sentimento

Edward Mani di Forbice – Qualche anno dopo, di Kate Leth e Drew Rausch

Quando a maggio 2017 mi è stato chiesto di recensire questo fumetto la mia gioia è stata immensa. Spesso si suggerisce di non giudicare un libro dalla copertina. Ecco, mai consiglio fu più vero! Ho aspettato tanto perché a caldo il mio giudizio sarebbe stato affrettato, figlio naturale di un pregiudizio e di un’aspettativa tradita. Nel frattempo ho meditato, letto e indagato, non proprio in quest’ordine, diciamo in ordine sparso e ho maturato che nel caso di Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo i lettori non possono che trovarsi un po’ spaesati per il contrasto grafico fra la copertina scelta dall’editore e i disegni sulle pagine che poi ci si trova a sfogliare. Per onestà di giudizio, bisogna ammettere che in fin dei conti si tratta di un prodotto che chiaramente vuole ottenere degli obiettivi economici specifici e, probabilmente, lo fa egregiamente, sfruttando quella gran voglia di sequel e remake che caratterizza l’attuale target, la fascia di mercato che detiene in questa fase storica il potere d’acquisto maggiore: la generazione x, che ha visto il film di Tim Burton e che vuol colmare il gap con i figli-screenager.

Negli Stati Uniti Edward Scissorhands è edito dalla IDW Publishing. Il successo delle nostalgiche sceneggiature della canadese Kate Leth e delle avanguardistiche illustrazioni dell’artista californiano Drew Rausch ha spinto la casa editrice californiana a creare una serie di 10 numeri, poi raccolta nella versione deluxe, oversized handcover che ha convinto la Nicola Pesce Editore a pubblicarne la traduzione: Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo è un volume 14×21 cm, brossurato [cartonato in originale], con alette, di 128 pagine tutte a colori. Nessun problema fin qui, se non fosse per la copertina scelta: quella che è una variant cover celebrativa nell’originale, in Italia diventa la copertina ufficiale, creando, di fatto, un’incoerenza grafica molto forte con i disegni che poi caratterizzano l’intero fumetto.

Questo fumetto non è un pedissequo adattamento del film, che di per sé avrebbe avuto poco senso data la perfezione della pellicola. Si tratta invece di una storia nuova, poetica come l’originale, gotica e toccante”, tranquillizza e spiega la descrizione del prodotto sul sito ufficiale della casa editrice e questo è sufficiente per chiudere la questione e pensare a Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo per quello che è: un fumetto per ragazzi che riprende il filo della narrazione di un film che ha fatto epoca per fornirgli una vita più che nuova, in un contesto contemporaneo… è un po’ la storia stessa di Edward, no?

Sono passati tanti anni, Kimberly, l’amore mai dimenticato di Edward, non c’è più, mentre Edward non è invecchiato di un giorno e continua ad essere l’emblema della solitudine, un mostro dal cuore tenero che il mondo non ha mai capito ma isolato nel suo maniero abbandonato, consolato dalla sola compagnia delle sue creazioni artistiche: figure scaturite dal taglio delle siepi o del ghiaccio. Talmente è solo che quando un giorno trova un altro androide, disattivato perché pericolosamente incompleto, Edward lo riattiva pensando di poterlo gestire… Intanto, Megan, una ragazza curiosa e piena di sentimenti positivi, in tutto e per tutto identica a nonna Kimberly, indaga sul passato della sua famiglia e quindi, in cerca di risposte, si avventura nel vecchio maniero dove vive Edward…

I disegni di Drew Rausch sono intriganti e freschi, accattivanti nei loro colori desaturati e segnati da contrasti decisi, sebbene troppo deformati comicamente per il gusto dei burtoniani. Manca una profondità dei neri, e qui ci sarebbe da sviluppare un discorso infinito su quanto il gotico sia legato necessariamente ad un ampio ventaglio di tonalità dark, in questo caso stranamente mancanti. Soprassediamo e torniamo invece ai pro, visto che il contro è ormai chiarissimo: sono bellissime le tavole di intermezzo fra i capitoli con gli a solo di Edward e le siepi tagliate ad arte sotto un cielo stellato; in appendice altre meravigliose tavole realizzate da vari artisti che hanno reinterpretato secondo la loro natura artistica i personaggi creati da Tim Burton; in più bozzetti, bibbia dei personaggi e dei luoghi e le prove di montaggio di alcune tra le pagine più interessanti.

Se lo si potesse considerare un fumetto a sé, ossia slegato completamente dal prodotto cinematografico originale, Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sarebbe passabile, per giunta piacevole per molti aspetti, un modo simpatico per avvicinare nuove generazioni ad uno dei personaggi più iconici del già particolare mondo gotico di Tim Burton.

Il risultato finale dipende quindi da quale sia il pubblico chiamato a comprarlo: se si tratta di un’operazione di mercato tipo “Bambini, venite a conoscere Edward” se ne può anche parlare e, seppur, con una certa riluttanza, accettare, ma se l’obiettivo è “Fan di Edward, guardate un po’ chi è tornato”, beh, non ci siamo proprio, perché a venir meno è lo spirito che era alla base di quel novello Frankenstein in cerca di amore.

Il giudizio molto personale e quindi non certo insindacabile del sottoscritto è che Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sia un poco riuscito connubio di tematiche horror e mood da commedia adolescenziale con un personaggio talmente fuori dalla sua “naturale” ambientazione gotica da sembrare la caricatura di sé stesso.

Peccato per le incongruenze, peccato per chi si aspettava un fumetto differente, maggiormente conformato all’originale cinematografico.

Cattivissimo me 3, di Pierre Coffin e Kyle Balda

Uno dei franchise più popolari degli ultimi anni arriva al suo terzo capitolo. Cattivissimo me 3 è stato anticipato da una serie di cortometraggi molto divertenti, che hanno, manco a dirlo, come protagonisti assoluti i Minions, i personaggi secondari più amati dai bambini di tutto il mondo. E sono loro, come al solito, la chiave di volta del film. Sulle loro trovate “geniali” si costruisce la campagna pubblicitaria e sono sempre loro le “pinze” su cui si regge una sceneggiatura che altrimenti non avrebbe interessi particolari da destare.

Continua il tema della famiglia allargata, una famiglia 2.0 che ha come bandiera del male che ha modificato il suo destino fino a sventolare in direzione del bene, anche se si tratta più di una di quelle vie di mezzo tanto care al cinema contemporaneo. Si tratta di figure che trascendono il vecchio manicheismo, che tanto ha dominato l’animazione in passato, fino a diventare personaggi che necessitano di un percorso di crescita costellato di prove mai troppo spaventose in un mondo dove sono forse gli adulti a dover imparare lezioni di vita dai più piccoli.

Dopo esser stato licenziato dalla Lega Anti Cattivi per non essere stato capace di sconfiggere l’ultimo villain che minacciava l’umanità, Gru si trova nel bel mezzo di una grave crisi d’identità. È a questo punto che un misterioso individuo informa Gru che ha un fratello gemello, Dru, di cui, ovviamente, ignorava l’esistenza. Un fratello che non vede l’ora di calcare le spregevoli orme del suo gemello. L’ex super-villain riscopre immediatamente quanto sia bello essere cattivo, un sapore di cattiveria che non assaporava da tempo. Insomma, la bussola morale di Gru sembra di nuovo fare le bizze mentre gli altri personaggi sono impegnati in divagazioni, più che sottotrame, forse maggiormente adatte ad una serie tv: i Minions in giro a far danni dopo un banale litigio, Lucy intenta a farsi accettare in casa dalle ragazze, le ragazze in cerca di un unicorno vero per Agnes.

Doppio lavoro, insomma, per Steve Carell [Ortone e il mondo dei Chi, Foxcatcher – Una storia americana, Cercasi amore per la fine del mondo, Little Miss Sunshine] che riprende, forse per l’ultima volta, il suo ruolo di Gru e ne assume anche un secondo, quello di Dru, il misterioso gemello. Del cast fanno parte anche Kristen Wiig [Ghostbusters, Sopravvissuto – The Martian, Zoolander 2], che ritorna nelle vesti della super-spia Lucy, e Trey Parker [il regista di South Park] – un neofita del doppiaggio, ma vincitore di un Emmy, un Tony e un Grammy – che fornisce la voce al nuovo antagonista di Gru, Balthazar Bratt, un ex bambino-prodigio, star televisiva della fine degli anni ’80, oramai ossessionato dal suo stesso personaggio, nostalgico fino al midollo, tanto da credere che gli anni ’80 non siano mai terminati. Forse il più formidabile e divertente nemico che Gru abbia mai incontrato, deciso a radere al suolo Hollywood, per non avergli dato la chance che sentiva di meritare. Inutile dire che chiunque si frapponga tra lui e il suo obiettivo sono in pericolo.

Pur essendo l’ennesimo sequel di un prodotto ben riuscito, Cattivissimo me 3 non ha perso l’entusiasmo e può vantare dei record curiosi che lo rendono comunque un lungometraggio degno di nota, a prescindere dalla semplicità della sceneggiatura: rispetto ai precedenti e rispetto a tutti gli altri prodotti della Illumination Entertainment, il film è visionabile in un’aspect ratio widescreen in rapporto 2.39:1 e la brillante colonna sonora del compositore Heitor Pereira [Madagascar, I Simpson – Il film] riesce a mescolare le sonorità e alcuni evergreen degli anni ’80 – Take on me degli A-ha e l’immancabile Bad di Michael Jackson – alle canzoni originali, create ad hoc da un fan d’eccezione, Pharrell Williams, e già tormentoni.

Ma veniamo ad una nota dolente. Probabilmente è tempo di saluti per Gru e famiglia. Se non adesso, la prossima volta. Purtroppo Cattivissimo me 3 potrebbe aver scritto la parola FINE sul rapporto artistico tra Steve Carell e il franchise. Manovre per aumentare il cachet? Probabilmente no, dato che l’attore ha dato comunque la sua disponibilità in futuro per un voice cameo in un qualsiasi corto dei Minions. Si dice che quando i doppiatori scendono dalla barca è segno che la crociera è finita. Bisogna solo vedere cosa decideranno i produttori, se tentare la sostituzione, rischiando la deriva o se concludere mentre la serie si trova all’apice del successo.

Comunque, niente panico! Tanto i Minions possono vantare un pubblico tutto loro e quindi avere vita autonoma: il loro secondo lungometraggio è previsto per il 3 luglio 2020. Ci sarà da aspettare, ma l’attesa sarà perdonata: il fascino ipnotico che esercitano nei confronti del pubblico infantile è veramente impressionante. Nel frattempo la Illumination Entertainment ha in programma, in ordine cronologico: il 9 novembre 2018 arriverà un Grinch doppiato da Benedict Cumberbatch [Doctor Strange, Star Trek, Sherlock, la serie tv] in How the Grinch Stole Christmas, animato in 3D, come un altro personaggio tratto dalle opere del dr. Seuss, The Lorax; poi a luglio 2019 è la volta del sequel di Pets, di cui ancora non è trapelato nulla.

Billy Lynn – Un giorno da eroe, di Ang Lee

Una coproduzione Stati Uniti – Regno Unito – Cina permette ad Ang Lee di adattare per il grande schermo il romanzo di Ben Fountain Lynn’s Long Halftime Walk [È il tuo giorno, Billy Lynn!] ed il regista di Vita di Pi, La tigre e il dragone ed I segreti Brokeback Mountain, lo utilizza per sperimentare una frequenza di cattura e riproduzione dei fotogrammi da record. Billy Lynn – Un giorno da eroe è, infatti, il primo film ad essere realizzato a 120 fotogrammi al secondo in 3D con una risoluzione ad altissima definizione (4K) ottenuta grazie ad una Sony CineAlta F65, equipaggiata con lenti Zeiss Master Prime.

«È strano essere celebrato per il giorno più brutto della tua vita!»

ShakeMoviesStandard03

Il diciannovenne soldato William “Billy” Lynn diventa un eroe nazionale dopo un pericolosa azione di guerra in Iraq. Rimpatriato per due settimane insieme ai suoi commilitoni della Bravo Squad, deve affrontare il Victory Tour, ossia tutta una serie di interviste, comizi pubblici che si concludono con la partecipazione alla Thanksgiving Thursday Night, la tradizionale partita di football del giorno del ringraziamento, con tanto di show delle Destiny’s Child [controfigure sempre riprese di spalle, una vera caduta di stile e di prestigio per una produzione di così alto livello]. Lynn, ancora traumatizzato dall’esperienza in Iraq e dalla morte di un suo superiore, dovrà vedersela con un nemico interiore difficile da battere: il proprio istinto di sopravvivenza e il desiderio di essere felice, entrambi illuminati dalle luci della ribalta. Sia lui che i suoi compagni mostrano chiari i sintomi del disturbo post-traumatico da stress, o Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD) secondo la dicitura internazionale. Riusciranno a non impazzire? E Billy cosa sceglierà tra i desideri da ragazzo che cercano di farsi largo nel suo cuore di soldato e il simulacro dell’eroe che i media hanno costruito e che lui continua ad interpretare con estrema lucidità? sempre che una scelta ce l’abbia davvero…

«Siamo una nazione di bambini andati a crescere da un’altra parte o a farsi ammazzare»

ShakeMoviesStandard09

Billy Lynn è Joe Alwyn al suo esordio come protagonista. Se la cava bene: molto espressivo e ben calato nella parte dell’ex-teenager che si ritrova catapultato in una situazione troppo spesso mitizzata dai media e che si dimostra più grande di lui. Billy Lynn dovrà decidere cosa fare della sua vita, se crescere e tornare al fronte dove forse è già stata sparata la pallottola con il suo nome sopra o se avere una seconda occasione di vivere la propria vita in tranquillità, godendosi il successo effimero delle sue gesta eroiche. Del cast fanno parte anche Kristen Stewart, Vin Diesel, Steve Martin, Chris Tucker e un sorprendente Garrett Hedlund [è stato Patroclo nel Troy di Wolfgang Petersen e James Uncino in Pan – Viaggio sull’isola che non c’è di Joe Wright], che tiene in riga la trama come i suoi sottoposti, un bel plotone di caratteristi niente male, di cui probabilmente sentiremo ancora parlare nel prossimo futuro.

ShakeMoviesStandard16

Più un film tv di lusso che una pellicola cinematografica di interesse a tuttotondo: la fotografia, anche nelle scene di azione nel deserto, è pulita, troppo pulita, come se tutto fosse irreale e quindi il trasporto delle emozioni è affidato alla sola introspezione del protagonista; il montaggio, anche in occasione dei flashback, appare giustapposto e mai studiato dal punto di vista estetico; le inquadrature sono più che altro a composizione centrale, utilizzando solo raramente diagonali e prospettive, confidando che gli occhi gonfi di lacrime del protagonista s’incontrino con quelli dello spettatore nel momento in cui guardano in macchina; gli scavalcamenti di campo disorientano lo spettatore ma ormai chi conosce lo stile (o non-stile) Ang Lee vi è abituato e può associarlo ad una volontà di dar risalto al sottotesto metacinematografico. Scavalcamenti, sguardo in macchina, montaggio giustapposto e inquadrature centrali concorrono probabilmente a fornire un punto di vista ulteriore su quanto i media possano far salire sul piedistallo alcuni eroi e farli scendere a velocità doppia una volta esaurito il serbatoio dell’interesse mediatico. Se anche può sembrare affascinante questa interpretazione, provate ad immaginare il tutto girato da Clint Eastwood e una sensazione di spreco vi prenderà lo stomaco più di ogni azione militare presente nel film. Rimane la sperimentazione tecnica, quella sì all’avanguardia:  120 fotogrammi al secondo significa cinque volte la velocità standard di 24 fps (25 nel sistema PAL) e due volte il precedente record detenuto da Peter Jackson con il suo Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato.

ShakeMoviesStandard01

Arrival, di Denis Villeneuve

Arrival è un’opera ben misurata, un rebus affascinante, non troppo macchinoso, della giusta difficoltà, che sa parlare anche al grande pubblico, non necessariamente patito di fantascienza, toccando il cuore del romantico con alte punte di sentimento dolceamaro. L’acume cinematografico di Denis Villeneuve, già candidato all’Oscar® nel 2011 per La donna che canta, come miglior film straniero, e regista dei bellissimi Prisoners e Sicario, che hanno rinvigorito il codice del thriller. Forte dei successi ottenuti, il filmmaker canadese, quest’anno vuole riscrivere i canoni del genere sci-fi, con Arrival, appunto, e con l’attesissimo Blade Runner 2049, la cui uscita è prevista per il 6 ottobre 2017 negli Stati Uniti.

Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Arrival trae il suo nucleo tematico dalle pluripremiate Storie della tua vita di Ted Chiang, e soprattutto da Story of your life, il racconto forse più interessante della raccolta, che è stato a lungo il titolo provvisorio del film.

ShakeMoviesStandard12

Siamo soli nell’universo?
Probabilmente non esiste essere umano che non se lo sia chiesto almeno una volta nella vita. Quindi, se un giorno vi trovaste davanti una delle dodici astronavi aliene del film, cosa chiedereste? “da dove venite?” e “perché siete qui?”, magari proprio in quest’ordine. Ma sorge un problema: come si può comunicare senza un linguaggio che faccia da ponte? Lasciando stare che spesso non ci si capisce nemmeno quando si parla la stessa lingua e che «si può comprendere la comunicazione e finire a vivere lo stesso da single», come afferma la stessa protagonista del film in una frase fondamentale per ricostruire correttamente gli inserti narrativi che non seguono la linea temporale della trama principale.

«Perché siete qui? Riuscite a capire? Da dove venite?».

ShakeMoviesStandard14

«Dodici! Perché non solo uno?».

Dodici misteriose astronavi extraterrestri appaiono sulla Terra. Non c’è una logica dietro la scelta dei luoghi dell’atterraggio e, anche se gli alieni manifestano una certa volontà di comunicare, i governi non sono in grado di stabilire un contatto produttivo. Così il Ministero della difesa americano incarica la linguista accademica Louise Banks [Amy Adams] di instaurare un dialogo con gli alieni, scoprire quanto più possibile e prima che qualche altra nazione scateni una guerra le cui conseguenze non possono essere che disastrose. In team con il fisico Ian Donnelly [Jeremy Renner, The Avengers], Louise dovrà affrontare una corsa contro il tempo in cerca di risposte che possono cambiare il corso degli eventi e, probabilmente gli stessi postulati fisici che sono alla base della conoscenza della razza umana.

«La lingua è il fondamento della civiltà, […] è la prima arma che si sfodera in un conflitto».

ShakeMoviesStandard04

Ad interpretare il colonnello Weber, il personaggio che sceglie Louise per “salvare il mondo” è l’ormai veterano della fantascienza Forest Whitaker: dopo aver preso parte a Ultracorpi – L’invasione continua, la personale versione di Abel Ferrara del classico The Body Snatchers, ha recitato in Specie mortale, è stato co-protagonista dell’intrigante Repo Men ma, soprattutto, è stato il carismatico Saw Gerrera in Rogue One: A Star Wars Story. Il colonnello sceglie Louise per la sua grande capacità di immergersi nella lingua per trovare la giusta mediazione e non è una sorpresa se Denis Villeneuve sceglie Amy Adams per l’umanità che sa trasmettere ai personaggi da lei interpretati, e rimane solo una battuta goliardica il fatto che le abbia giocato a favore essere la fidanzata di uno degli alieni più amati dal pubblico, Superman, L’uomo d’acciaio, e rimane una pura coincidenza che i due nomi Lois/Louise si somiglino. A fianco a lei anche Jeremy Renner, chiamato a rappresentare la personificazione della razionalità pura, del calcolo logico, della scienza che sa fare un passo indietro per lasciare la scena a chi ha incamerato le regole, le ha rielaborate e le ha stravolte in maniera geniale.

«Tu affronti le lingue da matematico».

La comunicazione è proprio una delle chiavi di lettura principali, sicuramente quella più evidente, sin dai primi frame. Ma la grandezza del film sta proprio nell’importanza di ogni tassello.

ShakeMoviesStandard06

La fotografia di Bradford Young [Selma – La strada per la libertà, La grande partita] ben si sposa con il tono poetico della storia: è desaturata, molto curata nella composizione, che sfrutta nel migliore dei modi e nella giusta misura la regola dei terzi, le diagonali e, quando è possibile, la sezione aurea, senza tediare con il virtuosismo fine a se stesso, al fine di dare risalto ai personaggi e alla comunicazione visiva, di supporto a quella verbale, protagonista indiscussa della sceneggiatura di Eric Heisserer [Lights Out: Terrore nel buio, ma anche Van Helsing, il reboot annunciato per l’ambizioso Universal Monsters Universe].

La difficoltà di comprensione è ben rappresentata e sottolineata in modo implicito, ma comunque abbastanza evidente nella versione originale del film, dal nome che Ian dà ai due interlocutori extraterrestri: Abbott & Costello, il duo comico che ha reso celebre il numero “Who’s on first”, derivato dagli intrattenimenti leggeri del vaudeville, e diventato lo sketch che rappresenta per antonomasia ed in maniera esilarante il misunderstanding verbale. Probabilmente per non far calare troppo la tensione (Abbott & Costello in Italia sono Gianni & Pinotto) e fornire un riferimento più popolare, la traduzione italiana ha deciso di sostituire con Tom & Jerry i nomi originali. Lungi dal demonizzare una scelta che sarà sicuramente studiata su basi di calcolo matematico, per il bene del film e per la completezza del suo messaggio sarebbe stato opportuno rischiare. Ma si parla, in fondo, di “pelo nell’uovo”!

ShakeMoviesStandard03

Proseguendo l’analisi del film e addentrandosi in un livello ulteriore di significazione, ci si imbatte nel meccanismo ad orologeria di Arrival, il concetto-cluster di TEMPO, che trascina a sé tutto il resto e lo condensa nella forma simbolica del CERCHIO e nella sua declinazione a tre dimensioni: la sfera, schiacciata per ottenere una particolare forma di astronave che possa richiamare un altro simbolo che nell’iconologia classica incarna insieme i concetti di perfezione e vita, l’uovo, o i “gusci” come vengono chiamati nel film.

Assieme, cerchio e tempo, in interconnessione simbiotica di significato, abbracciano materie e culture ben differenti, ma che contribuiscono al sapere dell’umanità e forniscono una connotazione molto alta al testo cinematografico. Senza scendere troppo nel dettaglio e per lasciare al lettore la libera scelta di documentarsi prima per una miglior comprensione o di verificare i molti rimandi solo successivamente alla visione di Arrival, è opportuno segnalare la massiccia presenza di citazioni di materia scientifico-linguistica come la successione di Fibonacci, la formula per calcolare la variazione dell’entropia che campeggia su una lavagna quando Louise spiega che prima di chiedere qualsiasi cosa deve accertarsi che gli alieni capiscano cosa sia una domanda, il concetto di “gioco non a somma zero” ma anche di logogramma, le scritture semasiografiche, l’ipotesi di Sapir-Whorf, l’ensō (= cerchio) del buddhismo zen inteso come sintesi perfetta della libertà d’espressione del tutt’uno corpo-spirito, gli orecchini a forma di nautilus e i nomi dei due protagonisti che diventano un omaggio allo scrittore di fantascienza Iain Banks.

ShakeMoviesStandard05

Se il punto di riferimento per gli esseri alieni eptapodi sembrano essere le descrizioni degli Antichi di Lovecraft, innestate su di un’ibridazione di animali terrestri comuni come polpi, elefanti, ragni e balene, per quanto riguarda gli spunti di riflessione ed il voler innalzare ad un livello più alto la conversazione fantascientifica al cinema non poteva non essere il Nolan di Interstellar e Inception, che «hanno raggiunto un traguardo incredibile, al livello di Spielberg» in Incontri ravvicinati del terzo tipo, secondo il regista Villeneuve. Anche Arrival come il film di Spielberg, e come 2001 di Kubrick, gioca molto sull’elemento sonoro. Quando il guscio-monolito è inquadrato un suono particolare, forse di un didgeridoo, e questo suono dal sapore ancestrale gradualmente si fonde, per stratificazione, con i rumori diegetici e con la musica minimalista, composta da Jóhann Jóhannsson [La teoria del tutto, Prisoners], in un tutto armonico, che sembra suggerire una primitiva armonia con il creato mescolata con la paura-fascino per il perturbante, rappresentato da tutto ciò che è alieno.

ShakeMoviesStandard08

In maniera più intrinseca, poi, nel sottotesto, Arrival pone anche altri quesiti. Dietro al “da dove venite” e “perché” si nascondono domande di natura esistenziale, introspettiva e tipicamente umana: chi siamo? da dove veniamo? dove siamo diretti?

E se c’è qualcosa che il film lascia da elaborare mentre la melodia palindroma del violino accompagna i titoli di coda è una riflessione sull’amore, che risulta l’unico elemento cosmico slegato da qualsiasi legge o altra forma di sottomissione gerarchica: l’amore fa il suo corso dove e quando vuole ed è ciò che rimane anche quando tutto il resto è finito. Nessuno sa se nell’infinito ci sia amore ma una sensazione innata ci spinge a credere che l’amore sia infinito, al di là di ogni logica, e «inarrestabile», come la giovane Hannah (altro palindromo!) e la scelta d’amore di sua madre!

«Se potessi vedere la tua vita dall’inizio alla fine, cosa cambieresti?».
ShakeMoviesStandard09

Bad moms – Mamme molto cattive, di Jon Lucas e Scott Moore

Bad moms è una frizzante commedia diretta da Jon Lucas e Scott Moore, i registi di Wanted, I guardiani della notte, I guardiani del giorno, ma soprattutto del gigionesco Abraham Lincoln: Vampire Hunter. Passati alla storia più che altro per aver scritto le trionfali sceneggiature che sono alla base di successi come la saga di The Hangover, meglio conosciuto in Italia con il titolo Una notte da leoni, o la piacevole rivisitazione del Canto di Natale di Dickens realizzata in occasione de La rivolta delle ex, Lucas e Moore si cimentano stavolta in qualcosa di più profondo, nonostante lo spunto di partenza sia indissolubilmente legato ad una partitura comica, che procede con passi studiati, dallo slapstick style alla satira più sottile.

«Leggendo la sceneggiatura, si potrebbe pensare che sia stata scritta da una donna, ma parlando con Jon e Scott, ci si rende conto che è un omaggio alle loro mogli» afferma Mila Kunis, mentre Moore confessa: «sgobbano tutto il giorno, mentre noi lavoriamo da casa, davanti al nostro computer. Stanno in giro, accompagnano i bambini, preparano il pranzo… C’è un sacco di materiale drammatico alle spalle, il che è un terreno fertile per la commedia».

ShakeMoviesStandard06

Amy [Mila Kunis], mamma lavoratrice, infaticabile, estremamente stressata, cerca di incastrare ogni attività sua e dei due figli adolescenti, Dylan [Emjay Anthony, Il libro della giungla, Krampus] e Jane [Oona Laurence, Il drago invisibile], nell’arco della giornata, con l’obiettivo di rendere la loro vita il più possibile perfetta. Ma se, nella peggiore delle giornate, decidesse di scendere dalla giostra della perfezione e diventare una “cattiva mamma”? Mai più sveglia all’alba per preparare la colazione a tutti, nessun aiuto nei compiti e nelle ricerche, niente assistenzialismo o zerbinismo sul posto di lavoro o a scuola. E poi, via il marito immaturo ormai diventato un terzo figlio e più spazio per curare la propria persona e, perché no, uscire e andarsi a divertire con due nuove amiche, Kiki [Kristen Bell] e Carla [Kathryn Hahn], due outsider come lei. Ma non ha fatto i conti con la presidente dell’Associazione Genitori, Gwendolyn [Christina Applegate] che vuole tutelare la figura della leggendaria madre modello a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, bullizzando chiunque si frapponga fra lei e il mantenimento dello status quo.

«Quando scrivi di mamme e dell’essere madre – afferma Annie Mumolo –, cammini su una linea molto sottile. Questa è una delle prime sceneggiature che ho letto che avesse risonanza emotiva e personaggi con cui potersi relazionare. È tagliente e divertente, irriverente quanto basta da indurre a riflettere».

ShakeMoviesStandard07

I registi non avevano preventivato di ingaggiare, per i ruoli delle protagoniste di Bad moms, sei attrici che fossero anche mamme, ma alla fine così è andata e il loro apporto è stato fondamentale per un risultato definitivo davvero realistico.

In Bad moms, i personaggi sono sapientemente disposti secondo una simmetria che fornisce un avvincente equilibrio alla trama: se da un lato abbiamo Amy con le sue amiche Kiki, casalinga sfruttata e bistrattata, e Carla, madre single dall’insaziabile appetito sessuale, che portano avanti una forma di ribellione alla figura materna convenzionale, dall’altro Gwendolyn ha altrettante “scagnozze” in Stacy [Jada Pinkett Smith], che reprime la Carla che è in lei, e Vicky [Annie Mumolo], la cui sbadataggine fa il paio con la personalità un po’ naif di Kiki.

Anche le due figure maschili principali sono in contrapposizione con un Jay Hernandez [Suicide Squad] che interpreta il padre più figo della scuola, un atletico vedovo che sa anche essere dolce e premuroso, diametralmente opposto al pusillanime sposato da Amy.

In un simpatico cameo i fan della NFL avranno riconosciuto J. J. Watt, estremo difensore degli Houston Texans, ridotto quasi ad una macchietta nei panni dell’allenatore-bamboccione della squadra di calcio della scuola: sembra quasi star lì a significare che nemmeno lui può nulla contro una madre imbestialita che difende la felicità del proprio figlio. Chi ne ha vista almeno una all’opera sa che è vero.

ShakeMoviesStandard04

Ironica, per chi conosce la sua storia, invece, è la partecipazione di Martha Stewart, conduttrice televisiva e intrattenitrice di origini polacche, conosciuta nel mondo televisivo e dei magazine statunitensi per i suoi progetti di cucina, giardinaggio, bon ton, fai-da-te, e, in generale, come modello-guida per il lifestyle femminile e per la corretta convivenza domestica, ha finito da poco di scontare una condanna per complotto, intralcio alla giustizia e falsa testimonianza. Incarcerata nella prigione federale di Alderson e poi messa agli arresti domiciliari nella sua casa di New York si è vista prolungare la pena di tre settimane, per aver violato i termini della prigionia. Insomma, rientra a pieno diritto tra le Bad moms!

Essere “madri molto cattive” non è essere delle cattive madri, sia ben chiaro e non bisogna commettere l’errore di sottovalutare questo film pensando sia destinata ad un ristretto ed esclusivo target di giovani madri che vogliono evadere e svagarsi, immedesimandosi nei loro alter ego su grande schermo. Bad moms è un po’ Hangover, un po’ Project X, ma non si allontana poi molto dalla morale di Mrs. Doubtfire: è nell’imperfezione che si trova la perfezione e anche se così non fosse, l’imperfezione è sempre divertente ed intrigante, perlomeno.

Marguerite e Julien – La leggenda degli amanti impossibili, di Valérie Donzelli

Marguerite [Anaïs Demoustier] e Julien de Ravalet [Jérémie Elkaim] si amano fin da bambini e, divenuti ragazzi il loro sentimento non si stabilizza su un registro affettivo familiare. Fratello e sorella non desiderano altro che stare l’uno accanto all’altro. Tutti si accorgono del rischio dell’incesto, così li separano più volte con matrimoni combinati o facendoli sorvegliare da governanti, che finiscono con il simpatizzare con i due amanti infelici. Ogni ostacolo diventa una prova da superare che rinnova il loro legame fino a renderlo indissolubile. L’avrà vinta la ragione o il sentimento?

«Che cosa siamo?
Qualcosa che non esiste
Allora va bene, non rischiamo niente se non esistiamo».

ShakeMoviesStandard02

Valérie Donzelli, al suo quarto lungometraggio, si sente pronta a riscrivere con il partner di lavoro e di vita, nonché attore protagonista, Jérémie Elkaim, la sceneggiatura che nel 1971 Jean Gruault aveva preparato per Francois Truffaut. Il progetto era stato abbandonato dal regista de I quattrocento colpi e, una qualsiasi persona sensata si sarebbe domandata a fondo il perché senza incaponirsi a voler portare a casa un risultato frutto di mille espedienti e compromessi che depauperano la storia e l’arte cinematografica, inasprendo il giudizio del pubblico, che rimane deluso di un prodotto che si prende troppo sul serio senza avere né una struttura solida né un’estetica tale da sopperire ai notevoli buchi di sceneggiatura e alle brusche cadute di stile.

Diversamente dai film precedenti, la Donzelli non presenta uno spaccato della sua vita, discutibilmente interessante, bensì l’adattamento di una storia vera (da qui in avanti c’è il rischio SPOILER): Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, vengono catturati, processati e condannati alla decapitazione per adulterio e incesto nel 1603. Primo escamotage: non volendo sbattersi per una costosa ricostruzione d’epoca, si tenta grossolanamente un’operazione simile a quella di Titus, senza essere Julie Taymor, senza inserire abbastanza “anacronismi” per propendere verso un’interpretazione surreale postmoderna, senza verve. Come afferma la stessa regista, si è cercato di «incarnare una leggenda… un film senza tempo, che non fosse legato ad un’era in particolare, radicato nel mondo delle favole, ma senza appartenergli completamente». Di nuovo un “senza”.

ShakeMoviesStandard01

La location principale è proprio il vero castello di Tourlaville, che comunica Seicento in ogni inquadratura mentre sullo schermo si alternano automobili, radio, elicotteri, microfoni e altoparlanti, e poi tableaux vivants e costumi ottocenteschi a fornire un continuo straniamento spaziale, temporale e narrativo, nell’intento di lasciare gli spettatori confusi sulla poltrona allo stesso modo in cui sono smarriti i due amanti nel bosco, così come nella vita. Questi due Hansel e Gretel vivono una favola dove, però, la morale non c’è. Di moralisti, invece, ce n’è quanti se ne vuole, ma si tratta di oppositori che si pentono e che si trasformano in aiutanti, comunque inetti.

La tragedia familiare è dietro l’angolo, rovescio della medaglia di questo amore maledetto, eppure chi segue le vicende degli amanti impossibili non teme per la loro sorte, non si affeziona a loro, né prende posizione, come era del resto l’intento registico. Il conflitto che porta avanti la narrazione non è insito nella coppia, nel loro rapporto che è e rimane indissolubile, bensì nell’altrui testa, nell’educazione sessuale ricevuta anche per questioni di patrimonio genetico di un eventuale erede. Così si pensava, forse, di sviluppare una tragedia senza avere motivazioni valide, una favola senza una morale più o meno celata dietro tipiche allegorie, una leggenda o un sogno senza un rimosso o una cornice abbastanza surreale e un adattamento di una storia vera togliendo concretezza grazie agli elementi stranianti.

Anche la recitazione non è né melodrammatica né minimalista, indecisa non incide, e nelle occasioni più importanti si sbotta a ridere involontariamente. Una tragedia come quella di Romeo e Giulietta diventa una mediocre farsa teatrale su palcoscenico parrocchiale.

ShakeMoviesStandard03

La perla è il secondo stratagemma: la storia è narrata da una giovane ragazza in un orfanotrofio femminile come storia della buonanotte per far addormentare bambine neanche adolescenti. A parte la scelta discutibile dell’argomento incestuoso per addormentarsi, ci si domanda come mai si sia scelto di dare una struttura che preannuncia una chiusura ad anello per poi tradirla con il terzo espediente narrativo: non avendo mai deciso se della sceneggiatura, che Truffaut, guarda un po’, non ha mai voluto realizzare, farne un film poetico o un film erotico, ecco che, dopo un pecoreccio amplesso nel bosco tra i due amanti, mentre tempus fugit e sono braccati da un intero esercito di guardie, manco fossero dei terroristi, giunge la conclusione tragica con risvolti comici e un epilogo con poesia di Walt Whitman, recitata dalla voce di Marguerite sopra alcuni dettagli di elementi naturali giustapposti, in un montaggio che dovrebbe sostenere emotivamente le parole finalmente di unione indissolubile dei due: «Ora siamo qui… siamo corteccia… siamo rocce…». Questa trovata altro non è se non l’ennesima scappatoia per non dover rappresentare graficamente le ultime parole della sceneggiatura originale, cioè un dantesco «Spiriti volate via…». Sebbene non vi sia negli annali alcuna documentazione circa eventuali apparizione da fantasmi dei due amanti maledetti, in seguito a questa grossolana trasposizione cinematografica della loro vera triste sorte, non è escluso che ora abbiano davvero qualche conto in sospeso con qualcuno.

Con i “senza” come si può costruire qualcosa di buono?

Little Sister di Hirokazu Koreeda

«Riconoscere la bellezza nelle cose rende felici».

Magnifico. Una sublime poesia recitata con sentimento e girata con garbo.

Le tre sorelle Kohda vivono insieme nella grande casa lasciata loro dai nonni nella città di Kamakura, abituate a cavarsela da sole senza l’aiuto dei genitori, divorziati ormai da oltre 15 anni. Al funerale del padre, Sachi, Yoshino e Chika conoscono la sorellastra adolescente, Suzu. Immediatamente conquistate dalla ragazza, ormai completamente orfana, la invitano a vivere con loro. Con inaspettato entusiasmo, per le quattro sorelle, inizia una nuova vita fatta di scoperte, di sentimenti spezzati e legami indissolubili.

Una storia emozionante che mette in scena una vita quotidiana semplice, in cui non accade chissà cosa ma che è parallelamente fatta di avvenimenti e sentimenti complessi, eternamente unici come unica è la nostra esistenza, attraverso i quali si forma, nel tempo, una famiglia moderna legata ai ricordi e alla tradizione ma profondamente distaccata dal passato, ben lontano dai silenzi di un maestro come Yasujiro Ozu. Quello portato al cinema da Little sister, è un Giappone moderno, che cerca la sua personale strada tra la nostalgia e l’eternità del passato e il bisogno di apertura verso l’emancipazione sentimentale d’oltreoceano. Anche la sceneggiatura è in splendido equilibrio tra la modalità comunicativa occidentale, fatta di numerosi dialoghi, e gli immancabili silenzi introspettivi, tipici del cinema tradizionale giapponese.

ShakeMoviesStandard5

Presentato all’edizione 2015 del Festival di Cannes, Little Sister, il nuovo film di Hirokazu Koreeda è la trasposizione live action del manga capolavoro di Akimi Yoshida, Umimachi Diary, ovvero “Diario di una città di mare”, vincitore del prestigioso Premio Taisho nel 2013, dell’Excellence Prize al Japan Media Arts Festival Award del 2007 e classificatosi terzo alla 12^ e secondo alla 13^ edizione dell’ambitissimo Premio Osamu Tezuka. Lo shoujo, fiore all’occhiello della famosissima casa editrice Shogakukan è, in realtà, un crossover che fa riferimento ad un precedente manga della stessa autrice, Lover’s kiss, miniserie in 2 volumi del 1995, anch’esso trasposto in un film live action nel 2003.

Akimi Yoshida è una mangaka dal tratto semplice ma dalle storie decisamente complesse, come si può riscontrare visionando Banana Fish, l’unica sua opera per ora edita in Italia, e il regista Koreeda sembra aver voluto mantenere questo contrasto tra la complessità dei sentimenti e la semplicità visiva attraverso una fotografia semplice, che rimane ad una distanza oggettiva, che non eccede in virtuosismi, che lascia che a narrare siano i gesti dei personaggi. A generare le emozioni sono, infatti, le azioni, semplici, ma non per questo meno significative di tante parole, e sottolineate stilisticamente da lente e millimetriche carrellate, che coinvolgono il pubblico nelle vicende, senza dover ricorrere ad uso eccessivo di piani ravvicinati, una tecnica di captatio benevolentiae tanto abusata, purtroppo, dal nostro cinema.

I personaggi, anche quelli minori, sono ben caratterizzati, contribuendo a costruire un’opera corale che racconta la quotidianità del Giappone contemporaneo con uno stile che ricorda in parte le atmosfere di Maison Ikkoku, il manga capolavoro di Rumiko Takahashi ma molto di più lo stile narrativo delle opere di Mitsuru Adachi, come risulta evidente confrontando le protagoniste di Little sister con le quattro sorelle di Cross game, diverse in tutto e per tutto ma unite a formare un fortunato nucleo familiare, simboleggiato allegoricamente da un quadrifoglio, emblema del loro locale.

Nel film di Koreeda, inoltre, è presente una notevole ricorrenza del numero 4. Oltre alle stagioni che si alternano, si notano i quattro elementi a cui sono riconducibili le quattro sorelle e i loro caratteri differenti, secondo uno schema che vede Sachi, la primogenita, 29nne, seria, affidabile, severa, vivere distaccata, nell’aria, reprimendo le emozioni e chiudendosi al dialogo con “gli adulti che portano via l’infanzia”; al fuoco, invece, può essere ricondotta la passionale ed esuberante 22nne Yoshino, che cambia lavoro tanto spesso quanto beve per dimenticare le delusioni amorose; Chika, 19nne estremamente spensierata, rappresenta l’anima candida della famiglia ed è delle quattro quella che rende più evidente il suo legame con l’acqua attraverso l’hobby per la pesca e un desiderio di contatto con le onde in riva al mare; infine, l’outsider, Suzu, 13nne timida e inibita perché cresciuta troppo in fretta a causa della morte della madre e della successiva lunga malattia del padre, può essere collegata alla terra, l’elemento che racchiude in sé i tre regni, vegetale, animale e minerale, in cui la ragazza si trova perfettamente a suo agio, l’elemento aggregativo per eccellenza, il vero fulcro del legame familiare, proprio lei, sola al mondo e in teoria priva di elementi di contatto con il resto del «dormitorio femminile».

ShakeMoviesStandard4

«I personaggi principali del film sono quattro sorelle, è vero, ma non c’è solo questo!», conferma il regista, «È anche la storia di una città e dello scorrere del tempo, giorno dopo giorno. Come l’alternarsi delle maree sulle sue spiagge, la città resta essenzialmente immutabile, nonostante il flusso di arrivi e partenze dei suoi abitanti: come Suzu, per esempio, la signora Ninomiya o il fidanzato di Sachi».

Personaggi, bisogna aggiungere, che rimangono ben impressi nel cuore insieme alla bellissima partitura musicale di Yoko Kanno, puntuale ma mai prevaricante, una musica funzionale, che commenta e sottolinea i sentimenti e rafforza le emozioni senza prendere mai il sopravvento.

Musica, regia, fotografia, dialoghi, tutto risulta misurato, ben dosato, preciso e discreto come è naturale che sia nella cultura nipponica, di cui logicamente il film è generosamente permeato. Immancabile il passaggio sotto i sakura in fiore, ormai un cliché universale, ma è certo inusuale trovare un vasto campionario di elementi, peraltro poco traducibili, in una pellicola di prospettive internazionali: per citarne uno, forse il più significativo per il film, “shoganai” significa accettare che qualcosa sia fuori dal nostro controllo e, perciò, andare avanti senza sensi di colpa e rimpianti.

Il film dà ampio spazio alla natura: Kamakura non è molto lontana da Tokyo, ma in Little sister non troverete inquadrature di grattaceli, né enormi caseggiati, piuttosto case di legno, stradine di provincia dove gli abitanti si spostano a piedi o al massimo in bicicletta. ma anche alla ritualità del mangiare, della cucina e degli alcolici. In questo caso è la ricetta di famiglia del liquore di prugne a svolgere la funzione di elemento di aggregazione e, allo stesso tempo di elemento comico antitradizionalista: se una donna che beve sorprende il giapponese, figuriamoci una donna ubriaca!

Significativa, a questo proposito, anche la massiccia presenza di personaggi femminili, altra scelta il cui anticonformismo s’intuisce da una massima, dell’anziana zia, che sembra uscire direttamente dalla penna di Oscar Wilde: «Il valore di una donna è pari alla quantità dei suoi segreti», sentenza smentita dall’evidente armonia degli opposti presente in questa speciale e bellissima famiglia face-to-face.

I temi della morte, dell’infanzia rubata, della ritualità dei gesti, della ricerca della felicità, del ricordo come elemento principe che fa superare momenti difficili e che fa elevare lo spirito, che consola e permette quasi di librarsi in aria privi di pesi come Peter Pan, sono tutti temi ricorrenti nella filmografia di Hirokazu Koreeda, che gli è valsa 37 premi su 47 nomination ricevute, trattati, però, in quest’opera, con estrema delicatezza, quasi a voler lasciare intimità ai personaggi. Come se fosse la trasposizione cinematografica di un insegnamento buddhista o di un precetto zen, Little sister fornisce la sua personale riflessione sul significato dell’esistenza che scorre complessa ma inesorabilmente leggiadra tra doveri familiari, crisi lavorative, tradimenti e abbandoni, rimpianti e rabbia, senza dimenticare che, però, è l’amore il vero motore della vita e che bisogna avere il coraggio di operare delle scelte, perché «se nessun dio vuole farlo, dobbiamo pensarci noi!».

ShakeMoviesStandard2

Cast d’eccellenza e specializzato in live action movie di manga e anime e doppiaggio. Sachi è Haruka Ayase (Rookies, Guardian of the Spirit, Hotaru no Hikari), Yoshino è Masami Nagasawa (Touch, Rough, I am a Hero, The Crossing di John Woo), Suzu è interpretata da Suzu Hirose (Crows Explode, Chihayafuru, Anger, Your lie in April) e Kaho (Gamera the brave, Otomen, Puzzle) interpreta Chika. Kirin Kiki, apprezzata protagonista de Le ricette della signora Toku, ha qui un ruolo secondario, ma è una certezza per il regista che l’ha voluta ancora nel suo prossimo family drama Umi yori mo mada fukaku (letteralmente “ancora più profondo del mare”), il quarto insieme, dopo I wish, Like father like son e questo splendido Little sister.

Nelle sale italiane dal 1° gennaio 2016 Little Sister, vincitore del San Sebastián International Film Festival, passa praticamente inosservato, scontrandosi con i classici appuntamenti nostrani delle festività natalizie. Si tratta, invece, di una storia toccante che racconta la vita, con sofisticato realismo e sottile poesia. Una film che affascina e tiene in sospeso lo spettatore dall’inizio alla fine.

Le anime sensibili e i veri romantici non possono di certo lasciarselo sfuggire!