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It: Capitolo due, di Andy Muschietti

27 anni dopo il loro scontro con la terrificante creatura chiamata It, il Club dei Perdenti è cresciuto e ognuno bada ai fatti suoi molto lontano da Derry. Solo Mike [Isaiah Mustafa: Shadowhunters, Crush] è rimasto in quella città maledetta come bibliotecario, così, quando le misteriose sparizioni di bambini e gli efferati omicidi ricominciano chiama i suoi vecchi amici per radunarsi, come promesso, per sconfiggere definitivamente il mostro.

Prima di tutto, però, Bill [James McAvoy: Split, X-Men: Apocalypse], Stan [Andy Bean: Swamp Thing, The Divergent Series: Allegiant], Bev [Jessica Chastain: Interstellar, Crimson Peak], Ritchie [Bill Hader: Saturday Night Live, Tropic thunder], Eddie [James Ransone: Captive state, Sinister 2], Ben [Jay Ryan: Beauty and the Beast] dovranno affrontare i loro “mostri”.

«Per ventisette anni… vi ho sognato. Vi ho bramato. Oh, mi siete mancati. …aspettando questo, preciso, momento! È tempo di galleggiare!»

It è un romanzo dalla terrificante magnificenza, capace di trattare temi come razzismo, omofobia,  narcisismo, mobbing, violenza e suscitare riflessioni sulla vita e sul nostro personale concetto di realtà, che va al di là delle verità superficiali che sfioriamo tutti i giorni senza scavare a fondo. Sarebbe riduttivo se si trattasse solo dell’eterna lotta tra Bene e Male: King disegna personaggi che devono scegliere tra vita attiva e vita contemplativa. Chi sfiderebbe un mostro dotato di poteri capaci di governare le menti in modo da sfruttarne fantasie e paure a proprio vantaggio? senza un aiuto altrettanto sovrumano, come potrebbero riuscire a fermarlo in maniera definitiva? Non c’è bisogno di andare a scomodare Platone, Aristotele o Hannah Arendt per capire che il messaggio sotteso al testo è di avere uno spirito umanistico-filantropico, un amore fraterno, che spinga a scendere in campo anche in sfide che sembrano invincibili ma anche distanti dalla nostra sfera d’influenza umana. Lavorare, operare e agire sono attività connesse ai presupposti generali dell’esistenza umana e radicate nella natalità in quanto hanno il compito di fornire e preservare il mondo per i posteri. Ed è questa la missione che si sono prefissati i Perdenti: lottare e chiudere il conto per non lasciare ad altri l’incombenza, per non dover diventare come gli altri adulti di Derry, inconsapevoli o indifferenti all’orrore che la città stessa rappresenta.

«Prima dell’universo esistevano solo due cose. Una era It e l’altra la Tartaruga. It era arrivato sulla Terra molto tempo dopo che la Tartaruga si era ritirata nel suo guscio, e lì aveva scoperto una facoltà immaginifica del tutto nuova, quasi straordinaria. Le capacità di questa immaginazione rendevano il cibo molto nutriente. I suoi denti straziavano carni paralizzate da esotici terrori e paure voluttuose: esseri che sognavano di mostri notturni e sabbie mobili; contro la loro stessa volontà, si affacciavano su baratri senza fondi.

Grazie a quel cibo nutriente It conduceva la sua esistenza in un semplice ciclo di veglia per mangiare e sonno per sognare. Aveva creato un luogo a sua immagine e lo rimirava con orgoglio dai pozzi neri che aveva per occhi. Derry era il suo mattatoio, la popolazione di Derry erano le sue greggi.

Così era stato.

Poi… quei bambini.

Un fatto nuovo. Per la prima volta da sempre.»

Pur ringraziando sentitamente Muschietti per la sua aderenza scrupolosa alla maggior parte delle vicende narrate dal Maestro, il risultato finale, facendo una media matematica fra il meritato successo del primo capitolo e il passabile secondo, è la confermata consapevolezza che il romanzo It vada trasposto in una serie TV.

La pantagruelica mole di materiale ben si presta ad una serializzazione: ogni caso irrisolto di sparizione di bambini o di resti di cadaveri ritrovati potrebbe benissimo essere la materia di un episodio o di più, tutti i personaggi potrebbero avere maggior respiro e anche le tematiche più forti troverebbero la loro naturale esposizione senza incorrere nella censura preventiva per salvaguardare i guadagni.

It: capitolo due pecca, infatti, per due principali motivazioni:

  • se non dai modo e tempo allo spettatore di approfondire di nuovo i personaggi principali nelle loro vite da adulti ottieni lo stesso risultato dell’intervento della polizia nelle indagini dei film secondo il parere di Alfred Hitchcock: una noia mortale! Inoltre, non ti affezioni agli adulti come ai bambini, quindi rimani distaccato e che cosa può ottenere di buono un film che perde il coinvolgimento del pubblico?
  • se hai confezionato una quantità di girato estremamente nutrita già dal primo capitolo, pur tagliando notevolmente, è logico dover rinunciare a qualcosa; quello che non è assolutamente accettabile è che si rinunci ad approfondire trame lasciate in sospeso nel primo capitolo; ad esempio, l’origine dell’aspetto umano preferito da It nelle sue battute di caccia, quel Pennywise che giustifica e alimenta la nostra coulrofobia: era stata vagamente accennata come legata alla tragedia di Pasqua alle Ferriere Kitchener e al clown ballerino che negli stessi anni lavorava nel circo, ma non è stata più portata avanti – comprensibile perché meritava quasi un capitolo a parte, certo, e così dura già come un kolossal d’altri tempi, ma un binario morto ingiustificato dal punto di vista diegetico è qualcosa che va contro ogni principio di narrazione.
  • la genesi del Male sfiora invece il ridicolo: la “Divoratrice di mondi” avrebbe il suo antagonista naturale in Maturin, una sorta di tartaruga gigante, altrettanto ancestrale, ma avendola completamente epurata nella trasposizione e avendo tolto la sua guida telepatica ai Perdenti, il rito di Chüd, che è la chiave di volta dello scontro finale, diventa così una sorta di sit-in di protesta non violenta che nemmeno Gandhi penserebbe di fare contro una creatura mangiabambini. La soluzione alternativa è operare degli atti di bullismo per atterrire un mostro che si nutre di paura, sfruttandone a proprio vantaggio i poteri. Geniale su carta ma insoddisfacente sullo schermo se non è accompagnata da una conclusione spettacolare almeno quanto le uccisioni che ha inflitto alle sue vittime. In questo stesso contesto risulta enigmatica la frase di It «Guardatevi… siete grandi. Ne è passato di tempo!» che lascia spazio a dissertazioni che confermano la stretta connessione dell’It come romanzo di formazione con i riti di iniziazione e passaggio dall’adolescenza all’età adulta che sono alla base della nascita della fiaba popolare.

La struttura letteraria non può essere riportata perfettamente in un racconto filmico, ovviamente. Basti pensare alla parte in forma di diario o all’inserimento di un haiku, componimento poetico primitivo, forse addirittura preistorico, che ben si abbina alla cosmogonia quasi lovecraftiana trattata:

Brace d’inverno,

i capelli tuoi,

dove il mio cuore brucia.

In questo secondo e ultimo capitolo il regista ha apportato sostanziali modifiche attraverso la sceneggiatura in parte discutibile di Gary Dauberman [Swamp Thing, Annabelle 2: Creation, Annabelle 3]. Si poteva fare molto di più. Guardando prima il lato positivo, si noterà che Pennywise è meno presente e quindi si possono vedere le diverse incarnazioni del Male. Per quanto le gigionerie macabre di Bill Skarsgård [Deadpool 2, Atomica bionda, Castle Rock] abbiano retto da sole tutto il primo capitolo, con questa mossa è possibile finalmente far strisciare nel pubblico il sospetto che il mostro sia qualcosa di ben più grande e potente di un pagliaccio mangiabambini da fiaba popolare.  

Nelle illustrazioni del concept artist Vincent Proce [La forma dell’acqua – The shape of water, Scary stories to tell in the dark, Qualcuno salvi il Natale] si può ammirare tutto il lavoro dietro le quinte per la creazione di tutto ciò che concerne la CGI. Il regista Muschietti si lascia addirittura prendere la mano in questa fase realizzativa e confeziona con Proce una meravigliosa citazione de La Cosa di John Carpenter.

Nonostante appaia in numerose forme perlopiù attinte dal repertorio d’immaginazione delle specifiche vittime e da ciò che più le terrorizza, It ha, infatti, una certa predilezione per la forma di Pennywise, alter ego di Bob Gray, un clown sadico e perverso descritto come molto simile a un incrocio tra Bozo il clown e Clarabell, con due ciuffi di capelli arancioni a punta, vestito con un largo costume di seta color argento, una cravatta blu, un colletto increspato e inquietanti pompon arancioni che sono stati sfruttati alla perfezione dal costume designer Luis Sequeira [Carrie, La madre].

Io sono la Mangiatrice di Mondi!

Dato che il flusso analitico ci ha portato praticamente a presentare già quasi tutto il cast, approfitto per “nominare” – è proprio il caso di utilizzare questo termine, data la sua presenza costante negli ultimi anni di Academy Awards – il maestro Benjamin Wallfisch [Dunkirk, Blade Runner 2049, Il diritto di contare, 12 anni schiavo, Il piccolo principe] che compone una nutrita e avvolgente musica che, praticamente, accompagna lo spettatore senza lasciarlo mai da solo nel silenzio spettrale della fotografia di Checco Varese [Pacific rim]: un altro fiore all’occhiello, senza virtuosismi, ma sempre funzionale alla concretezza materica delle mostruose fantasie, all’atmosfera asfittica e al senso di oppressione diffusa e continua del film tanto nelle tenebre del sottosuolo [come aveva fatto per The 33] quanto sotto la luce “rassicurante” del sole [vedi Miracoli dal cielo].

La luce, nelle opere di Stephen King, non rappresenta quasi mai qualcosa di buono. Siamo abituati a sentir raccontare come rassicurante “quella luce in fondo al tunnel”. La speranza, giusto? Ecco, nell’idea del Maestro la luce che nasce per contrasto dalle tenebre diventa il tradimento per eccellenza delle aspettative. Lucifero non significa, tra l’altro, letteralmente “portatore di luce”? Così l’abituale lettore di King, ormai, quando “vede” una luce in fondo ad una galleria buia come minimo si aspetta un treno che gli viene (in)contro!

Nel caso di It ci troviamo di fronte ad una luce fatta di tre elementi – una e trina – che non si può non interpretare attraverso un simbolismo religioso.

Una luce che ammalia, che fa leva sulle coscienze più suggestionabili e le rende schiave delle loro angosce, paralizzate dalle loro paure. Fino a nutrirsi della loro energia vitale. Fino a nutrirsi di loro mentre sono inermi burattini senza fili.

«Venite a giocare, Perdenti! […] Riesco a percepire l’odore della vostra paura!».

La paura diventa motore di tutto.

Da una parte la creatura ancestrale che per natura deve nutrirsi – fin qui tutto sommato niente di immorale – ma che lo fa di bambini, “più teneri e succulenti” direbbero i Grimm, perché sono privi di malizia, di esperienza, perché in una parola hanno un’innocenza pura che perderanno solo nei pochi istanti prima di essere dilaniati o che perderanno solo diventando adulti, come accadeva nei riti di iniziazione, nel passaggio fisico e simbolico nell’età adulta, nel momento delle scelte di coscienza, dei bivi e delle sliding doors che li porteranno a plasmare individui apparentemente privi di paure solo agli occhi dei bambini.

Dall’altra parte i Perdenti, ormai adulti, rappresentano proprio questo passaggio, che per loro è rimasto in sospeso. Hanno costruito le loro vite cercando di fare come gli altri cresciuti a Derry, dimenticando il bello e il brutto dell’essere bambini. La paura, per loro, è il motore del risveglio dall’oblio. In una lotta contro il tempo per fermare il mostro prima che sia abbastanza nutrito da essere invincibile, prima di dover rimandare lo scontro finale ad altri 27 anni dopo, infiacchiti dall’età avanzata, gli amici d’infanzia dovranno sfruttare proprio la paura per riportare indietro l’orologio biologico interiore. Ricordare il rimosso per riscoprire un bambino lasciato in letargo è un imperativo da cui dipendono le sorti di ognuno. Nessuno dei Perdenti ha avuto figli. Per caso? Per scelta? O piuttosto per un inconscio timore di commettere un atto di egoismo nel dare alla luce – in pasto alla luce – “un figlio in un mondo come questo” – quante volte avete sentito anche voi ultimamente la gente ripetere come un mantra una frase simile? – eppure hanno scelto di mettere un punto all’abominio perpetrato nella loro città natale.

Una Derry che somiglia terribilmente alla cittadina di Bangor, nel Maine, dove un giovane Stephen King ha scritto gran parte del romanzo ispirato da una fiaba e dalla realtà che, come al solito, sa essere più crudele della fantasia.

Mi riferisco ad un serial killer vestito da clown di cui avevo un vago ricordo… un rimosso di chissà quando a cui magari risale la mia poca simpatia verso i pagliacci. Magari grazie proprio alla nuova attenzione mediatica verso It e Joker, che aumentano la coulrofobia di tutti, non ci è voluto molto a trovarlo, e su wikipedia si può leggere un resoconto dettagliato dei suoi crimini. Si tratta di John Wayne Gacy che fu soprannominato Killer Clown per aver rapito, torturato, sodomizzato e ucciso 33 vittime, tutte adolescenti e di sesso maschile, 28 delle quali seppellite sotto la sua abitazione o ammassati in cantina, dal 1972 fino alla sua cattura avvenuta nel 1978, in seguito a un errore nell’occultamento della sua ultima vittima. Il nome con cui è diventato noto deriva dal fatto di aver intrattenuto i bambini durante alcune feste con costume e trucco da clown facendosi chiamare Pogo il Clown. Pochi sospettavano che fosse segretamente bisessuale, perché era sposato; inoltre era un tipo socievole e pareva quindi insospettabile agli occhi dei concittadini. Alla conclusione del processo venne condannato a morte e giustiziato con l’iniezione letale nel 1994.

Le perizie psichiatriche effettuate su di lui dimostrarono (come per molti serial killer “organizzati”) una notevole intelligenza; all’esame dei periti risultarono vari disturbi della personalità (disturbo istrionico di personalità, disturbo narcisistico, disturbo antisociale) correlati con il sadismo e combinati con l’omofobia interiorizzata. Alla sua morte lasciò un discreto numero di disegni raffiguranti pagliacci ora parte di collezioni private. La vicenda e gli omicidi di Gacy contribuirono ad alimentare la paura del “pagliaccio malefico” nell’immaginario popolare.

L’aneddoto legato al nucleo della storia, invece, è raccontato spesso dallo stesso King. Pare che una sera del 1978, proprio l’anno in cui fu catturato Killer Clown, King uscì a piedi per andare da solo a ritirare la macchina dall’officina. Lui e la sua famiglia in quel periodo vivevano a Boulder, in Colorado. Per raggiungere il meccanico dovette passare su un vecchio ponte di legno, con una strana forma a gobba e fu così che gli ritornò in mente una favola norvegese, I tre capretti furbetti (Three BILLY goats gruff ), in cui tre capre dovevano attraversare un ponte che un troll affamato aveva eletto a sua dimora. King decise di trapiantare la struttura e parte dello scenario della fiaba in un contesto di vita reale, ambientando la storia in un luogo che gli ricordasse la sua infanzia: Bangor, nel Maine, come è stato già detto, che diventa Derry, ma che rappresenta per antonomasia tutte quelle cittadine, quei paesi dove possono accadere le cose più terribili, tanto tutti si fanno i fatti loro e nessuno ha visto e sentito niente.

«Può un’intera città essere posseduta?».

Della fiaba sono presenti archetipi e funzioni, compresi i poteri magici dell’antagonista contrastati da quelli dell’eroe e dei suoi amici: coraggio, fantasia creativa, fede in se stessi maturati in un vogleriano viaggio dell’eroe che è prima di tutto interiore. Il bambino interiore che deve rimanere in noi anche crescendo, perché possiamo vivere apprezzando ciò che abbiamo e lasciando il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Non è un caso se nella Clubhouse dei Perdenti è presente il poster di Lost boys, horror vampiresco che rivisita Peter Pan.

«Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste.» [dalla dedica del romanzo]

Questo ci riporta a quella filosofia antica di cui parlavamo all’inizio. Una vita attiva fatta di curiosità, approfondimento e spirito critico porta ad assomigliare a degli eroi moderni. Una vita meramente contemplativa porta solo ad essere schiavi delle influenze di qualcun altro, che non esiterà a distruggere chi non gli è più utile. Nessuno vuol farsi divorare dai desideri altrui, quindi non diamogli questo potere. Questo insegna l’It di Stephen King, questo insegna l’It di Muschietti. La morale della fiaba!

«Io ho vissuto sempre nella paura: paura di quello che sarebbe venuto dopo, paura di quello che mi lasciavo alle spalle. Voi non fatelo. Siate chi volete essere. Con orgoglio. E se trovate qualcuno che vale la pena di tenersi stretto, non lasciatelo mai e poi mai andare. Seguite il vostro sentiero. Dovunque vi porti. Pensate a questa lettera come a una promessa. Una promessa che vi chiedo di fare. A me. L’uno all’altro. Un giuramento. Vedete la cosa bella di essere un perdente è che non hai niente da perdere. Perciò… siate sinceri. Siate coraggiosi. Siate forti. Credete… E non dimenticate mai. Noi siamo i perdenti e lo saremo sempre.»

Diventa eroe chi è in grado di superare le proprie limitazioni personali ed ambientali. L’Eroe simboleggia quell’immagine divina, creativa e redentrice che è nascosta in ognuno di noi e che attende solo di essere trovata e riportata in vita. Come nei miti e nelle fiabe popolari, in It si riflettono quei meccanismi junghiani della mente umana e si eleva, quindi, come loro, a rappresentare una sorta di moderna mappa della psiche, valida dal punto di vista psicologico e realistica dal punto di vista emotivo.

Interpretando la Mangiatrice di Mondi/It come un Mutaforma, gli si può pertanto attribuirle la funzione di catalizzatore del cambiamento, di simbolo dell’impulso psicologico alla trasformazione. Nell’affrontare un Mutaforma l’Eroe viene profondamente scosso e turbato, costretto a mutare la propria opinione sul sesso opposto o ad affrontare parti nascoste di se stesso, immagini e idee sulla sessualità e sui rapporti con gli altri. La funzione del Mutaforma è dunque quella di seminare il dubbio, creare spunti per una profonda riflessione. Questa interpretazione starebbe alla base della scena di sesso scritta da King e tanto bersagliata dalla critica, trattata sempre con l’autoironia che lo contraddistingue. E anche questo, nel suo carnascialesco cameo da negoziante/rigattiere che critica il protagonista scrittore, risulta ben chiaro:

Bill [notando un suo libro sulla cassa]: Vuole che glielo autografi?

Negoziante (Stephen King): Nah. Non mi è piaciuto il finale!

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

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Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

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«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

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In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

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Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

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«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

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«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

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Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

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Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

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