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It: Capitolo due, di Andy Muschietti

27 anni dopo il loro scontro con la terrificante creatura chiamata It, il Club dei Perdenti è cresciuto e ognuno bada ai fatti suoi molto lontano da Derry. Solo Mike [Isaiah Mustafa: Shadowhunters, Crush] è rimasto in quella città maledetta come bibliotecario, così, quando le misteriose sparizioni di bambini e gli efferati omicidi ricominciano chiama i suoi vecchi amici per radunarsi, come promesso, per sconfiggere definitivamente il mostro.

Prima di tutto, però, Bill [James McAvoy: Split, X-Men: Apocalypse], Stan [Andy Bean: Swamp Thing, The Divergent Series: Allegiant], Bev [Jessica Chastain: Interstellar, Crimson Peak], Ritchie [Bill Hader: Saturday Night Live, Tropic thunder], Eddie [James Ransone: Captive state, Sinister 2], Ben [Jay Ryan: Beauty and the Beast] dovranno affrontare i loro “mostri”.

«Per ventisette anni… vi ho sognato. Vi ho bramato. Oh, mi siete mancati. …aspettando questo, preciso, momento! È tempo di galleggiare!»

It è un romanzo dalla terrificante magnificenza, capace di trattare temi come razzismo, omofobia,  narcisismo, mobbing, violenza e suscitare riflessioni sulla vita e sul nostro personale concetto di realtà, che va al di là delle verità superficiali che sfioriamo tutti i giorni senza scavare a fondo. Sarebbe riduttivo se si trattasse solo dell’eterna lotta tra Bene e Male: King disegna personaggi che devono scegliere tra vita attiva e vita contemplativa. Chi sfiderebbe un mostro dotato di poteri capaci di governare le menti in modo da sfruttarne fantasie e paure a proprio vantaggio? senza un aiuto altrettanto sovrumano, come potrebbero riuscire a fermarlo in maniera definitiva? Non c’è bisogno di andare a scomodare Platone, Aristotele o Hannah Arendt per capire che il messaggio sotteso al testo è di avere uno spirito umanistico-filantropico, un amore fraterno, che spinga a scendere in campo anche in sfide che sembrano invincibili ma anche distanti dalla nostra sfera d’influenza umana. Lavorare, operare e agire sono attività connesse ai presupposti generali dell’esistenza umana e radicate nella natalità in quanto hanno il compito di fornire e preservare il mondo per i posteri. Ed è questa la missione che si sono prefissati i Perdenti: lottare e chiudere il conto per non lasciare ad altri l’incombenza, per non dover diventare come gli altri adulti di Derry, inconsapevoli o indifferenti all’orrore che la città stessa rappresenta.

«Prima dell’universo esistevano solo due cose. Una era It e l’altra la Tartaruga. It era arrivato sulla Terra molto tempo dopo che la Tartaruga si era ritirata nel suo guscio, e lì aveva scoperto una facoltà immaginifica del tutto nuova, quasi straordinaria. Le capacità di questa immaginazione rendevano il cibo molto nutriente. I suoi denti straziavano carni paralizzate da esotici terrori e paure voluttuose: esseri che sognavano di mostri notturni e sabbie mobili; contro la loro stessa volontà, si affacciavano su baratri senza fondi.

Grazie a quel cibo nutriente It conduceva la sua esistenza in un semplice ciclo di veglia per mangiare e sonno per sognare. Aveva creato un luogo a sua immagine e lo rimirava con orgoglio dai pozzi neri che aveva per occhi. Derry era il suo mattatoio, la popolazione di Derry erano le sue greggi.

Così era stato.

Poi… quei bambini.

Un fatto nuovo. Per la prima volta da sempre.»

Pur ringraziando sentitamente Muschietti per la sua aderenza scrupolosa alla maggior parte delle vicende narrate dal Maestro, il risultato finale, facendo una media matematica fra il meritato successo del primo capitolo e il passabile secondo, è la confermata consapevolezza che il romanzo It vada trasposto in una serie TV.

La pantagruelica mole di materiale ben si presta ad una serializzazione: ogni caso irrisolto di sparizione di bambini o di resti di cadaveri ritrovati potrebbe benissimo essere la materia di un episodio o di più, tutti i personaggi potrebbero avere maggior respiro e anche le tematiche più forti troverebbero la loro naturale esposizione senza incorrere nella censura preventiva per salvaguardare i guadagni.

It: capitolo due pecca, infatti, per due principali motivazioni:

  • se non dai modo e tempo allo spettatore di approfondire di nuovo i personaggi principali nelle loro vite da adulti ottieni lo stesso risultato dell’intervento della polizia nelle indagini dei film secondo il parere di Alfred Hitchcock: una noia mortale! Inoltre, non ti affezioni agli adulti come ai bambini, quindi rimani distaccato e che cosa può ottenere di buono un film che perde il coinvolgimento del pubblico?
  • se hai confezionato una quantità di girato estremamente nutrita già dal primo capitolo, pur tagliando notevolmente, è logico dover rinunciare a qualcosa; quello che non è assolutamente accettabile è che si rinunci ad approfondire trame lasciate in sospeso nel primo capitolo; ad esempio, l’origine dell’aspetto umano preferito da It nelle sue battute di caccia, quel Pennywise che giustifica e alimenta la nostra coulrofobia: era stata vagamente accennata come legata alla tragedia di Pasqua alle Ferriere Kitchener e al clown ballerino che negli stessi anni lavorava nel circo, ma non è stata più portata avanti – comprensibile perché meritava quasi un capitolo a parte, certo, e così dura già come un kolossal d’altri tempi, ma un binario morto ingiustificato dal punto di vista diegetico è qualcosa che va contro ogni principio di narrazione.
  • la genesi del Male sfiora invece il ridicolo: la “Divoratrice di mondi” avrebbe il suo antagonista naturale in Maturin, una sorta di tartaruga gigante, altrettanto ancestrale, ma avendola completamente epurata nella trasposizione e avendo tolto la sua guida telepatica ai Perdenti, il rito di Chüd, che è la chiave di volta dello scontro finale, diventa così una sorta di sit-in di protesta non violenta che nemmeno Gandhi penserebbe di fare contro una creatura mangiabambini. La soluzione alternativa è operare degli atti di bullismo per atterrire un mostro che si nutre di paura, sfruttandone a proprio vantaggio i poteri. Geniale su carta ma insoddisfacente sullo schermo se non è accompagnata da una conclusione spettacolare almeno quanto le uccisioni che ha inflitto alle sue vittime. In questo stesso contesto risulta enigmatica la frase di It «Guardatevi… siete grandi. Ne è passato di tempo!» che lascia spazio a dissertazioni che confermano la stretta connessione dell’It come romanzo di formazione con i riti di iniziazione e passaggio dall’adolescenza all’età adulta che sono alla base della nascita della fiaba popolare.

La struttura letteraria non può essere riportata perfettamente in un racconto filmico, ovviamente. Basti pensare alla parte in forma di diario o all’inserimento di un haiku, componimento poetico primitivo, forse addirittura preistorico, che ben si abbina alla cosmogonia quasi lovecraftiana trattata:

Brace d’inverno,

i capelli tuoi,

dove il mio cuore brucia.

In questo secondo e ultimo capitolo il regista ha apportato sostanziali modifiche attraverso la sceneggiatura in parte discutibile di Gary Dauberman [Swamp Thing, Annabelle 2: Creation, Annabelle 3]. Si poteva fare molto di più. Guardando prima il lato positivo, si noterà che Pennywise è meno presente e quindi si possono vedere le diverse incarnazioni del Male. Per quanto le gigionerie macabre di Bill Skarsgård [Deadpool 2, Atomica bionda, Castle Rock] abbiano retto da sole tutto il primo capitolo, con questa mossa è possibile finalmente far strisciare nel pubblico il sospetto che il mostro sia qualcosa di ben più grande e potente di un pagliaccio mangiabambini da fiaba popolare.  

Nelle illustrazioni del concept artist Vincent Proce [La forma dell’acqua – The shape of water, Scary stories to tell in the dark, Qualcuno salvi il Natale] si può ammirare tutto il lavoro dietro le quinte per la creazione di tutto ciò che concerne la CGI. Il regista Muschietti si lascia addirittura prendere la mano in questa fase realizzativa e confeziona con Proce una meravigliosa citazione de La Cosa di John Carpenter.

Nonostante appaia in numerose forme perlopiù attinte dal repertorio d’immaginazione delle specifiche vittime e da ciò che più le terrorizza, It ha, infatti, una certa predilezione per la forma di Pennywise, alter ego di Bob Gray, un clown sadico e perverso descritto come molto simile a un incrocio tra Bozo il clown e Clarabell, con due ciuffi di capelli arancioni a punta, vestito con un largo costume di seta color argento, una cravatta blu, un colletto increspato e inquietanti pompon arancioni che sono stati sfruttati alla perfezione dal costume designer Luis Sequeira [Carrie, La madre].

Io sono la Mangiatrice di Mondi!

Dato che il flusso analitico ci ha portato praticamente a presentare già quasi tutto il cast, approfitto per “nominare” – è proprio il caso di utilizzare questo termine, data la sua presenza costante negli ultimi anni di Academy Awards – il maestro Benjamin Wallfisch [Dunkirk, Blade Runner 2049, Il diritto di contare, 12 anni schiavo, Il piccolo principe] che compone una nutrita e avvolgente musica che, praticamente, accompagna lo spettatore senza lasciarlo mai da solo nel silenzio spettrale della fotografia di Checco Varese [Pacific rim]: un altro fiore all’occhiello, senza virtuosismi, ma sempre funzionale alla concretezza materica delle mostruose fantasie, all’atmosfera asfittica e al senso di oppressione diffusa e continua del film tanto nelle tenebre del sottosuolo [come aveva fatto per The 33] quanto sotto la luce “rassicurante” del sole [vedi Miracoli dal cielo].

La luce, nelle opere di Stephen King, non rappresenta quasi mai qualcosa di buono. Siamo abituati a sentir raccontare come rassicurante “quella luce in fondo al tunnel”. La speranza, giusto? Ecco, nell’idea del Maestro la luce che nasce per contrasto dalle tenebre diventa il tradimento per eccellenza delle aspettative. Lucifero non significa, tra l’altro, letteralmente “portatore di luce”? Così l’abituale lettore di King, ormai, quando “vede” una luce in fondo ad una galleria buia come minimo si aspetta un treno che gli viene (in)contro!

Nel caso di It ci troviamo di fronte ad una luce fatta di tre elementi – una e trina – che non si può non interpretare attraverso un simbolismo religioso.

Una luce che ammalia, che fa leva sulle coscienze più suggestionabili e le rende schiave delle loro angosce, paralizzate dalle loro paure. Fino a nutrirsi della loro energia vitale. Fino a nutrirsi di loro mentre sono inermi burattini senza fili.

«Venite a giocare, Perdenti! […] Riesco a percepire l’odore della vostra paura!».

La paura diventa motore di tutto.

Da una parte la creatura ancestrale che per natura deve nutrirsi – fin qui tutto sommato niente di immorale – ma che lo fa di bambini, “più teneri e succulenti” direbbero i Grimm, perché sono privi di malizia, di esperienza, perché in una parola hanno un’innocenza pura che perderanno solo nei pochi istanti prima di essere dilaniati o che perderanno solo diventando adulti, come accadeva nei riti di iniziazione, nel passaggio fisico e simbolico nell’età adulta, nel momento delle scelte di coscienza, dei bivi e delle sliding doors che li porteranno a plasmare individui apparentemente privi di paure solo agli occhi dei bambini.

Dall’altra parte i Perdenti, ormai adulti, rappresentano proprio questo passaggio, che per loro è rimasto in sospeso. Hanno costruito le loro vite cercando di fare come gli altri cresciuti a Derry, dimenticando il bello e il brutto dell’essere bambini. La paura, per loro, è il motore del risveglio dall’oblio. In una lotta contro il tempo per fermare il mostro prima che sia abbastanza nutrito da essere invincibile, prima di dover rimandare lo scontro finale ad altri 27 anni dopo, infiacchiti dall’età avanzata, gli amici d’infanzia dovranno sfruttare proprio la paura per riportare indietro l’orologio biologico interiore. Ricordare il rimosso per riscoprire un bambino lasciato in letargo è un imperativo da cui dipendono le sorti di ognuno. Nessuno dei Perdenti ha avuto figli. Per caso? Per scelta? O piuttosto per un inconscio timore di commettere un atto di egoismo nel dare alla luce – in pasto alla luce – “un figlio in un mondo come questo” – quante volte avete sentito anche voi ultimamente la gente ripetere come un mantra una frase simile? – eppure hanno scelto di mettere un punto all’abominio perpetrato nella loro città natale.

Una Derry che somiglia terribilmente alla cittadina di Bangor, nel Maine, dove un giovane Stephen King ha scritto gran parte del romanzo ispirato da una fiaba e dalla realtà che, come al solito, sa essere più crudele della fantasia.

Mi riferisco ad un serial killer vestito da clown di cui avevo un vago ricordo… un rimosso di chissà quando a cui magari risale la mia poca simpatia verso i pagliacci. Magari grazie proprio alla nuova attenzione mediatica verso It e Joker, che aumentano la coulrofobia di tutti, non ci è voluto molto a trovarlo, e su wikipedia si può leggere un resoconto dettagliato dei suoi crimini. Si tratta di John Wayne Gacy che fu soprannominato Killer Clown per aver rapito, torturato, sodomizzato e ucciso 33 vittime, tutte adolescenti e di sesso maschile, 28 delle quali seppellite sotto la sua abitazione o ammassati in cantina, dal 1972 fino alla sua cattura avvenuta nel 1978, in seguito a un errore nell’occultamento della sua ultima vittima. Il nome con cui è diventato noto deriva dal fatto di aver intrattenuto i bambini durante alcune feste con costume e trucco da clown facendosi chiamare Pogo il Clown. Pochi sospettavano che fosse segretamente bisessuale, perché era sposato; inoltre era un tipo socievole e pareva quindi insospettabile agli occhi dei concittadini. Alla conclusione del processo venne condannato a morte e giustiziato con l’iniezione letale nel 1994.

Le perizie psichiatriche effettuate su di lui dimostrarono (come per molti serial killer “organizzati”) una notevole intelligenza; all’esame dei periti risultarono vari disturbi della personalità (disturbo istrionico di personalità, disturbo narcisistico, disturbo antisociale) correlati con il sadismo e combinati con l’omofobia interiorizzata. Alla sua morte lasciò un discreto numero di disegni raffiguranti pagliacci ora parte di collezioni private. La vicenda e gli omicidi di Gacy contribuirono ad alimentare la paura del “pagliaccio malefico” nell’immaginario popolare.

L’aneddoto legato al nucleo della storia, invece, è raccontato spesso dallo stesso King. Pare che una sera del 1978, proprio l’anno in cui fu catturato Killer Clown, King uscì a piedi per andare da solo a ritirare la macchina dall’officina. Lui e la sua famiglia in quel periodo vivevano a Boulder, in Colorado. Per raggiungere il meccanico dovette passare su un vecchio ponte di legno, con una strana forma a gobba e fu così che gli ritornò in mente una favola norvegese, I tre capretti furbetti (Three BILLY goats gruff ), in cui tre capre dovevano attraversare un ponte che un troll affamato aveva eletto a sua dimora. King decise di trapiantare la struttura e parte dello scenario della fiaba in un contesto di vita reale, ambientando la storia in un luogo che gli ricordasse la sua infanzia: Bangor, nel Maine, come è stato già detto, che diventa Derry, ma che rappresenta per antonomasia tutte quelle cittadine, quei paesi dove possono accadere le cose più terribili, tanto tutti si fanno i fatti loro e nessuno ha visto e sentito niente.

«Può un’intera città essere posseduta?».

Della fiaba sono presenti archetipi e funzioni, compresi i poteri magici dell’antagonista contrastati da quelli dell’eroe e dei suoi amici: coraggio, fantasia creativa, fede in se stessi maturati in un vogleriano viaggio dell’eroe che è prima di tutto interiore. Il bambino interiore che deve rimanere in noi anche crescendo, perché possiamo vivere apprezzando ciò che abbiamo e lasciando il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Non è un caso se nella Clubhouse dei Perdenti è presente il poster di Lost boys, horror vampiresco che rivisita Peter Pan.

«Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste.» [dalla dedica del romanzo]

Questo ci riporta a quella filosofia antica di cui parlavamo all’inizio. Una vita attiva fatta di curiosità, approfondimento e spirito critico porta ad assomigliare a degli eroi moderni. Una vita meramente contemplativa porta solo ad essere schiavi delle influenze di qualcun altro, che non esiterà a distruggere chi non gli è più utile. Nessuno vuol farsi divorare dai desideri altrui, quindi non diamogli questo potere. Questo insegna l’It di Stephen King, questo insegna l’It di Muschietti. La morale della fiaba!

«Io ho vissuto sempre nella paura: paura di quello che sarebbe venuto dopo, paura di quello che mi lasciavo alle spalle. Voi non fatelo. Siate chi volete essere. Con orgoglio. E se trovate qualcuno che vale la pena di tenersi stretto, non lasciatelo mai e poi mai andare. Seguite il vostro sentiero. Dovunque vi porti. Pensate a questa lettera come a una promessa. Una promessa che vi chiedo di fare. A me. L’uno all’altro. Un giuramento. Vedete la cosa bella di essere un perdente è che non hai niente da perdere. Perciò… siate sinceri. Siate coraggiosi. Siate forti. Credete… E non dimenticate mai. Noi siamo i perdenti e lo saremo sempre.»

Diventa eroe chi è in grado di superare le proprie limitazioni personali ed ambientali. L’Eroe simboleggia quell’immagine divina, creativa e redentrice che è nascosta in ognuno di noi e che attende solo di essere trovata e riportata in vita. Come nei miti e nelle fiabe popolari, in It si riflettono quei meccanismi junghiani della mente umana e si eleva, quindi, come loro, a rappresentare una sorta di moderna mappa della psiche, valida dal punto di vista psicologico e realistica dal punto di vista emotivo.

Interpretando la Mangiatrice di Mondi/It come un Mutaforma, gli si può pertanto attribuirle la funzione di catalizzatore del cambiamento, di simbolo dell’impulso psicologico alla trasformazione. Nell’affrontare un Mutaforma l’Eroe viene profondamente scosso e turbato, costretto a mutare la propria opinione sul sesso opposto o ad affrontare parti nascoste di se stesso, immagini e idee sulla sessualità e sui rapporti con gli altri. La funzione del Mutaforma è dunque quella di seminare il dubbio, creare spunti per una profonda riflessione. Questa interpretazione starebbe alla base della scena di sesso scritta da King e tanto bersagliata dalla critica, trattata sempre con l’autoironia che lo contraddistingue. E anche questo, nel suo carnascialesco cameo da negoziante/rigattiere che critica il protagonista scrittore, risulta ben chiaro:

Bill [notando un suo libro sulla cassa]: Vuole che glielo autografi?

Negoziante (Stephen King): Nah. Non mi è piaciuto il finale!

Thirteen, di Marnie Dickens

Una porta rossa che si apre. Si affaccia una ragazza a piedi nudi. È schiaffeggiata dalla luce del giorno. Il vento le accarezza i capelli. Indossa un vestito sporco, datato. Scende i gradini con passo leggero, quasi timoroso. Calpesta un fiore. È in quel momento che il suo sguardo cambia. Quell’aria di tranquillità, di discrezione è sostituita da una consapevolezza, come se si fosse resa conto che quel fiore non è altri che lei stessa. È qui che ha inizio la sua corsa, la sua fuga.

È quello spiraglio tra la porta rossa e il giardino a introdurci in Thirteen, miniserie iniziata il 28 febbraio 2016 sul canale BBC Three, creata e scritta da Marnie Dickens. Thirteen, tredici, è un numero che si ripete spesso nella storia. Sono gli anni di Ivy Moxam (Jodie Comer) quando è rapita, ma corrispondono anche alla durata della sua prigionia e convivenza con il suo sequestratore.

La serie di cinque episodi inizia quando la ragazza, ormai ventiseienne, riesce a liberarsi, chiede aiuto ed è ritrovata dalla polizia. Non le è risparmiato nulla: il controllo medico e psicologico, l’interrogatorio, il prelievo del DNA per confermare l’identità, ma anche la telefonata alla famiglia e l’abbraccio sognato in tutti gli anni di prigionia, le lacrime.

La storia così imbocca due strade parallele. Da un lato l’indagine sul rapimento che fa assumere alla serie un tono metodico da serial poliziesco, thriller. Dall’altro il ritorno di Ivy a casa, dalla sua famiglia e dagli affetti, fa virare l’atmosfera su un’intensità drammatica, in cui le emozioni sono le protagoniste. Le due strade però non saranno così divise.

Thirteen

Alcuni elementi attraversano questi confini, varcano il ciglio di una strada e approdano nell’altra, come poliziotti troppo empatici o una freddezza imperscrutabile della ragazza rapita. Quest’altalena di punti di vista, di variazioni, è il punto forte della miniserie. Gli spettatori, ricostruendo a poco a poco il puzzle della lunga prigionia, si ritroveranno a mirare un quadro dalle molteplici sfumature e a provare sentimenti contrastanti verso la protagonista. Non le crederanno, proveranno fastidio per le sue bugie, ma anche affetto, commozione, rideranno dei suoi buffi approcci alle moderne tecnologie. Tutto questo per capire la confusione, l’ingenuità e l’insicurezza di una ragazza che per tredici anni ha vissuto in una realtà parallela, statica, lontana dagli affetti. Una ventiseienne che però agisce e pensa come un’adolescente, catapultata improvvisamente nel vortice veloce della vita reale.

Sono analizzati anche i comportamenti delle persone intorno a Ivy. Non esiste un manuale da poter utilizzare per aiutare una figlia, una sorella o un’amica scappata da un sequestratore. La loro vita, nei tredici anni di assenza, è andata avanti, anche se con un lembo di malinconia e tristezza a velarne il cuore. Quando si affrontano argomenti delicati, o meglio ci si rapporta con persone fragili, basta poco per sbagliare. Ivy dovrà affrontare nuovamente la solitudine, diversa da quella vissuta finora, ma non meno dolorosa.

Thirteen è un continuo contrasto che porterà a vivere gran parte delle emozioni possibili. Questo grazie anche a un’ottima recitazione di Jodie Comer, brava a interpretare un personaggio dalle molteplici sfaccettature.

Outcast: dal fumetto alla serie TV

Outcast. Reietto. Emarginato. Così è definito chi è allontanato dalla società. Ma vi può essere un’anomalia in tale meccanismo. Un isolamento volontario più che imposto. È la conseguenza di quando non si hanno più le forze per reagire, per controbattere ai giudizi altrui ma specialmente a quelli verso se stessi. Si decide allora di allontanarsi, di chiudere ogni contatto con il mondo esterno. Solo così, forse, i tormenti interni potranno calmarsi. Ma vi è una naturale inclinazione (anche istinto o predisposizione) dell’uomo alla propria sopravvivenza, a risalire dal baratro in cui si è caduti. Il primo passo della risalita è uscire dall’isolamento e affrontare il passato, gli sbagli compiuti, ma specialmente i propri demoni. O meglio possessioni demoniache.

Quest’ultime parole sono le più appropriate per introdurre la nuova serie tv Outcast, prima produzione originale targata FOX International Studios, ideata da Robert Kirkman, già produttore del successo mondiale The Walking Dead. Come quest’ultimo, anche Outcast è un adattamento dell’omonimo fumetto scritto da Kirkman. Ma i due lavori si distinguono nettamente per i mondi che descrivono. Se in The Walking Dead l’umanità deve affrontare il pericolo zombie, in Outcast è presente una situazione ancora più horror e indecifrabile, sfondo della vita del protagonista Kyle Barnes (Patrick Fugit).

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La serie è ambientata nell’immaginaria cittadina di Rome, in Virginia, turbata da un incremento di casi di persone colpite da possessioni demoniache. Eventi che hanno turbato e coinvolto Kyle fin da bambino, e che l’hanno portato a isolarsi, ad arrendersi, consapevole del fatto che ogni persona a lui vicina sia vittima dell’oscurità. La storia di un bambino posseduto, l’affetto della sorellastra Megan (Wrenn Schmidt) e l’aiuto del Reverendo Anderson (Philip Glenister), saranno però gli stimoli per ritornare a reagire e cercare di capire finalmente perché lui e l’oscurità siano così strettamente intrecciati.
Come The Walking Dead, anche Outcast vuole essere la descrizione del viaggio interiore che ogni persona deve compiere per affrontare la sua vera natura, i suoi istinti e le sue emozioni. Il genio di Robert Kirkman sta proprio nell’estremizzare e velocizzare questo percorso, mettendo i suoi protagonisti di fronte a eventi al di fuori dell’umana comprensione.

La premiere europea per la stampa di Outcast si è svolta il 19 aprile a Roma, ovvio riferimento alla cittadina Rome della serie, alla presenza dei produttori esecutivi Chris Black e Sharon Tal Yguado e del cast: Patrick Fugit (Kyle Barnes), Philip Glenister (Reverendo Anderson), Wrenn Schmidt (Megan Holter), Reg E.Cathey (Giles) e Kate Lys Sheil (Allison Barnes). La serie vedrà il suo debutto sugli schermi FOX il 3 giugno prossimo.

Festival di Roma 2014 – The Knick, di Steven Soderberg

Follia e metodo: questo gli strumenti con cui il dottor Thackery opera i suoi pazienti, scavando nei loro corpi inermi per indagare i meccanismi delicatissimi che li muovono e sperimentando tecniche inimmaginabili per il panorama scientifico dei primi anni del Novecento, in cui si opera a mani nude tastando il ritmo del cuore con le dita. La follia di Thackery sta nel rischio che corre ogni volta che sperimenta le sue trovate sul tavolo operatorio, molti pazienti muoiono sotto la sua mano, ma ogni perdita più che una sconfitta è un passo avanti nella conoscenza del corpo umano e un sacrificio che in futuro potrebbe valere migliaia di vite. Il metodo sta nella sua applicazione maniacale allo studio e alla continua ricerca e invenzione di congegni funzionali a facilitare i medici nelle operazioni, che si nutre del sonno, e lo tiene sveglio con l’aiuto di cospicue dosi di cocaina. Come un dr House ante litteram, il genio di Thackery non può fare a meno della droga, che inietta in ogni anfratto del suo corpo per trovare le energie e il coraggio per essere il direttore del reparto di chirurgia del Knick, l’ospedale più acclamato di New York, e di portare sulle spalle il peso di centinaia di vite sacrificate al dio della scienza.  Tutta la sua vita gira intorno alla droga, ne è intrisa fino al midollo, e non risparmia nessun momento della sua giornata, dalle sedute nel teatro operatorio ai torbidi amplessi consumati nel bordello locale.

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Thackery è un eroe imperfetto, un professionista illuminato che recita alla perfezione la sua parte di scienziato in pubblico, per poi crollare miseramente quando cala il sipario sullo spettacolo chirurgico. Egocentrico e interamente proiettato verso il progresso scientifico, non riesce a lasciarsi andare alle passioni, considerando i rapporti umani un intralcio al suo lavoro, e lascia ai colleghi più ingenui il compito di correre dietro alle gonne delle infermiere, mentre lui si trastulla con le fiale di cocaina e si lascia stordire dall’oppio. Ma la sua personalità predominante concede ben poco spazio di manovra agli altri personaggi, che girano tutti intorno a questa figura ambigua alla costante ricerca di un cenno di approvazione, e del privilegio di entrare nella cerchia dei chirurghi eletti a cui e concesso operare su un suo paziente. L’esperienza e la purezza della razza sono i requisiti necessari per entrare al Knick che, nonostante le costanti sperimentazioni di cui si fregia, non riesce ad elevarsi dalle impalcature di una New York ormai multirazziale, ma ancora stagnante dal punto di vista ideologico in una stratificazione sociale che impedisce ai pazienti di colore di ricevere la stessa assistenza dei bianchi, e fa rabbrividire i pazienti bianchi al solo pensiero di essere sfiorati da un medico di colore, presumibilmente meno preparato di un loro connazionale e destinato per natura a svolgere lavori manuali. Tackery e tutta la sua equipe non fanno eccezione e seguono alla lettera questa corrente di pensiero, collocandosi a pennello nel contesto storico in cui si muovono, ricostruito in ogni minimo dettaglio dalla mano esperta di Soderbergh, che fotografa quest’epoca di grandi rivoluzioni senza risparmiare i dettagli più indigesti.

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Soderberg non fa sconti, e mette il realismo dell’immagine al di sopra di tutto per entrare a fondo nella realtà cruda del Knick e di tutti i medici che hanno guadagnato terreno nel campo delle scoperte scientifiche lentamente e a un prezzo altissimo. Il tavolo operatorio è sempre al centro dell’immagine, facendo da sfondo alle patologie più disparate, curate con metodi che oggi considereremmo barbari, ma che per l’epoca erano rivoluzionari. La camera indugia sui particolari, segue il fluire del sangue e non prova disgusto, mostrando i suoi personaggi nella cruda quotidianità di un lavoro in cui lo spazio tra la vita e la morte si colloca sul filo di un bisturi. Al Knick non esistono il bene e il male assoluto e ognuno cerca di tenersi in equilibrio tra queste due forze, osando e sfidando gli dei nella speranza di rimettere in moto un cuore ormai spento. Ma fino che punto è giusto spingersi, sperimentando l’impossibile e utilizzando i pazienti come cavie, per un bene superiore? Soderbergh non esprime giudizi e lascia al buonismo dell’uomo contemporaneo il compito di rispondere, senza mai smettere di ricordargli, con il suo fascino perverso per il tavolo operatorio, che la scienza che ritiene infallibile non è altro che il frutto della mente umana e pertanto intrinsecamente votata all’errore.

Festival di Roma 2014 – Conversazione con Clive Owen su The Knick

L’attore britannico Clive Owen ha presentato al Festival Internazionale del Film di Roma la serie tv di 10 epsodi, The Knick, diretta dal premio Oscar Steven Soderbergh, che sarà trasmessa a partire dall’11 novembre su Sky Atlantic.

Dopo una lunga carriera cinematografica, come è stato il passaggio alla televisione?

Le serie tv in alcuni casi sono più interessanti dei lungometraggi, specialmente se sono dirette da ottimi registi. C’è più tempo per esplorare i personaggi, si può essere più liberi di osare, e correre rischi, perché non c’è l’obbligo di restare compressi nelle due ore di film o nei vincoli della produzione.  Di solito evito di ripetermi e non mi piace vestire lo stesso ruolo per troppo tempo, per questo non ho mai recitato in una serie, ma quando ho letto questa sceneggiatura sono rimasto molto impressionato dalla scrittura perfetta.

Il chirurgo John Thackery, protagonista assoluto di The Knick, è un personaggio arrogante e brillante allo stesso tempo, ma di sicuro non risulta immediatamente simpatico. È stata una sfida renderlo gradevole?
Di sicuro il personaggio non è simpatico, ma non è mia abitudine scegliere un ruolo in base alla simpatia del personaggio. Per prima cosa bisogna conoscerlo, studiarne la psicologia e comprendere cosa muove le sue azioni. Questo medico è un personaggio estremamente interessante e affascinante, perché è razzista, fa uso di droghe, ma allo stesso tempo non si ferma davanti a nulla ed è un genio nel suo campo, un pioniere. In ogni scena dovevo stare in equilibrio su un filo sottile, ma la sfida era proprio capire fino a che punto si poteva arrivare.

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I medical drama vedono spesso come protagonisti medici scontrosi, arroganti e tossici, ma anche geniali. Perché?

Le serie tv ambientate negli ospedali hanno successo perché qui la posta in gioco è alta, si tratta di vita o di morte. La tensione è sempre alta e lo spettatore si identifica facilmente con le situazioni trattate. Thackery è un personaggio molto ambiguo, un pioniere nel suo settore, ma anche una persona imperfetta che gestisce la pressione quotidiana a cui è sottoposto facendo uso costante di cocaina, che però al tempo era comunemente usata in medicina ed era frequente che i medici che ne facevano uso ne diventassero dipendenti. A mio parere è proprio questa ambiguità a rendere questo personaggio interessante, se fosse stato perfetto non lo sarebbe stato altrettanto.

La scena è molto curata e ed estremamente realistica, anche nei dettagli più cruenti. Questo ha facilitato l’immedesimazione nella New York dei primi del Novecento?

Soderbergh è stato incredibile nella cura dei dettagli, abbiamo lavorato ad un ritmo frenetico e la squadra di scenografi ha fatto un lavoro incredibile. I set erano realistici e ricchi. Quando si entrava in una stanza sembrava reale, c’era tutto, e se si apriva un cassetto spuntavano gli strumenti chirurgici dell’epoca. Inoltre, pur non essendoci il tempo per un’adeguata preparazione medica un team di esperti ci ha costantemente sottoposto le fotografie delle operazioni dell’epoca e i libretti. Dopotutto eravamo nella New York dei primi anni del Novecento ed era necessario essere il più possibile fedeli alla realtà per essere credibili.