affascinante del mondo. Procedendo attraverso vignette pennellate di azzurro viola e nero, colori così contrastanti tra loro che in nessun altro modo si sarebbe potuto rappresentare un mondo di sentimenti così forti, la piuma che accompagna tutta la storia (la novella Icaro Tobiko incontra il dolce Pop proprio durante la ricerca di piume per costruire le ali in grado di farla volare accanto ai suoi amici corvi) diventa la metafora dell’amore: un sentimento così delicato e prezioso che si può tenere tra le mani per evitare di farlo andare via solo senza stringere troppo, per non correre il rischio di spezzarlo. Tobiko

Tobiko rappresenta perfettamente il modo nuovo di raccontare storie nel mondo dei fumetti italiani contemporanei, mischiando suggestioni orientali (il tratto ricorda molto quello dei supercute manga kawaii) alle contrastate forze interiori che caratterizzano le storie di matrice occidentali. Una lettura che mi sento di consigliare a chiunque: non è mai abbastanza profonda l’educazione alla bellezza.

La graphic novel ufficiale di Maze Runner – La fuga

«Fuggire dal labirinto era solo l’inizio»

Edita da Panini Comics, Maze Runner – La fuga è la graphic novel ufficiale, un’antologia tie-in per approfondire il mondo distopico creato da James Dashner e il passato dei personaggi che incrociano il cammino di Thomas, il protagonista dell’emozionante saga trasformata in film dalla 20th Century Fox.

«Sto parlando del mondo di Maze Runner – una versione futura del nostro mondo, spoglio e insensibile eppure ancora pieno di cose come l’amicizia, la lealtà e una feroce volontà di sopravvivere. E con personaggi che sono diventati reali per così tante persone. Vederlo prendere vita in un film – sul grande schermo – è stato indescrivibilmente elettrizzante per me».

Disegni stilizzati, personaggi riconoscibili, atmosfera mantenuta il più possibile simile a quella dei film, ampia tavolozza di colori, tra l’altro ben dosati e soprattutto bellissime le tavole divisorie a tutta pagina. Cinque storie che mostrano momenti inediti del passato dei ragazzi rinchiusi nella Radura al centro del Labirinto ma anche rivelazioni incredibili sulla dottoressa Ava Page, l’origine del W.C.K.D. e la vera funzione del Labirinto. Impreziosiscono il volume due storie scritte dal regista e dallo sceneggiatore dei film, Wes Ball e T.S. Nowlin e un’introduzione veramente intimista dell’autore dei romanzi, citata a più riprese in questa recensione. Tutto il design grafico è stato realizzato, inoltre, da autori di fumetti di fama mondiale.

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“CORRI SOLO”
STORIA: Wes Ball & T.S. Nowlin TESTI: Jackson Lanzing & Collin Kelly [autori di Hacktivist] MATITE: Marcus To [The Flash] CHINE: Richard Zajac & Marcus To COLORI: Josan Gonzalez [The woods]
In cui approfondiamo i pensieri di Minho mentre deve addestrare un nuovo velocista.
“IL MIO AMICO GEORGE”
SCRITTO da Wes Ball & T.S. Nowlin DISEGNI: Marcus To COLORI: Josan Gonzalez
Alby, il primo ad entrare nel labirinto è in compagnia del suo unico amico, ormai “spaccato”, George. Si tratta forse del fratello di Brenda?
“IL VERO LABIRINTO”
SCRITTO da Jackson Lanzing & Collin Kelly DISEGNI: Nick Robles COLORI: Josan Gonzalez
È Aris il protagonista di questa storia ambientata in un altro labirinto dove lui è l’unico elemento maschile.
“BRUCIATI”
SCRITTO da Jackson Lanzing & Collin Kelly DISEGNI: Andrea Mutti [Uomini che odiano le donne] COLORI: Vladimir Popov [Clive Barker’s Hellraiser]
Il primo incontro tra Brenda e Jorge.
“IL MONDO È WICKED”
SCRITTO da Jackson Lanzing & Collin Kelly DISEGNI: Tom Derenick [Batman/Superman] COLORI: Whitney Cogar [Giant days e Adventure time]

La storia più interessante per mole di informazioni raccontate: gli antefatti che hanno portato alla diffusione della malattia, ai tentativi di cura, alla creazione dei labirinti per scopi medici e le divergenze di opinione tra le dottoresse Ava Page e Mary Cooper, il Braccio Destro.

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Questo volume, totalmente a colori, fa da preludio al secondo adattamento cinematografico, mostrando particolari nuovi e inediti sia per i fan dei romanzi sia per chi ha amato la versione su grande schermo. A chi non ha letto i romanzi consiglio, però, di leggere questa graphic novel solo dopo aver visto il secondo film per non rovinarsi gli elementi-sorpresa.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa.»

Descender, di Jeff Lemire e Dustin Nguyen

Da dicembre 2015 anche gli appassionati italiani della nona arte hanno potuto gustare il primo volume, Stelle di latta, della serie fantascientifica Descender creata da Jeff Lemire e Dustin Nguyen, edita oltreoceano da Image Comics. Bao Publishing ha portato in Italia il volume che raccoglie il primo story-arc in un cartonato che, finalmente, rispetta il formato standard dei comic book made in USA, senza ridimensionarne le pagine come era stato già fatto per Saga, Black Science o Pretty Deadly.

Descender racconta un universo ambientato in un futuro imprecisato, dove tantissimi mondi diversi vivono in pace organizzati nel Consiglio Galattico Unito (GCU) e nel quale la molteplicità razziale e “planetaria” non minano la pacifica convivenza. A regolare l’ordine pubblico quotidiano sono delle Intelligenze Artificiali, che, tuttavia, non assolvono esclusivamente al compito di controllori ma spesso sono usati come accompagnatori, maggiordomi o semplici compagni di vita. Improvvisamente questo utopico universo viene spezzato dall’apparizione di nove diversi e giganteschi robot, i Mietitori, uno per ognuno dei nove pianeti principali del Consiglio, che scatenano la loro terribile furia distruttiva su tutte le forme di vita, graziando solo le esistenze robotiche presenti. Invano il dottor Quon, massimo esperto nel campo I.A. e primo creatore dei soggetti in circolazione, tenta un intervento di soccorso: il GCU viene completamente distrutto. Dopo dieci anni la storia riprende su un piccolo pianeta minerario, dove il bambino-robot TIM-21 si risveglia da un lungo sonno. Un trauma lo coglie inesorabile: è rimasto solo in compagnia del suo cane robot Bandit perché tutti i suoi più cari affetti sono morti a causa di un incidente. Cosa è successo? E perché alcuni membri sopravvissuti del CGU sono alla sua caccia? Chi sono i Rottamatori che gli stanno alle calcagna?

Descender - Vol. 1 Cover

Discender rappresenta il perfetto connubio tra la componente della sceneggiatura e quella del disegno, in un’armonia profonda che accompagna l’intensità della lettura in ogni sua fase.

Jeff Lemire (autore Vertigo e DC, sceneggiatore di The Nobody, Essex County Trilogy, Sweet Tooth, Animal Man), esprime magistralmente la sua arte per almeno due ragioni su tutte. In primo luogo, l’artista canadese si è dimostrato capace di creare, letteralmente, un vero e proprio universo narrativo, composto da svariati pianeti precisamente caratterizzati, e altrettante forme di vita: qualsiasi opera di fantascienza con un’ambientazione cosmica non può prescindere da questo. In secondo luogo ogni personaggio è stato creato con una specifica attitudine e un preciso ruolo nell’ambio di questo moderno “space drama”. Tra tutti, il protagonista: TIM-21 è sì un robot, ma prima di tutto è un bambino, una giovane creatura che ha perso tutti coloro che amava e che lo amavano, che si trova praticamente da solo in una galassia crepuscolare e cattiva, braccato da tutte le parti. Il personaggio saprà entrare nel cuore del lettore con grandissima facilità, poiché in possesso di alcuni di quegli elementi costitutivi di tanti personaggi che sono stati sicuramente fonte d’ispirazione nella sua creazione (vi ricorda qualcosa un altro piccolo extraterrestre smarrito nell’universo e che vuole chiamare casa?).

Dustin Nguyen (The Auothority, Wildcats, Batman) dimostra una consistente evoluzione del suo stile, grazie a una costruzione più dinamica e a tratti quasi sperimentale dello storytelling, e a una cura particolare dedicata ai dettagli delle varie location cosmiche entro le quali la storia si svolge. Ancora, Nguyen si occupa, in questa serie, anche dei colori, riuscendo a fare davvero magie con la tavolozza, infondendo ulteriore dinamismo e carica emozionale con le sue scelte cromatiche. Descender è decisamente un piacere per gli occhi, un’opera d’arte futuristica a tutti gli effetti.

Descender, Vol.1 Tavola

Descender va oltre l’inflazionato tema del conflitto uomo vs macchina per raccontare la vicenda di un bambino perduto nella spazio, un’epopea fantascientifica in cui risulta preponderante il tono malinconico (pur miscelato con un pizzico di azione). Nonostante il protagonista e tutta l’atmosfera appartengano al mondo delle creazioni tecnologiche e artificiali, in questo graphic novel i sentimenti sono così forti da non avere nulla da invidiare ai testi più “umani” scritti nel mondo della letteratura contemporanea.

Dammi la mano, di Simona Binni

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Sentirò la tua mancanza Jonathan.
Che dici mai? Sully, vergogna!
Se la nostra amicizia dipendesse da cose come lo spazio e il tempo, allora, una volta superati spazio e tempo, noi avremmo anche distrutto questo nostro sodalizio! Non ti pare? Ma se superi il tempo e lo spazio, non vi sarà nient’altro che l’adesso e il qui, il qui e l’adesso.

L’incipit tratto dal famoso libro di Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston lascia intendere che Dammi la mano, il ventideusimo numero della collana Tipitondi di Tunuè, disegnato da Simona Binni e colorato da Marcello Iozzoli, non è indirizzato esclusivamente al target di riferimento dei titoli presenti nella collana. In quarta di copertina troviamo, infatti, la dicitura 8-99 anni: una storia che ha da raccontare e da ispirare lettori di ogni età, facendo leva su diverse emozioni ma rimanendo analogamente colpiti dal racconto.

In Dammi la mano Jonathan e Maya sono due ragazzini che frequentano la stessa classe. Entrambi provengono da contesti familiari difficili e a scuola sono spesso soggetti a richiami disciplinari, tanto che dopo una lite particolarmente accesa vengono convocati in presidenza. Il professor Dante ha in serbo per loro una punizione a dir poco inconsueta: pulire e riverniciare un vecchio aereo donato dal sindaco alla scuola. Ogni giorno, dopo la scuola, dovranno incontrarsi fin quando il lavoro non sarà terminato. I ragazzi, costretti a lavorare insieme, inizieranno a conoscersi meglio. Sebbene all’inizio i due non riescano a trovare alcun punto di incontro e ogni pomeriggio si configuri come un’indicibile tiortura, pian piano capiranno di non essere poi così tanto diversi: la vita a cui il destino li ha costretti risuona della stessa musica dolorosa e insieme riescono a dar voce a una melodia armonica e, per la prima volta, gioiosa.

Attraverso il continuo progredire del rapporto, sempre più intimo, di intesa e amicizia tra la coppia di protagonisti, l’autrice esamina il difficile periodo di transizione preadolescenziale; periodo qui scandito dalle strofe di alcune canzoni di De André, dei Subsonica e degli Oasis. Un passaggio non sempre semplice, irto di difficoltà psicologiche e di evoluzioni fisiche. Un insieme di gioie e paure che Gianluca e Maya superano sostenendosi e incoraggiandosi, dandosi “letteralmente” la mano. L’incontro di queste due solitudini permette alla Binni di mostrare uno spaccato non sempre felice della famiglia italiana, dove il “mestiere” di genitore si scontra con la dura realtà quotidiana fatta di lavoro e crisi personali.

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Dammi la mano conferma la bravura di questa autrice, già uscita per i tipi Tunuè con lo splendido graphic novel “siculo” Amina e il vulcano, che riesce a creare un racconto dalla struttura semplice ma convincente, disegnato con il consueto stile grafico, in cui le teste enormi dei protagonisti fanno da contraltare alla fragilità dei loro corpi. Un racconto dall’inizio dolce e malinconico, che lascia poi il posto a un futuro di speranza e di sogni da provare a realizzare, come mostrato nel commovente finale. Di questa dolcezza tutti abbiamo bisogno: i giovani lettori per guardare al futuro con serenità; i lettori più adulti per ricordare, tra le difficoltà del quotidiano, che la vita ha sempre sorprese inaspettate e felici da riservare.