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Scappa – Get Out, di Jordan Peele

Scritto e diretto da Jordan Peele, l’attore comico afroamericano del canale Comedy Central [Vi presento i nostri, Nudi e felici, Cicogne in missione] al suo debutto assoluto come filmmaker, Scappa – Get out s’inserisce di diritto nella corrente dei generi ibridati. Si tratta di un horror particolare che ad un sottotesto di denuncia antirazzista innesta scene altamente comiche affidate perlopiù al personaggio interpretato dal magnetico Lil Rel Howery, coetaneo e collega comico del regista.

Come già verificato con The visit di M. Night Shyamalan, il rischio che si corre, con un horror contaminato in maniera diffusa dalla commedia, è di smorzare troppo il climax di tensione, gelando il battito cardiaco dell’esperto spettatore di genere, in virtù di una presunta freschezza di attenzione fornita da un netto contrasto tra risata e thrilling. La scelta di limitare la vis comica ad un solo attore permette, invece, di misurare il calo di tensione, di controbilanciare il sano terrore per la salute del protagonista, senza che una forza centrifuga troppo prorompente trascini il pubblico in uno straniamento a cui un horror non dovrebbe mai puntare, se ci tiene a far paura. Un discorso a parte va fatto se invece l’intento è di far emergere un’ironia diffusa.

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Nel caso di Scappa – Get out è evidente che ci sia un messaggio neanche tanto sottinteso. Jordan Peele sembra dare forma all’estremizzazione del razzismo, sembra giustificare una “caccia all’afroamericano” ma presupponendo una consapevolezza implicita della sua superiorità sul caucasico. Insomma, è come se si ritornasse alle questioni che dominavano il film di Spike Lee Fa’ la cosa giusta ma declinandole in un contesto di rapimenti, ipnosi forzate, torture ed esperimenti parascientifici.

L’incipit rende palese fin da subito l’ibridazione partendo da un esterno notte con rapimento, seguito da titoli di testa, ormai anacronistici, in cui una musica R&B preannuncia già quale sarà il punto di vista delle vicende.

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Chris e Rose, una coppia interrazziale, va a far visita ai genitori di lei, Dean [Bradley Whitford, Saving Mr. Banks, Quella casa nel bosco] e Missy [Catherine Keener, candidata all’Oscar® come miglior attrice non protagonista per Essere John Malkovich e Truman Capote – A sangue freddo]. Chris [Daniel Kaluuya] è un fotografo dallo sguardo attento e profondo, Rose [Allison Williams] la fidanzata amorevole che tutti vorrebbero. Ma, una volta a destinazione, la ragazza sembra non percepire lo stesso mood negativo del ragazzo che si ritrova da solo ad indagare sugli strani comportamenti di Georgina e Walter, anacronistici servi di famiglia, mentre prova, come ogni buon genero, ad evitare problemi con dei suoceri eccentrici senza deludere né loro né la loro amata figlia. Ma per quanto Chris possa non volere problemi, saranno i problemi a trovare lui. E se l’unica sua speranza è Rod, il suo amico petulante, interpretato dallo spassoso Howery…

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E dire che nel viaggio verso casa dei suoceri, un incidente avrebbe potuto far presagire qualcosa. Probabilmente il personaggio di Chris non ha mai visto The invitation, dove l’aver investito un animale selvatico diventa allegoria della messa in pericolo della sua libertà, nonché della sua vita. La figura della vittima sacrificale non è l’unico nesso con il film di Karyn Kusama. Anche in Scappa – Get out l’ambiente principale è una villa di lusso, dove vivono le regole di una comunità chiusa dalla mente deviata e dove il protagonista dovrà lottare contro il proprio senso di colpa prima che per la propria vita.

Non mancano, poi, i riferimenti esterni e le allusioni colte con un Jesse Owens citato come rivale sportivo del nonno di Rose e il cotone che, da simbolo di schiavitù e frustrazione, assurge a possibile strumento di libertà e rivalsa.

Pur non considerandolo un film da vedere e rivedere, bisogna ammettere che Scappa – Get out di spunti di riflessione ne fornisce e il fatto che rappresenti solo il primo approccio del regista al genere horror, non può che far ben sperare per i lavori futuri. In questo caso Jordan Peele sembra essersi concentrato un po’ troppo sul sottotesto non curando abbastanza il mistero e rendendo troppo sbrigativa la resa dei conti finale. Giudizio sospeso, quindi, nell’attesa dei prossimi lavori.

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Il protagonista, Daniel Kaluuya, già tra gli interpreti di Kick-Ass 2 e Sicario, lo vedremo presto in Widows, diretto da Steve McQueen e in Black Panther, l’imminente nuovo fumetto Marvel trasposto per il cinema dal Ryan Coogler di Creed.

La notte del giudizio – Election year, di James DeMonaco

In un futuro distopico si ritiene giusto che la cura per la crisi economica e la dilagante delinquenza sia fornire ai cittadini un’occasione annuale di iperviolenza “controllata”, denominata Sfogo [The Purge]: 12 ore di terrore, durante le quali tutte le attività criminali, compreso l’omicidio, diventano legali. Due sole regole: divieto di aggressione ai funzionari governativi di livello 10 e divieto di armi da guerra come granate, bazooka, mine antiuomo e lanciamissili. L’interessante serie di film che fanno capo a La notte del giudizio, di James DeMonaco [Il negoziatore, Assault on Precinct 13], un survival horror che sfrutta la tensione della home invasion per nascondere una forte critica sociale, parte proprio da questi presupposti.

La notte del giudizio – Election year è il terzo capitolo di questa fortunata saga che si fa prepotentemente largo tra i migliori titoli di un genere molto particolare: la fantascienza sociologica, termine che traduce l’originale social science fiction e che, dalla fine degli anni cinquanta, è stato coniato per definire un insieme di romanzi e racconti di fantascienza a sfondo sociale incentrati sulle scienze sociali più che sulla tecnologia. Scrittori come Robert Sheckley, Frederik Pohl, Cyril M. Kornbluth, William Tenn, hanno fatto da pionieri per i più noti Richard Matheson, Mack Reynolds e Philip K. Dick, che hanno ispirato pellicole leggendarie e che continuano ad influenzare le nuove generazioni. Le recenti saghe young adult di successo, come Hunger games, Divergent, La quinta onda o Maze runner, rientrano a pieno titolo nel settore social sci-fi.

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La fantascienza sociologica pone l’accento non tanto su improbabili tecnologie scientifiche o su avventure spaziali oltre i confini conosciuti dell’universo, quanto più su ipotetiche evoluzioni della società umana, che diventano proiezioni future del presente e, quindi, oggetto di satira, ironia e sarcasmo più o meno celati: politica, economia, mass media, pubblicità, industrializzazione, legalità, morale, abitudini, atteggiamenti, persino sentimenti e rapporti interpersonali, come Terry Gilliam ci mostra in The Zero Theorem, finiscono sotto una lente d’ingrandimento che diventa specchio distorto dell’epoca attuale.

Per fare un altro esempio illustre, nel racconto La settima vittima (1954, in piena Guerra Fredda), che ha ispirato La decima vittima di Elio Petri, Contenders – Serie 7 e, con molta probabilità, anche gli Hunger games, Robert Sheckley ipotizzava una società che, per evitare i conflitti bellici, con l’intento catartico di dar “sfogo” all’innato istinto violento dell’uomo, come in La notte del giudizio, paradossalmente istituzionalizzava l’omicidio, attraverso una sorta di gioco mortale con regole da rispettare per i partecipanti e premi ai “cacciatori” più esperti. Anche Ray Bradbury, in Fahrenheit 451 (1953) narra di una società futura antidemocratica in cui i giochi a premi interattivi offuscano la mente delle persone, possedere libri è un crimine e sono i pompieri a provvedere a bruciarli. Anche Fahrenheit 451 ebbe la sua trasposizione cinematografica grazie a François Truffaut nel 1966.

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Così, in questo contesto di satira sociale e fantapolitica quelli che in La notte del giudizio sono i leader chiamati «Nuovi Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America, una nazione risorta» sono la proiezioni delle teorie cospirative odierne che vedono nella società segreta dei cosiddetti “Illuminati”, un gruppo oligarchico, che vorrebbe stabilire un “Nuovo Ordine Mondiale”, manipolando subdolamente la popolazione per soppiantare l’attuale status sociale con lo scopo ultimo di ottenere il controllo totale del pianeta.

Non si spinge a tanto la saga scritta e diretta da James DeMonaco e finanziata da due produttori oculati come Jason Blum [Insidious, Paranormal activities, Whiplash] e Michael Bay [Transformers, Ouija, Armageddon]. In La notte del giudizio – Election year, il più fantapolitico dei tre film finora consegnati alle sale da Universal Pictures, l’annuale Sfogo avviene in pieno clima elettorale.
A contrapporsi alla rielezione del leader dei Nuovi Padri Fondatori c’è la senatrice Charlene “Charlie” Roan [Elizabeth Mitchell, star di Lost, Revolution e V], donna dalle «tette piccole, ma dalle palle grosse», decisa ad abolire l’assurda ricorrenza che le è costata la famiglia diciotto anni prima. È pronta a mettere la sua vita in gioco per il bene della popolazione indigente, falcidiata da quella che viene definita, dagli ormai desensibilizzati fanatici, «l’Halloween degli adulti», ma qualcuno ha in serbo per lei un destino diverso da quello che lei auspica.

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«Useremo lo Sfogo di quest’anno per fare le pulizie di primavera».

Dopo il tradimento di una sua guardia del corpo, la senatrice è costretta a scendere per le strade, cercando di sopravvivere in mezzo a pazzi criminali, maniaci delle torture e delle esecuzioni capitali, teppisti emergenti, guerre tra gang rivali, vendicatori improvvisati e invasati “turisti dell’omicidio” provenienti da tutto il mondo. Ad affiancarla e proteggerla rimane solo il suo capo della sicurezza, l’ex sergente Leo Barnes [Frank Grillo], che in AnarchiaLa notte del giudizio era in strada per vendicare la morte del figlio.

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Torna, quindi, il personaggio interpretato da Frank Grillo [Captain America: Civil war, The grey], a svolgere un po’ il ruolo di filo conduttore della narrazione, ma solo per quanto riguarda i due capitoli più recenti, dato che non era presente nel primo capitolo. Se si è stati particolarmente attenti, infatti, durante la visione dell’intera trilogia, esiste un unico collegamento tra i tre film, a parte il meccanismo dello Sfogo: si tratta di Dwayne “Dante” Bishop [Red dawn, Die hard – Duri a morire], che in La notte del giudizio interpretava lo sconosciuto, braccato da una banda di aguzzini altolocati, che bussa alla porta della famiglia protagonista per chiedere aiuto. È lui a rappresentare la resistenza a oltranza di una società assoggettata ai voleri di pochi e il punto di vista estremizzato del regista e dello spettatore.

Come ulteriore ammiccamento ad un criptico sottotesto, si può notare che in uno scontro che si svolge in chiesa le due fazioni sono rappresentate da una parte dal Reverendo, addetto alle celebrazioni religiose dello Sfogo (!) e dall’altra proprio da Bishop che in inglese vuol dire “vescovo”.

«Benedetti siano i Nuovi Padri Fondatori che ci permettono di purificare le nostre anime. Benedetta sia l’America, una nazione risorta».

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Nel cast si può evidenziare la presenza di Mykelti Williamson, il Bubba di Forrest Gump e l’esordio col botto di Brittany Mirabile, che interpreta un villain che si stampa talmente bene nella memoria dello spettatore da meritarne l’incitamento a sopravvivere.

«I want my candy bar!».

Da segnalare, inoltre, la coinvolgente colonna sonora, impreziosita da una straniante 20th century boy dei T-Rex e una significativa I’m afraid of Americans di David Bowie, come ciliegina sulla torta, a commento dei titoli di coda.

«Ricorda tutto il bene che porta lo Sfogo».

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