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Downsizing – Vivere alla grande, di Alexander Payne

E se la soluzione ai più grandi problemi dell’umanità fosse rimpicciolire l’uomo?

È la tesi portata avanti da Downsizing – Vivere alla grande, il film che ha aperto il Festival di Venezia 2017. Il regista, Alexander Payne, stavolta tira di molto su l’asticella e punta a modernizzare il concetto stesso di commedia innestando ad un plot che parte da un presupposto fantascientifico una ramificazione di riflessioni su concetti che vanno dal concreto materialismo alla filosofica ricerca della felicità, dall’ironia della sorte al sottile confine tra volontà e possibilità.
«La porta per la felicità si apre verso l’esterno».

Payne è stato autore di grandi successi di critica come A proposito di Schmidt, Election, Citizen Ruth o Nebraska, il più recente, che gli è valso la nomination come miglior regia agli Oscar® 2014. Come sceneggiatore invece l’Oscar® l’ha ottenuto: nel 2012 e nel 2005 per le sceneggiature rispettivamente di Paradiso amaro (The descendants) e Sideways – In viaggio con Jack.
«Rimpiccioliscono le persone, vanno su Marte, ma non sanno curare la mia fibromialgia».

Uno scienziato norvegese trova il modo di ridurre la massa cellulare degli organismi viventi. Questa già enorme scoperta scientifica diventa ancora più significativa quando 36 volontari decidono di sperimentare la vita da un altro punto di vista. Rimpicciolire l’uomo diventa quindi un modo per rimediare in una botta sola a sovrappopolazione, inquinamento, crisi economica e sfruttamento delle risorse energetiche. Questa «sostenibilità a misura d’uomo» giunge all’orecchio di Paul e Audrey Safranek.
Paul [Matt Damon, Sopravvissuto – The Martian, The Zero theorem, The Great Wall] è quello che si sarebbe potuto definire “un piccolo uomo”, senza grandi ambizioni, «tendente al patetico», con un lavoro che ama, ma che non gli fornisce né prestigio né guadagni considerevoli, mentre Audrey [Kristen Wiig, I sogni segreti di Walter Mitty, Sopravvissuto – The Martian, Ghostbusters], invece, vuol fare le cose in grande, ha progetti ambiziosi, fra cui la casa dei sogni che, però, mal si abbina al loro tenore di vita.
Quando scoprono da una coppia di amici già sottoposti al trattamento, i Lonowski, che con il loro misero reddito nelle nuove metropoli possono campare di rendita e permettersi lussi da arcimilionari, i coniugi Safranek decidono di miniaturizzarsi, ma all’alba della loro nuova esperienza dire che qualcosa va storto è un eufemismo (che poi sarebbe minimizzare!).
«Riduciti al minimo. Ottieni il massimo».

Il premio Oscar® Christoph Waltz [Bastardi senza gloria, Django Unchained, The Zero theorem] ha volentieri aderito al progetto ambizioso di Downsizing – Vivere alla grande e interpreta Dušan Mirkovic, il nuovo vicino di Paul nella minimetropoli di Leisureland. Insieme a lui in scena ritroviamo quasi sempre una vecchia gloria del cinema, il caratterista Udo Kier, conoscenza comune di Lars Von Trier e Dario Argento. I già citati coniugi Lonowski sono interpretati da Jason Sudeikis [Come ti spaccio la famiglia, Race – Il colore della vittoria] e Laura Dern [Jurassic Park, The founder]. Solo un breve cammeo, invece, per Neil Patrick Harris, noto per aver preso parte alla serie tv How I met your mother, ma più di recente per essere il nuovo volto del Conte Olaf nella nuova versione di Una serie di sfortunati eventi su Netflix, e per James Van Der Beek, il Dawson Leery della serie tv Dawson’s creek.
Chi ricava il massimo dalla sua partecipazione dal nuovo film di Alexander Payne è Hong Chau [Vizio di forma]: l’attrice di origini thailandesi è candidata con merito a numerosi premi tra cui spicca il Golden Globe 2018 come miglior attrice non protagonista.

Le riflessioni che scaturiscono dalla visione di Downsizing – Vivere alla grande sono tantissime e l’effetto domino dei ragionamenti mantiene costante la soglia dell’attenzione dello spettatore che vive un’avventura cinematografica continuamente sospesa tra la commedia e il dramma sentimentale in un contesto fantascientifico che presenta risvolti romantici di natura squisitamente umanitaria. Quando il personaggio di Matt Damon si miniaturizza è costretto a “riciclarsi” e si trova a guardare il mondo che lo circonda da un’altra prospettiva, ma a cambiare maggiormente è il suo modo di percepire sé stesso e i rapporti con gli altri.


Per compiere imprese grandiose non serve essere un grande uomo, 12 centimetri sono più che sufficienti! questa è il primo messaggio che passa costante nella visione del film. Che la felicità sia nelle piccole cose, quelle di ogni giorno, è una seconda morale, magari all’apparenza anche scontata, che s’intreccia alla forza dei piccoli gesti, quelli che, si sa, sono capaci di accendere sorrisi splendenti in chi rappresenta il gradino più basso della scala sociale. Questo sì che è un risvolto davvero inaspettato, che quasi fa ombra alle mille trovate scenografiche della clinica miniaturizzante e di Leisureland, trovate che riecheggiano i surreali prodotti della fantasia di Terry Gilliam, ma che sostituiscono al gusto retro di quella fantascienza un’estetica nitida e pulita da film classico americano che colma il gap tra finzione e realtà. Probabilmente la scelta di non calcare la mano, di non andare mai sopra le righe né con la fotografia né con un editing maggiormente accattivante e nemmeno con effetti speciali più sbalorditivi serve a non distrarre dalle riflessioni, che rappresentano il vero obiettivo di Downsizing – Vivere alla grande. Il pelo nell’uovo: un pizzico in più di ironia e sarcasmo lo avrebbe reso un piccolo grande capolavoro, ma comunque resta un film da vedere, assolutamente.

Quel bravo ragazzo – Intervista esclusiva allo sceneggiatore Andrea Agnello

Il 17 novembre uscirà Quel bravo ragazzo, di Enrico Lando, e la Redazione di ShakeMovies ha colto l’occasione per un’intervista in esclusiva ad Andrea Agnello, uno degli sceneggiatori del film, uno dei fiori all’occhiello del cinema italiano, professionista della scrittura cinematografica, scaturito dalla fucina del Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) ed eccellente firma di molti successi cinematografici e televisivi di ultima generazione: tra i film ricordiamo Ma che ci faccio qui!, di Francesco Amato, premiato con David di Donatello e Globo d’Oro; Com’è bello far l’amore, regia di Fausto Brizzi, in testa al box office per due settimane; I più grandi di tutti, regia di Carlo Virzì; Italians, Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso, riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali, Manuale d’amore 2 e Manuale d’amore 3, tutti di Giovanni Veronesi e tutti campioni d’incassi; tra le serie TV: I licealiPiper, Benvenuti a tavola – Nord vs Sud, Fuoriclasse.

L’intervista esclusiva diventa una stupenda occasione per parlare anche del cinema a tutto tondo e per immaginare un futuro per il cinema italiano, che porti al raggiungimento di uno stile inconfondibile, che sappia di nuovo lasciare un segno indelebile, non sporadico, nel panorama mondiale per far esprimere sempre di più le eccellenze e le professionalità come quella di Andrea Agnello. Una storia, la sua, che è quella di tanti scrittori, filmmaker, direttori della fotografia. Una storia che vive di abnegazione e fede in una passione, quella per il cinema, che vale sempre i “rischi” lavorativi e che sa dare soddisfazioni enormi, se alimentata costantemente.

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1 – Come nasce il soggetto di Quel bravo ragazzo? Qual è il nucleo da cui è partito tutto?

Il soggetto nasce da un’idea di Ciro Zecca, un giovane ex-allievo del corso di produzione al CSC, molto bravo nel fare i “pitch”, cioè nel raccontare uno spunto con poche parole ma molto efficaci. Gli do una mano a tirare giù una paginetta di numero. Scriviamo solo l’incidente scatenante, lo spunto da cui tutta la storia prende le mosse, dopodiché lui un giorno mi chiama e mi dice che l’ha mandata in lettura alla Lotus di Marco Belardi. In cuor mio, la prima cosa che penso è che non la leggeranno mai; e invece – caso unico più che raro – ci chiamano per farci un contratto!

2 – Da fonti certe (IMDB, wikipedia) risulta: soggetto scritto da 3 persone e sceneggiatura scritta da 5. Perché? Come vi siete divisi il lavoro? com’è stato il lavoro in team? Vi siete divisi i personaggi? Quali sono stati i vostri ruoli? Tu hai scritto soggetto e sceneggiatura, ma i dialoghi?

2) Allora, il soggetto lo firmiamo in tre perché sin da subito Belardi ci ha affiancato Gianluca Ansanelli, lo sceneggiatore di fiducia di Alessandro Siani. Lui e Herbert già stavano lavorando da un po’, credo su un’altra idea. Tiriamo giù in tre una scaletta abbastanza dettagliata del film, costruendolo bene sul personaggio di Herbert, anche se effettivamente già l’idea originaria sembrava davvero cucita a misura su di lui. A questo punto passiamo in sceneggiatura e si aggiungono i contributi di Herbert e Enrico: Herbert ha fatto diverse riunioni con noi, molte battute di dialogo sono sue e ci ha dato tanti spunti esilaranti per costruire scene; Enrico è invece entrato sul progetto un po’ dopo ma ha comunque suggerito diverse cose che si sono rivelate molto efficaci. A dire il vero non c’è stata una vera divisione del lavoro, abbiamo sempre lavorato insieme, a sei, poi otto e poi dieci mani, cosa non semplice ma per un film comico spesso vitale.

3 – Sei soddisfatto del processo realizzativo di Quel bravo ragazzo? Hai avuto modo di vedere almeno in parte il film o sarà una sorpresa anche per te?

Ma sai che non ho visto ancora nemmeno una scena? Anche questo è un caso finora unico, non mi era mai capitato con gli altri film che ho sceneggiato, e sinceramente sono anche contento così: vederlo in sala sarà una sorpresa.

4 – Quel bravo ragazzo è chiaramente una commedia divertente, ma di che tipo? Del genere one shot (stacchi, ridi ridi ridi e ti dimentichi della realtà e poi torni alla realtà e ti dimentichi del film) oppure è una commedia che vedi e rivedi e non ti stanchi mai di rivedere?

Diciamo che già se Quel bravo ragazzo appartenesse al primo genere di film sarei strafelice. E poi penso che in realtà se un film ti fa ridere a crepapelle non te lo dimentichi e magari ti viene anche voglia di rivederlo dopo poco tempo. A me spesso succede così.

5 – Il lavoro di scrittura nasce libero da vincoli e viene adattato quando Herbert Ballerina viene scelto per il ruolo di protagonista di Quel bravo ragazzo o il personaggio è costruito intorno a lui fin dal principio?

L’idea è nata sicuramente libera da vincoli, io e Ciro – al momento di mandare in giro la famosa paginetta – non avevamo in mente un attore preciso, ma già nel nostro primo incontro col produttore Belardi ci è stato detto che il film avrebbe avuto Herbert per protagonista, e da lì abbiamo iniziato a ragionare pensando a lui. Ma non è stato uno sforzo né una costrizione, anzi: Herbert è veramente perfetto per questo ruolo, ed ha un umorismo che non esito a definire geniale.

6 – Quando crei i tuoi personaggi li immagini interpretati da qualcuno in particolare, magari i tuoi attori preferiti?

Sì spesso sì, mi aiuta visualizzare un volto, focalizzo la scrittura su qualcosa di concreto. Anche se a dire il vero quasi sempre in fase di sceneggiatura si sa già con buona probabilità chi saranno gli attori del film.

7 – Film preferito in assoluto?

Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola: visto decine di volte, un film unico, irripetibile secondo me. Unisce tutto: alto e basso, autoriale e popolare, e con un Nino Manfredi veramente da applauso.

8 – Film preferito tra quelli scritti da te?

Sono affezionato a tutti allo stesso modo, difficile sceglierne uno. Forse Ma che ci faccio qui! di Francesco Amato, ma solo perché tutto è cominciato da lì.

9 – Regista preferito in assoluto?

Tra i viventi, David Lynch. Tra i defunti Mario Monicelli.

10 – Regista preferito, con il quale ti sei trovato meglio a lavorare?

Tutti, fortunatamente!

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11 – Leggi la Bibbia? La domanda, a trabocchetto, in realtà riguarda simpaticamente il processo creativo ed è “crei/create una bibbia dei personaggi che poi seguite nella stesura definitiva?”

Purtroppo no: è vero che sono ateo convinto, ma mi dicono che sia imprescindibile per uno sceneggiatore.

12 – La tua formazione professionale avviene al CSC. Avrai avuto modo di conoscere anche altri professionisti in erba in quell’occasione. Avremo mai in Italia un Tarantino o un Nolan? E qualora ciò avvenisse, abbiamo qualche produttore che ne riconoscerebbe il talento?

Io mi sono diplomato in sceneggiatura al CSC nel 2005, e nel mio triennio il corso di regia ha sfornato Edoardo De Angelis [Indivisibili], Matteo Oleotto [Zoran], Claudio Giovannesi [Fiore], Francesco Amato [Cosimo e Nicole], insomma direi una bella classe di regia. Io penso francamente che il cinema italiano sia pieno di professionisti di talento, il problema sta nel dar loro fiducia, ed è un problema per lo più produttivo. Solo così potranno emergere personalità davvero innovatrici, che ripeto non mancano.

13 – In Italia si producono principalmente commedie e drammi esistenziali (“lacrime strappastoria” per dirlo alla Maccio Capatonda), trascurando generi come horror, fantascienza, western. Sono generi in cui abbiamo in passato ricevuto premi, di cui abbiamo fatto la storia, film che abbiamo insegnato a fare, a  realizzare a prescindere dal budget (spesso si dice che non se ne realizzano per gli alti costi, ma esiste The invitation che è solo il primo esempio che mi viene in mente di low budget di successo). La domanda è: nessuno scrive soggetti validi in chiave horror, sci-fi, western… o si fermano allo spoglio della sceneggiatura (si dice così, no?) da parte del settore produzione che investe solo in un prodotto che può vendere meglio alla televisione?

È vero, si producono solo commedie e drammi d’autore. Ciò è dovuto secondo me in parte a un doppio retaggio, della commedia all’italiana e del neorealismo, e – per quanto riguarda la commedia – anche e soprattutto per un dato di fatto: sarà banale dirlo, ma il pubblico al cinema ci va per ridere. Ieri sera ho visto un esordio italiano in una sala piena, storia drammaticissima eppure il pubblico come poteva rideva.

È vero anche che il cinema italiano ha anche un glorioso passato di spaghetti western e horror, ma forse non una vera tradizione, a parte Sergio Leone e Dario Argento non abbiamo sfornato maestri in nessuno dei due generi.

Di recente però qualche segnale incoraggiante verso altre strade c’è stato: il caso eclatante di Lo chiamavano Jeeg Robot, film riuscitissimo, potrebbe aprire un nuovo filone, essere un po’ l’inizio di un cinema più spettacolare ed esportabile, se vogliamo…

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14 – Scriveresti o hai scritto soggetti di generi come horror, sci-fi…?

Horror sicuramente, e credo che mi divertirei anche tantissimo, è un genere che adoro.

15 – C’è un soggetto, realizzato da altri, che avresti voluto scrivere tu?

Tra quelli recenti, trovo che Perfetti sconosciuti sia un soggetto fantastico, e la sceneggiatura un perfetto congegno a orologeria.

16 – Tra i tuoi lavori c’è qualcosa che senti avrebbe meritato più di quanto abbia ottenuto, che avresti voluto far fruttare meglio?

Come incassi sono andati tutti molto bene, quindi son più che soddisfatto!

17 – Il target di riferimento per i tuoi lavori liberi è diverso da quelli su commissione? Si scrive molto, quasi totalmente, per le “massaie”, come diceva Mike Bongiorno, che seguono la TV come fosse un’amica chiacchierona che parla del più e del meno con pathos da soap opera o alla Barbara D’urso, mentre il pubblico giovane, che dovrebbe essere il futuro dell’economia, emigra su Netflix, dove hai un’ampia varietà di generi, tra cui quelli bistrattati dai produttori cinematografici standard (De Laurentiis, Ferrero…). Che futuro si prospetta? È auspicabile un cambio di rotta? Si testa una scrittura che si avvicini al target degli “emigrati” su Netflix e Sky?

Secondo me sì, anche perché Netflix e Sky finanziano sempre più il cinema italiano, quindi credo che in breve questo gap qualitativo tra tv generalista da un lato e nuove piattaforme dall’altro si assottiglierà sempre più.

18 – Che anticipazioni puoi/vuoi fornirci riguardo i tuoi progetti cinematografici/televisivi futuri?

Sto scrivendo l’opera prima di un giovane regista appena diplomato al CSC: è una commedia on the road, che tocca però corde più intimistiche e malinconiche rispetto ai film che ho scritto di recente. Sto poi lavorando a due serie tv ma siamo ancora alle primissime battute, è presto per parlarne.

19 – Quale sceneggiatura ti ha colpito in questo anno solare. Chi pensi che vedremo lottare per l’oscar nel tuo settore?

Tra i film italiani, le sceneggiature più solide sono quelle di Perfetti sconosciuti e Lo chiamavano Jeeg Robot, film che non avrebbero affatto sfigurato nella cinquina come miglior film straniero.

20 – C’è una domanda che avresti voluto ti facessi ma non ti ho fatto?

Qual è il film che più di tutti ti ha fatto schifo tra quelli degli ultimi cinque anni? Scherzo, per fortuna non me l’hai fatta!

Grazie, Andrea! 

Fiuggi Film Festival 2016: Breaking Chains

“Pensa a una sala di un multisala. Buia, così che le persone sedute all’interno non abbiano altra visione che una parete di fronte, grande e illuminata. Si è in tanti, ma da soli. Tutti seduti, tutti portatori di pesanti catene nel cuore”.

Breaking Chains – Verità che liberano è il tema della nuova edizione del Fiuggi Film Festival, che si terrà a Fiuggi dal 24 al 30 luglio e che invita nuove e vecchie generazioni a rompere le catene che ci tengono prigionieri in noi stessi, per guardare agli altri, al mondo che ci circonda con l’animo libero, a partire dalla sala cinematografica in cui tutti sono soli, ma insieme.
Ad animare la manifestazione ci saranno numerose anteprime mondiali e nazionali e una ricca retrospettiva sui lungometraggi più interessanti della stagione passata. I Was There, di Jorge Valdés-Iga, basato sulla storia di un pompiere sopravvissuto al crollo delle Torri Gemelle nel 2001 e sopraffatto dai sensi di colpa per essersi salvato, sarà presentato al festival alla presenza del regista, insieme a Magallanes, regia e musica di Salvador del Solar, vincitore del Premio Goya per il miglior film latino-americano; Keeper, di Guillame SenezThe Memory of Water, di Matias Bizee, premiato come miglior regia al Festival de Cine Iberoamericano de Huelva;  Cloudy Sunday, di Manoussos Manoussakis, anch’esso presente a Fiuggi; Coconut Hero, di Florian Cossen; e The Weather Inside, di Isabelle Stever.

Tra gli ospiti presenti al festival i registi Valdés-Iga (I Was There) e Manoussakis (Cloudy sunday); e ancora Alex Infascelli e Emilio D’Alessandro, rispettivamente regista e protagonista del documentario basato sulla storia di D’Alessandro, autista personale di Stanley Kubrick. Al festival anche Antonia Truppo, David di Donatello 2016 come attrice non protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti.

Nel corso del gala di chiusura verranno assegnati al film più aderente al claim di quest’anno Breaking Chains – Verità che liberano, il Premio della Giuria Giovani composta da ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni provenienti da tutta Italia; ilPremio Arca Cinema Giovani; il Premio della Stampa attribuito da una giuria di giornalisti presieduta dal direttore dell’ufficio stampa Paolo Piersanti; e il Premio della prima edizione del concorso 111FFF al miglior cortometraggio realizzato in centoundici ore.

In programma prevede anche una serie di incontri di approfondimento sulla produzione e distribuzione cinematografica con Simone Isola, produttore di Non essere cattivoVincenzo Scuccimarra, sceneggiatore del documentario S is for StaleyAlberto Caviglia, regista di Pecore in ErbaSabina Guzzanti, regista del documentario La trattativa; e Matteo De Laurentiis, produttore Cattleya, e una serie di workshop di approfondimento sul videomaking e sulle serie televisive. Tutti gli eventi della manifestazione sono ad ingresso gratuito.

Per consultare il programma completo e scoprire tutte le novità dell’edizione 2016: www.fiuggifilmfestival.com

Turner, di Mike Leigh

Si è da poco conclusa alla Tate Britain, Late Turner – Painting Set Free, la prima mostra interamente dedicata alle opere che J.M.W. Turner ha prodotto tra il 1835 e la sua morte nel 1851, e ora arriva sul grande schermo la pellicola di Mike Leigh sulla vita del pittore inglese, che ha lasciato Cannes senza fiato per l’interpretazione di Timothy Spall e si è aggiudicata quattro nomination all’Oscar 2015.

Un’oncia di giallo cromo, una vescica di blu oltremare, olio di papavero rosso e bianco per sciogliere i colori e la natura inizia a prendere forma, pastosa come un’onda che sommerge una nave o impalpabile come il fumo di un treno che si confonde con le nuvole. Tra le mani di William Turner il paesaggio realistico assorbe le percezioni del suo creatore e le riversa sulla tela con tutto l’impeto che portano con sé, travalicando i contorni del disegno a carboncino per sconfinare nella fluidità degli elementi naturali, che si scontrano sul cielo e annegano in un oceano di colori. Armato del suo fedele taccuino, Turner viaggia in solitaria attraverso tutta l’Europa per osservare con i suoi stessi occhi la maestosità della natura e riprodurla on plain air con pochi tratti di matita, perché l’unico modo per dipingere un paesaggio è quello di viverlo, immergendo lo sguardo nella la luce che lo inonda, facendosi travolgere dalla violenza del mare in tempesta o cullare dai placidi laghi della campagna inglese.

Nonostante i rischi che correva esponendosi gli agenti atmosferici, la malattia e le fatiche del viaggio, questo pittore controtendenza non si è mai fermato nella sua ricerca della luce e dell’esplosione delle forze della natura, né tanto meno adeguato al gusto dei suoi celebri colleghi, che elogiavano nei salotti ritratti di nobildonne e rappresentazioni minuziose di grandi battaglie eseguite negli atelier asettici dei palazzi. Nella sua arte le scene di guerra e i loro illustri protagonisti sono sempre rimasti confinati sullo sfondo rispetto alle catastrofi naturali, ma non meno apprezzati dai critici d’arte più lungimiranti come John Ruskin, precursore illuminato dell’Art Nouveau, che vedeva oltre le macchie di colore con cui Turner imbrattava le sue tele e ne coglieva lo spirito più profondo definendolo “l’artista che più di ogni altro era capace di rappresentare gli umori della natura in modo emozionante e sincero”.

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Turner e la natura si compenetrano e in ogni fotogramma di Leigh emerge l’amore del pittore per gli elementi, come l’acqua, la terra, la pioggia e il vento, che gli donano la pace dei sensi e lo accolgono amorevolmente nel paesaggio, a differenza degli esseri umani, che non sporcano mai la tela con la loro presenza incombente. Per quanto Turner riesca infatti ad esternare efficacemente l’anima della natura attraverso le sue corpose pennellate, non è altrettanto abile a destreggiarsi con le persone, che lo fanno sentire goffo e inadeguato anche a pronunciare anche poche parole di senso compiuto. Dopotutto, come afferma il suo anziano padre, William ha imparato prima a disegnare che a parlare, e non sorprende che Mike Leigh abbia costruito questo straordinario personaggio proprio sulla base di questa misantropia malcelata, contraltare di una sensibilità fuori dal comune, nota solo a coloro che gli hanno vissuto accanto. L’anima del pittore è stata racchiusa qui nel corpo di Timothy Spall, che asseconda alla perfezione le movenze goffe di un artista che si muove a fatica tra la gente, mugugnando come un vecchio orso, e che non distoglie mai gli occhi dai suoi quadri, come per cercare tra i colori accesi che li animano la sicurezza di cui ha bisogno per affrontare un mondo ostile.

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L’uomo è solo nel bel mezzo del paesaggio e non ha paura di essere portato via dal vento o dalle onde. Ogni volta che l’obiettivo coglie Turner nei suoi momenti di solitudine la scena si apre su una dipinto mastodontico in cui la presenza umana non copre più che una piccola parte nello spettacolo della natura. Leigh come un pittore raffinato  si sofferma su questi istanti di solitudine profonda e ricrea nelle sue inquadrature la pittura romantica, riportando in vita l’arte di Turner, con i suoi elefanti sovrastati dal mare in burrasca, e il legame profondo tra l’uomo e gli elementi naturali celebrata dal tedesco Caspar David Friedich nei suoi paesaggi simbolici. Il quadro cinematografico ricalca la tela in ogni istante e trasforma la storia di una vita nella storia dell’arte di un’intera epoca, che ricostruisce gli eventi pubblici e i momenti privati attraverso la sensibilità di un pittore, che non ha mai smesso di cercare la luce perfetta e immortalare sulla carta i quadri che si presentavano davanti ai suoi occhi.

The Judge, di David Dobkin

Il ritorno alla provincia ed il rapporto difficoltoso padre-figlio sono temi che innegabilmente piacciono molto al cinema americano. The Judge si inserisce senza nascondersi troppo in entrambi i filoni utilizzando due grandi attori quali Robert Downey Jr e Robert Duvall, per raccontare una storia che, pur non spiccando per originalità, ha come punto di forza, oltre ad i suoi interpreti, una regia da manuale che mischia inquadrature canoniche a qualche piacevole vezzo stilistico, rivelando grande attenzione per i dettagli. Emblematica la carrellata iniziale di oggetti che mette in chiaro col minimo sforzo le caratterizzazioni di tutti i membri della famiglia Palmer: una videocamera, una mazza da baseball, un articolo di giornale polveroso e una pianta di ortensie lilla.

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La sceneggiatura è caratterizzata dal plot legal-drama che vede come protagonista il brillante avvocato metropolitano Herny Palmer, in lite da anni con il padre Joseph, giudice del piccolo paese dell’Indiana in cui è nato. La morte improvvisa della madre lo costringe a tornare nell’entroterra americano e qui il dramma familiare si intreccia con all’accusa di omicidio che ricade sull’anziano padre, apparentemente colpevole di aver investito con l’auto un uomo la notte seguente ai funerali della moglie. La presentazione rimane comunque la parte migliore della pellicola ed è tenuta in piedi dal solito Downey Jr, che con il suo personaggio sopra le righe ricalca più o meno tutte le ultime figure da lui interpretate, da Sherlock Holmes a Tony Stark, conquistando facilmente la simpatia dello spettatore.

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Quando la trama però entra nel vivo cominciano i problemi. La scoperta della malattia terminale che affligge il giudice Palmer e tutto il processo di riavvicinamento tra i protagonisti si muove su binari fin troppo prevedibili e melensi. Duvall ce la metta tutta per commuovere lo spettatore, ma la sua prestazione viene annacquata da una serie di momenti ridondanti, che avrebbero giovato di qualche sforbiciata nelle due ore e mezza di durata. Sintomatica anche la ripetizione della bella “Holocene” di Bon Iver, colonna sonora delle scene più intense utilizzata in più di un occasione.
Oltre alla monotonia, non mancano poi i luoghi comuni tutti fedeli al moderno american style: dalla bandiera che inneggia alla nazione, alle ex fidanzate ancora innamorate, ai fratelli giocatori di baseball, fino alle bambine perfette che non fanno altro che sorridere. Di certo si tratta di un esempio di cinema con poche sbavature nella sua confezione e che mira alle lacrime di un grande pubblico, ma per mancanza di coraggio e di inventiva difficilmente rimarrà impresso nella nostra memoria.

Marco Nicoli

Lucy, di Luc Besson

Se è vero che gli esseri umani hanno accesso solo a una minima parte della capacità cerebrali, cosa accadrebbe se prendessero il controllo totale del loro cervello? La conoscenza parziale delle cose del mondo si estenderebbe all’universale e il potere sul corpo umano, sulla tecnologia e sulla natura intera sarebbe assoluto. Il primo passo sarebbe una percezione accentuata di ogni componente del proprio corpo, fino allo scorrere del sangue sotto la pelle e allo scricchiolio delle ossa poi, lentamente, si estenderebbe spazio che lo circonda, all’aria, ai corpi delle altre persone, e alla ragnatela invisibile di vibrazioni e onde elettromagnetiche che intrappolano gli esseri umani in una rete globale. Il cervello potrebbe smembrare le cellule per rimetterle insieme a suo piacimento, fare a pezzi i corpi, giocare con la materia e trasformarla in una sostanza immateriale che si scompone e si ricompone all’occorrenza per attraversare il tempo e le ere geologiche, per poi ritornare inevitabilmente all’origine del mondo, dove tutto ha avuto inizio.

Lucy è la prescelta, la depositaria involontaria di questo potere sconfinato. Il suo corpo è il prezioso involucro di una sostanza chimica al limite del fantascientifico, in grado di potenziare le capacità fisiche e psichiche a un solo assaggio, e che dissolta nel sangue e irradiata nell’organismo trasforma gli uomini in dei. Il suo corpo è una mappa di percezioni amplificate, una fitta rete di  impulsi elettromagnetici, che leggono le persone, le attraversano e le manipolano, così come fanno con il tempo, che si arrotola e si srotola ad un battere di ciglia. Ma ora che Lucy possiede la conoscenza assoluta del mondo e il potere divino, quale può essere il passo successivo se non la perdita inesorabile dell’umanità, del dolore e della fallibilità che accomuna le creature terrene?

 

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Lucy si costruisce sulle immagini più che sul’azione, in una rete visiva ipnotica in cui gli eventi si rincorrono alla stessa velocità della trasformazione di Lucy da donna in dea. Luc Besson infatti lascia in secondo piano i poteri supereroistici e la sete di giustizia di Lucy, per riflettere sull’essere umano intrinsecamente onnipotente, creato a immagine di Dio, che tiene gelosamente nascoste le sue capacità in un’area della mente che non ha il coraggio di esplorare. Besson sfonda questa porta segreta per scatenare un potere sconosciuto, e mette le sorti del mondo nelle mani di una ragazza inconsapevole, spaventata più che grata delle sue nuove capacità, che non aspira ad altro che tornare alla sua umanità problematica e imperfetta.

L’onnipotenza è una condanna o, almeno per adesso, un fardello troppo ingombrante per l’uomo, e Lucy, che porta il nome della prima donna comparsa sulla terra,  si pone come spartiacque tra il passato e un futuro visionario, in cui anche la morte diventa inconsistente, e tutto si trasforma in una materia intangibile che trascende, si trasforma in energia e penetra il tutto raggiungendo, se pure in una forma diversa, l’immortalità a cui ha sempre aspirato.

Everyday Rebellion, di Arash e Arman T. Riahi

Il mondo intero è indignato e preoccupato per il panorama politico, economico e sociale che si sta delineando in tutto il mondo. I focolai di rivoluzione si accendono nelle forme più svariate. C’è chi accarezza la violenza come unica risposta necessaria alla violenza dei governi accentratori che esiliano, torturano e uccidono e violano i diritti umani, e c’è chi tenta di colpire al cuore la dittatura sociale usando il proprio corpo come unica arma auspicabile. Everyday Rebellion celebra le proteste creative e non-violente che hanno dato vita a movimenti pacifici e politicamente devastanti come le Femen in Ucraina, il Movimento spagnolo 15M, Occupy Wall Street e la Primavera Araba, proponendo un progetto comune di rivolta silenziosa per cambiare il mondo con la forza della pace.

Centinaia di palline colorate, traboccanti di slogan sulla libertà, saltellano lungo la scalinata che costeggia la casa di Assad in Siria. Sono inarrestabili come il desiderio di rivoluzione e cambiamento verso un governo dittatoriale che soffoca il suo popolo. Le forze di polizia rincorrono le palline, tentano di arginare l’esplosione creativa dei sovversivi per riportare l’ordine, ma non fanno altro che esibirsi in un siparietto poco dignitoso. I palloncini scoppiano in volo, sprigionando migliaia di volantini, e l’acqua delle fontane è rossa come il sangue che scorre per le strade della Siria, mentre nello stesso istante migliaia di persone illuminano le notti iraniane accendendo e spengono la luce come segno di dissenso. Non si può essere arrestati per questo, la rivoluzione creativa non-violenta è immune alla legge ma non meno efficace e provocativa, e si fonda proprio sulla capacità di provocare e ridicolizzare il governo, senza usare la forza contro gli individui.

I manifestanti-clown che occupano Wall Street zompettando nel centro economico mondiale, facendosi beffa dei colletti bianchi e dell’austerità delle cattedrali del denaro non compiono atti criminali, ma occupano con il loro corpo e con le loro voci un luogo uno spazio comune, per manifestare il loro dissenso verso la morsa del debito che soffoca i cittadini. Allo stesso modo i fratelli spagnoli del Movimento 15 M riempiono le piazze di Madrid per combattere a favore dell’inalienabile diritto alla casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, a una vita dignitosa e libera. Sono giovani senza speranza e anziani disperati, testimoni indignati di una politica che mette in secondo piano il benessere dei cittadini ed è costantemente ripiegata su se stessa, noncurante di un mondo che sta cadendo a pezzi sotto i colpi delle classi dominanti.

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La dittatura soffoca le voci degli attivisti a colpi di manganello, li minaccia e li isola socialmente con la complicità della Chiesa. Da oriente a occidente i carri armati schiacciano i fiori dei pacifisti, che nonostante tutto continuano a urlare il proprio dissenso e a usare il proprio corpo per occupare gli spazi e rimanere abbarbicati alle proprie idee come radici nel terreno. Le attiviste ucraine, le Femen, famose in tutto il mondo per i loro atti di protesta dissacranti contro l’egemonia del patriarcato, le dittature e l’ipocrisia della Chiesa, si fanno colonne del loro ideale, salde e a seno nudo davanti ai simboli del potere. Non sorridono e non ammiccano ai passanti, il loro obiettivo non è attirare gli sguardi sui loro corpi nudi, ma attirare lo sguardo del mondo sul coraggio di ribellarsi al potere della dittatura, manifestando il diritto ad essere donne politicamente impegnate, contro un mondo patriarcale che vuole relegarle al silenzio nelle cucine.

Everyday Rebellion racconta, attraverso le immagini e il materiale  raccolto sul campo di “battaglia” da chi era nel cuore della rivolta, il modo in cui gli attivisti di ogni parte del mondo usano il proprio corpo come strumento di lotta politica, elaborando tattiche di rivolta sempre diverse, che spiazzano la dittatura, lasciandola inerme verso una ribellione dilagante e non violenta, che si diffonde attraverso il web e i media con le immagini, le testimonianze e i frammenti di un mondo che non vuole cedere. I movimenti sono diversi, così come gli ideali per cui combattono, ma ciò che li accomuna è il desiderio di attirare l’attenzione e di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone all’azione. Bisogna svegliarsi, attivarsi e unirsi per cambiare insieme il mondo. Il nostro corpo e gli infiniti modi con cui possiamo usarlo è l’arma più potente di cui disponiamo, e abbiamo il dovere di scendere in campo e ribellarci, ogni giorno.

Dai creatori di Coraline e ParaNorman: Boxtrolls – Le Scatole Magiche

Pittura, fotografia, Illuminazione, scultura e musica danno vita a Boxtrolls – Le Scatole Magiche, l’ultimo capolavoro della LAIKA, lo studio d’animazione che ha creato Coraline e la Porta Magica e ParaNorman, entrambi candidati all’Oscar per il Miglior Film d’Animazione. Tratto dal romanzo di Alan Snow, Here be Monsters!, questa meravigliosa avventura animata è stata concepita e fotografata in 3D stereoscopico, in cui stop-motion, disegni a mano, e CG si incontrano per fondere la  tradizione artigianale e gli strumenti più recenti del mestiere.

I Boxtrolls sono delle creature bizzarre e dispettose, che hanno amorevolmente adottato e cresciuto un ragazzino orfano, Uovo, nelle caverne che hanno costruito sotto i vicoli di Pontecacio. Qui vivono una vita felice ed armoniosa, lontano dalla società, visto che i residenti snob della cittadina vittoriana sono ossessionati dalla ricchezza, dalla classe sociale, e soprattutto dal cacio. Lord Gorgon-Zole, il sindaco, detta legge circondato dai suoi uomini delle Tube Bianche. Come tutti gli altri, crede alle leggende spaventose sui Boxtrolls, divulgate in lungo e in largo per oltre un decennio dal malvagio Archibald Arraffa. Determinato ad ottenere il consenso delle Tube Bianche, Arraffa ha imprigionato il geniale inventore ed amico dei Boxtrolls, Herbert Trubshaw, ed ha reclutato una banda nota come Tube Rosse per catturare tutti i Boxtrolls.

La spazzatura degli umani è il tesoro dei Boxtrolls, che indossano scatole di cartone riciclato come gusci di tartarughe. Questa comunità gentile ed ingegnosa raccolglie i rifiuti immergendosi nei cassonetti per trasformarli in invenzioni strepitose. Assieme alla sua famiglia di Boxtrolls, malvista dai cittadini di Pontecacio e ostacolata dal regime pericoloso di Arraffa, Uovo deve avventurarsi fuori terra, “alla luce”, dove incontra e si allea con una ragazzina straordinariamente grintosa, Winnie, ovvero la figlia del sindaco. Uovo e Winnie escogitano insieme un piano per salvare i Boxtrolls da Arraffa, imbarcandosi in un’avventura fatta di follia ed affetto.

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“Ogni storia che raccontiamo alla LAIKA ha una raffinata combinazione di buio e luce, di intensità e calore, e reale dinamismo” – ha dichiarato il produttore e capo animatore Travis Knight – “Aspiriamo a raccontare storie che sono visivamente sbalorditive, che hanno una patina di bellezza, ma cosa più importante è che abbiano un senso. I nostri film sono suggestivi, profondamente sentiti, progressivi, e un pò sovversivi”.

Knight aggiunge: “Boxtrolls – Le Scatole Magiche è diverso dai film precedenti, Coraline e la Porta Magica e ParaNorman, in quanto si trattava di storie americane contemporanee raccontate con elementi soprannaturali. Questo film è collocato in un periodo di tempo preciso ed è un miscuglio di detective story, commedia dell’assurdo, ed avventura steampunk con splendore visivo ed una morale sorprendente. E’ una sorta di racconto di Charles Dickens intrecciato con Roald Dahl e Monty Python”.

IL TRAILER:

Si alza il vento: Il sogno di librarsi nel cielo

Una clip in esclusiva da Si alza il vento (The Wind Rises), l’ultimo capolavoro del maestro dell’animazione giapponese, Hayao Miyazaki, che sarà nelle sale dal 13 al 16 settembre. Con questo ultimo volo Miyazaki si ritira dalla scena, lasciando ai suoi successori la responsabilità di portare avanti la sua creatività e di mettere in campo tutta l’energia necessaria per realizzare i propri sogni.

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Si alza il vento è una storia di grandi passioni e di sacrificio in nome della realizzazione di qualcosa di unico. Jiro sogna di volare ma essendo miope fin dalla giovane età non può diventare pilota, allora si impegna a progettare aeroplani ispirandosi al famoso ingegnere aeronautico italiano Gianni Caproni. Nel 1927 entra a lavorare in una delle principali società giapponesi di ingegneria aeronautica e il suo talento è presto riconosciuto e cresce fino a farlo diventare uno dei progettatori aeronautici più affermati al mondo, arrivando a creare un aereo meraviglioso che lascerà un segno nella storia dell’aviazione, ma dietro l’angolo lo attende l’incontro più importante della sua vita, la bella e fragile Naoko che si imbatte in lui durante un terribile terremoto. Da questo momento in poi, il sogno di diventare un brillante progettista è indissolubilmente legato a questo amore puro, che ispira l’arte di Jiro e allevia la fatica del duro lavoro, che giorno e notte si nutre della sua stessa vita ma lo avvicina sempre di più alla realizzazione del suo incredibile aereo.

Mud, di Jeff Nichols

I fondali fangosi del Mississipi, coperti da rottami, nascondono sorprese inaspettate per chi ha il coraggio di scavare a fondo, di sporcarsi le mani nei nugoli di serpenti limacciosi che ne sono a guardia. Sotto la superficie dell’acqua torbida, qualche volta, si possono fare incontri rari e preziosi come le perle di fiume, visibili solo all’occhio saggio che sa distinguerle dagli scarti senza valore.

Mud è un figlio del fiume, proprio come Ellis, è nato su quelle rive ed è fatto della sua stessa materia, tanto che già dal primo incontro si riconoscono l’uno nell’altro. Mud è un fuggitivo, braccato dai cacciatori di taglie per aver ucciso un uomo, ed Ellis cerca una via di fuga da una famiglia senza amore che si sta disgregando sotto i suoi occhi e che vuole trascinarlo nella fredda città, lontano dal fiume. L’oggetto del desiderio di entrambi è una vecchia barca arroccata su un albero, un rifugio sicuro dal quale proteggersi dal mondo per Ellis, e una via di fuga verso una vita serena con Juniper, l’amore della sua vita, per Mud. Il miraggio di un amore autentico, che supera il tempo e le avversità, spingono il quindicenne Ellis e il suo amico Neckbone ad aiutare il fuggiasco a ricostruire la barca e ad architettare la fuga con la bella Juniper, ma scavando a fondo nella complessità dei sentimenti umani non troverà ciò che si aspetta.

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Il personaggio di Mud, incarnato da Matthew McConaughey, è una cosa sola con il paesaggio che lo circonda, odora di cibo in scatola e di legno imputridito, e porta sul corpo i segni della spiritualità del sud, dai serpenti tatuati agli stivali decorati con croci di chiodi per tenere lontano gli spiriti cattivi. I due ragazzi sono ipnotizzati dalla sua misteriosa sicurezza e dalla sua storia d’amore. Sanno bene che non è innocente e che nasconde un segreto ingombrante, ma come  i protagonisti di Huckleberry Finn sono estremamente attratti dalla sua personalità e sono disposti ad improvvisarsi ladri e bugiardi pur di aiutarlo a fuggire.

Juniper (Reese Witherspoon) dal canto suo è consapevole del fascino magnetico che esercita sugli uomini, è una donna molto attraente ma non abbastanza coraggiosa da seguire Mud nella sua impresa folle, e non fa altro che remare contro i sentimenti che prova lui fuggendo tra le braccia del primo malcapitato. Come tutti gli altri, anche Juniper è un personaggio controverso, al limite tra il bene e il male, sospesa tra il desiderio di libertà e quello di una sicurezza materiale e mentale che non arriverà mai.

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Nel mondo creato da Jeff Nichols nell’entroterra dell’Arkansas non esistono nè buoni nè cattivi, e come nei romanzi di Raymond Carver e Cormac McCarty i personaggi non sono altro che il frutto del territorio nel quale sono nati, e di una lotta quotidiana per la sopravvivenza in cui la violenza è all’ordine del giorno. L’isolamento e la disperazione induriscono i lineamenti e portano gli uomini a compiere azioni che non avrebbero mai immaginato, a rubare, a tradire e a uccidere se necessario. Ma in questo universo cupo e melmoso come il fiume che lo attraversa, l’unica speranza è rappresentata da un sentimento ancora più puro dell’amore stesso: l’amicizia, l’unico baluardo di complicità in un gruppo di vite disgregate, che si trascinano alla deriva di un territorio silenzioso e bucolico che sta scomparendo, inghiottito dalla città assordante.

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