Denis Villeneuve

Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve

Chi siamo? Da dove veniamo? Cos’è la vita? Cosa ci rende “umani”? Qual è la fonte dei nostri ricordi? Che ruolo abbiamo nella vita del mondo? Quanto conta davvero la nostra volontà? Domande esistenziali fondamentali che difficilmente uno spettatore può trovare in un film che non sia un documentario estremamente soporifero! Chi conosce e ha apprezzato la densità di tematiche, riflessioni filosofico-religiose, allegorie e l’ambientazione distopico-paranoide del capolavoro di Ridley Scott, ritroverà in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve tutto questo materiale declinato in maniera paradigmatica. Sviluppando e raffinando la trama fino ad ottenere la naturale evoluzione del precedente, il regista di Arrival e Prisoners remixa e attualizza per il nuovo target il profondo lavoro di Scott, pur mantenendo una rispettosa fedeltà allo spirito dell’originale. «Il mio obiettivo – ha confessato Villeneuve – era quello di onorare l’estetica da film noir del primo, pur dando al nuovo film una propria identità». Il connubio di noir, sci-fi e azione è riuscito alla perfezione lasciando comunque spazio alla riflessione. Per ogni domanda che trova una risposta, un’altra ne deriva che scaturisce nuovi percorsi meditativi. Da vedere e, soprattutto, rivedere per godere appieno della stratificazione delle tematiche.

Denis Villeneuve traduce divinamente la riflessione antropologica di Philip K. Dick in uno spettacolo sublime per forma e contenuto. Se Blade Runner è basato sull’archetipica figura collodiana del burattino che vuol far valere i propri diritti alla vita, in una rilettura che va ben oltre la scrittura sofisticatamente filosofica del più antico Frankenstein di Mary Shelley, per il seguito, intriso della visionarietà sentimentale di Villeneuve, bisogna scomodare in parte il complesso registro di personaggi racchiuso nei sapienti versi delle tragedie, con le loro leggendarie figure, mosse da emozioni forti e schiacciate dalla loro stessa piccolezza, dinnanzi ad un disegno di vita che l’altrui volere desidera diverso dalle proprie aspettative, lontano anni-luce dai sogni che li hanno spinti ora alle più alte vette della gloria ora sull’orlo dell’abisso senza possibilità di ritorno.

«Sognare un po’ non è sbagliato, non credi?»
«Per noi lo è»

Blade Runner 2049 ha rispettato l’universo creato da Ridley Scott e ha annodato ogni filo lasciato in sospeso dal predecessore ad una nuova ragnatela di sottotrame che ascendono a nobile rappresentazione dell’antica tendenza alla ricerca dell’identità, delle origini dell’amore nella sua forma più pura. Perché non può esserci futuro senza conoscere il passato o almeno non un futuro degno di essere vissuto senza un passato che ne giustifichi i meriti o possa correggerne i difetti.

Era il 1982 quando il Blade Runner di Ridley Scott vedeva la luce nella buia sala di un cinema. Nella Los Angeles del 2019, luogo e tempo in cui si svolgevano le vicende del film, pioveva e si respirava un’aria decadente, nonostante un’ambientazione distopica in cui la tecnologia sopperiva alle necessità quotidiane che la natura non riusciva più a soddisfare appieno. Alcuni androidi, soprannominati “replicanti” o in senso maggiormente dispregiativo “lavori in pelle” e costruiti per essere schiavi in colonie dell’extramondo, si erano ribellati e un agente speciale, Rick Deckard [Harrison Ford], doveva stanarli e terminarli. In Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, un nuovo cacciatore di replicanti, l’agente K [Ryan Gosling], ha il compito di… riportare lo spettatore laddove era stato lasciato: un origami a forma di unicorno innestava il seme del dubbio sulla natura di Deckard in un contesto in cui la ricerca della verità è diventata un labirinto di domande senza una risposta. Il labirinto permane anche nel nuovo capitolo con l’ulteriore difficoltà per l’agente K: il suo viaggio alla ricerca dei replicanti riporterà alla luce un segreto nascosto da tempo sotto un cumulo di terra morta. Un segreto che può cambiare il destino dell’intera umanità.

«L’umanità non può sopravvivere… La Terra sta morendo… i Replicanti sono il futuro della specie».

L’agente K [Ryan Gosling] non è immune alla crisi esistenziale che già aveva contagiato il cuore del collega Deckard [Harrison Ford]. Per il presunto bene dell’umanità fino a che punto ci si può spingere? Per mantenere un ordine arbitrariamente stabilito, quali crimini è lecito commettere? Vivendo in un mondo ingrigito dall’abuso tecnologico e dalla subordinazione della natura e dei sentimenti agli interessi economici e politici, camminando troppo spesso a cavallo dell’ipotetica linea che divide il Bene dal Male, il bianco dal nero, la luce dalle tenebre, i personaggi di Blade Runner 2049 devono fare i conti più che altro con la propria coscienza e quell’innata predisposizione che ci spinge a scegliere da che parte stare della Forza, per dirla come la direbbe Lucas.

Il 5 Ottobre 2017 – il 6 negli U.S.A. – è uscito nelle sale, attesissimo, Blade Runner 2049. Un sequel di un classico intramontabile, si sa, fa sempre discutere, specialmente se l’originale è da sempre considerato uno dei migliori film di fantascienza che siano mai stati prodotti. L’opinione pubblica ha accolto la notizia dividendosi come in un preparativo di guerra fra pro e contro, se non addirittura fra delusi a prescindere e rassegnati al peggio. Non delude le aspettative, invece, il film di Villeneuve, anzi gioca con esse, divertendosi a gettare arbitrariamente luci ed ombre sui personaggi, senza sciogliere definitivamente i nodi cruciali che li legano gli uni agli altri. Non è rimasto deluso nemmeno Ridley Scott – che non ha diretto ma ha prodotto la pellicola – e, consapevole delle notevoli capacità autoriali del collega, gli ha concesso la totale libertà creativa e fornito la piena disponibilità in caso di bisogno.

In 35 anni di attesa, e parafrasando goliardicamente il monologo del replicante Roy, ne abbiamo viste “cose” che sembrava dovessero scalzare di classifica uno dei migliori film di fantascienza di sempre: robot da combattimento in fiamme uscire dallo schermo grazie agli occhialini 3D, e abbiamo visto serie tv e sequel di film altisonanti balenare dal buio e spiaggiarsi davanti al monumento funebre di Ray Harryhausen. E tutti quei momenti è giusto che vadano perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di iniziare un nuovo percorso per il pubblico esigente di Blade Runner, ed è tempo di affidarsi completamente al fascino del sequel, consapevoli della competenza e del coraggio di Denis Villeneuve, un regista che sa coinvolgere oltre che intrattenere e non è nuovo nel trattamento di sceneggiature filosoficamente complesse con risvolti sentimentali nono scontati. Per giunta candidato agli Oscar® nel 2011 con La donna che canta come Miglior film straniero e nel 2017 per la Miglior regista con Arrival. Di certo non una seconda scelta!

«Cazzo! Ma sono l’unica a vedere l’alba?»

A dimostrazione del desiderio di connubio perfetto fra vecchio e nuovo che è alla base di questo ambizioso progetto, la sceneggiatura di Blade Runner 2049 è stata scritta da Michael Green, autore dei recenti successi Alien: Covenant e Logan – The Wolverine, con la partecipazione indispensabile di Hampton Fancher, cioè l’ideatore del soggetto originale del 1982. Lo stesso Fancher ha firmato le sceneggiature dei cortometraggi che hanno “scaldato” i fan nei mesi precedenti l’uscita del film. Villeneuve ha, infatti, delegato a tre cortometraggi di sviluppare alcuni eventi importanti intercorsi nel tempo filmico tra i due lungometraggi:

il primo in ordine di uscita, intitolato 2036: Nexus Dawn, è diretto da Luke Scott e presenta il carismatico nuovo guru della cybertechnology Niander Wallace, interpretato egregiamente da Jared Leto;

un secondo cortometraggio, diretto sempre da Luke Scott e intitolato 2048 Nowhere To Run, si concentra sul personaggio di Sapper Morton, interpretato da Dave Bautista;

il terzo cortometraggio, Black Out 2022, invece, è un fondamentale prequel di animazione diretto da Shinichirô Watanabe che permette di capire cosa ha accentuato il degrado nella Los Angeles distopica del film e ha permesso la riapertura della produzione di replicanti e la conseguente ascesa di Wallace, trattata nel primo cortometraggio.

Per quanto riguarda la fotografia, il regista si è avvalso di un collaboratore di cui ha già apprezzato composizione, esposizione e sensibilità cromatica in precedenti lavori come Prisoners e Sicario: si tratta del 13 volte nominato agli Oscar® Roger Deakins [Le ali della libertà, Ave, Cesare!]. Anche se non faceva parte della crew di Arrival, Deakins ricostruisce benissimo quel mood fotografico dettato dal grigio dominante. Questa base di decadente quotidianità trova netti contrasti nelle scene che si svolgono in interni e, soprattutto, nella città morta, dove il cromatismo tematico che guida tutto il film si fa più forte.  Come in un percorso iniziatico, il protagonista viaggia attraverso luoghi fortemente caratterizzati e passa dall’indaco dell’incipit al rosso dell’ultima parte con un epilogo legato al bianco della neve che, nel 2049 ha sostituito la pioggia costante che fungeva da leitmotiv nella Los Angeles del 2019. La composizione dei fotogrammi rispolvera l’omaggio a Edward Hopper dell’originale ma preferisce un vintage revival più contemporaneo con riferimenti alla pop-art e al dadaismo rispetto al citazionismo vermeeriano-fiammingo di Blade Runner. Quando, poi, cita La finestra sul cortile [Rear window] di Alfred Hitchcock è forte il desiderio di disturbare la visione del film con un applauso a scena aperta!

«Sono tutto quello che vuoi. JOi. Tutto quello che vuoi sentire. Tutto quello che vuoi vedere».

L’editing, non troppo complesso da seguire, è molto vicino al modello del cinema classico americano. Una scelta saggia, probabilmente per non appesantire ulteriormente la comprensione, viste le notevoli incursioni nella filosofia postumana e nelle riflessioni antropologiche sulla vita e sul trascendente. È affidato ad un altro habitué della crew di Villeneuve, il Joe Walker di Sicario e Arrival. A capo del reparto scenografico, un esperto dalla vena creativa molto caratterizzata sul visionario, Dennis Gassner [Big fish – Le storie di una vita incredibile, The Truman Show], premio Oscar® per Bugsy.

Delle scenografie, tutte memorabili – dal casino con il teatro dove possono esibirsi all’infinito icone pop come Elvis Presley o Marilyn Monroe, o il bar con vista panoramica dove un juke-box proietta l’ologramma di Frank Sinatra, all’immensa discarica che nasconde un ingente numero di suggestive fornaci, dalle serre di periferia alla città inscatolata in forme regolarissime che velano un sottostrato di quartieri dominato dalle solite luci ai neon delle incombenti quanto illusorie pubblicità – ma una è quella che rimane maggiormente scolpita nella memoria: le megalitiche statue femminili in posizioni dall’evidente erotismo in una Las Vegas in cui tutto è semisommerso da un deserto di matrice apocalittica.

«Stiamo tutti cercando qualcosa di reale».

I costumi non presentano niente di troppo futuristico ma sono comunque fortemente caratterizzati. Molto curato il make up, invece. La stessa cura offerta dal reparto effetti visivi. Laddove possibile, la squadra di realizzatori ha evitato di usare la CGI e i green screen a favore di un’interpretazione emotivamente verosimile delle reazioni dei personaggi. Tutti gli attori sono risultati ben all’altezza della situazione. Un cast davvero eccellente.

Blade Runner 2049 ha per protagonista Ryan Gosling [The nice guys, La La Land] e un cast che comprende Dave Bautista [I guardiani della galassia, Spectre], il premio Oscar® Jared Leto [Suicide Squad, Mr. Nobody, Dallas Buyers Club], Mackenzie Davis [Sopravvissuto – The martian, Breath in], Robin Wright [Wonder Woman, Everest], Sylvia Hoeks [La migliore offerta], Ana de Armas [Knock Knock, Trafficanti] e i camei di alcuni attori del primo capitolo, uno su tutti Edward James Olmos [Cani sciolti, La forza della volontà], che interpretava il fondamentale personaggio di Gaff, anche stavolta tanto estremamente importante quanto mai laconico con i suoi origami velatamente esplicativi. Di certo non poteva mancare all’appello chi ha reso immortale Blade runner nel 1982, Harrison Ford [Star Wars: Il risveglio della Forza, Adaline – L’eterna giovinezza], che riprende uno dei tre ruoli che l’hanno reso una celebrità cult, quello del cacciatore di replicanti Rick Deckard (per quanto raffinato, le icone pop Han Solo e Indiana Jones non saranno mai superabili).

Significativa anche la musica. Ormai è assodato che la colonna sonora è da considerare un’ulteriore cifra stilistica di Villeneuve. Già Blade Runner, a suo tempo, aveva puntato molto sulle suggestive musiche di Vangelis, che aveva appena ottenuto l’Oscar® per Momenti di gloria. Per Blade Runner 2049, il regista, come già accaduto in Arrival, per la musica extradiegetica sceglie una partitura minimal cui possano legarsi i rumori e i suoni diegetici, in modo da costruire un ponte virtuale fra la realtà filmica e lo spaziotempo della fruizione spettatore. In aggiunta Villeneuve sceglie di legare all’agente K una musica particolare, il tema del protagonista di Pierino e il lupo, l’opera di Sergej Prokof’ev.

L’insistenza nell’utilizzo di questo quartetto d’archi suggerisce di approfondirne le motivazioni. Si tratta di un parallelismo che magari non genererà le stesse elucubrazioni mentali dell’unicorno della famosa Director’s Cut, ma che può sicuramente tener banco almeno fino al prossimo capitolo: la fiaba sinfonica concepita per intrattenere l’infanzia nasconde, in realtà, ben sottotraccia, un inneggiamento alla ribellione nei confronti della dittatura staliniana. Risulta evidente, quindi, il parallelismo con la condizione dei replicanti, ribellatisi al controllo dei loro padroni. Meno palese il relativo ruolo che assumerebbero alcuni personaggi secondo questa ipotesi, e questo è un altro punto a favore dell’imprevedibilità della trama e della stratificazione delle tematiche.

«Non avete visto un miracolo»

Di tematiche in Blade Runner 2049 è possibile rilevarne un gran numero. Senza scendere nei dettagli è possibile radunarne alcune in un elenco, giusto per confermare l’altitudine del progetto. Permangono il tema del doppio che può essere inteso come lettura tipologica dei personaggi o anche vera e propria replica o simulacro – che, se vogliamo andare per il sottile, è simulacro di un simulacro –,   quello della ricerca dell’identità che diventa anche ricerca del trascendente fino a stimolare interpretazioni di matrice messianica e il tema del ricordo che va declinato in ogni caso, dal ricordo che diventa sogno e viceversa all’evento che si vuole rendere indimenticabile fino al desiderio di fare qualcosa di leggendario che rimanga impresso nelle memorie altrui. Tutti temi mutuati dal primo capitolo,  condensabili in un elemento particolare, ossessivamente utilizzato da entrambi i film, l’occhio. Oltre ad intrecciare il romanzo di Dick a 1984 di George Orwel, l’occhio assume una valenza simbolico-religiosa quasi universale e trasmette qualcosa che le linee di dialogo non dicono: il test di controllo dei replicanti, ad esempio, avviene tramite la pupilla, mentre Wallace ne è privo e per sopperire alla sua cecità si serve di alcuni “occhi” volanti che non sono altro che le miniature dei “gusci” che Villeneuve ha usato come astronavi in Arrival. Sarà nato prima l’uovo o la gallina?

«In ogni opera un artista mette una parte di sé».

I “gusci” che Villeneuve impianta in Blade Runner 2049 non sono l’unico elemento della sua poetica a frapporsi nelle maglie di una ragnatela già particolarmente fitta. I temi della memoria, dell’interpretazione, dell’amore genitoriale, del miracolo della vita e del destino di morte fanno di Arrival un gemello semi-identico di Blade Runner 2049 con quel grigio molto insistito che diventa colore simbolo dell’umanità, ottenuto com’è dalla rappresentazione di Yin e Yang, un contrasto fortissimo da molti visto come manicheo, ma che ad un osservatore non superficiale apparirà come l’armonia di opposti che è uno degli archè studiati dai filosofi dell’età classica: qualunque ruota bianca e nera sui faccia girare, fosse anche quella della vita, è un grigio che si otterrà.

«Le ha dato un nome, deve essere speciale»

Per tirare delle conclusioni, Blade Runner 2049 è un percorso iniziatico che va dal sacrificio dell’innocenza all’ammissione in una società ulteriore passando per la conoscenza di grandi segreti? È frutto del desiderio di essere speciale, di potersi elevare al di sopra degli altri e della propria condizione iniziale, di sentirsi per la prima volta vivi, di essere amati e poter amare liberamente? È la storia di scelte sofferte e destini ineluttabili? È la lotta dell’emarginato, dell’estraneo, del diverso, considerato al pari di un mostro da cui tutti debbano sentirsi minacciati? Durante il suo cameo Gaff crea un nuovo origami per K, a forma di pecora; cosa gli avrà voluto dire?

È tutto questo? Niente di tutto questo? È nella natura stessa del racconto di Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? fornire spunti di riflessione pressoché infiniti senza fornire chiavi di lettura univoche. Perciò sta allo spettatore trarre o meno le debite conclusioni, poter riflettere a margine e discutere a tuttotondo fino a perdere di vista il punto di partenza, ma quello che è certo è che l’enigmatico progetto portato avanti dalle geniali menti di Scott e Villeneuve non andrà perduto come lacrime nella… neve!

«Non ho mai ritirato qualcosa di “nato”».

Nota curiosa a margine.
Nel frattempo è stato ufficialmente annunciato il progetto di riportare nelle sale cinematografiche un altro grande classico della fantascienza: Dune, il romanzo epic sci-fi che ha ispirato Guerre Stellari e che è già stato portato sul grande schermo da David Lynch nel 1984. Denis Villeneuve sarà il regista di questo remake o reboot, a seconda di come vorrà sviluppare l’ampio materiale a disposizione. Un altro compito estremamente delicato per il regista canadese, che si dovrà di nuovo confrontare con le attese dei moltissimi appassionati della saga.

Arrival, di Denis Villeneuve

Arrival è un’opera ben misurata, un rebus affascinante, non troppo macchinoso, della giusta difficoltà, che sa parlare anche al grande pubblico, non necessariamente patito di fantascienza, toccando il cuore del romantico con alte punte di sentimento dolceamaro. L’acume cinematografico di Denis Villeneuve, già candidato all’Oscar® nel 2011 per La donna che canta, come miglior film straniero, e regista dei bellissimi Prisoners e Sicario, che hanno rinvigorito il codice del thriller. Forte dei successi ottenuti, il filmmaker canadese, quest’anno vuole riscrivere i canoni del genere sci-fi, con Arrival, appunto, e con l’attesissimo Blade Runner 2049, la cui uscita è prevista per il 6 ottobre 2017 negli Stati Uniti.

Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Arrival trae il suo nucleo tematico dalle pluripremiate Storie della tua vita di Ted Chiang, e soprattutto da Story of your life, il racconto forse più interessante della raccolta, che è stato a lungo il titolo provvisorio del film.

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Siamo soli nell’universo?
Probabilmente non esiste essere umano che non se lo sia chiesto almeno una volta nella vita. Quindi, se un giorno vi trovaste davanti una delle dodici astronavi aliene del film, cosa chiedereste? “da dove venite?” e “perché siete qui?”, magari proprio in quest’ordine. Ma sorge un problema: come si può comunicare senza un linguaggio che faccia da ponte? Lasciando stare che spesso non ci si capisce nemmeno quando si parla la stessa lingua e che «si può comprendere la comunicazione e finire a vivere lo stesso da single», come afferma la stessa protagonista del film in una frase fondamentale per ricostruire correttamente gli inserti narrativi che non seguono la linea temporale della trama principale.

«Perché siete qui? Riuscite a capire? Da dove venite?».

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«Dodici! Perché non solo uno?».

Dodici misteriose astronavi extraterrestri appaiono sulla Terra. Non c’è una logica dietro la scelta dei luoghi dell’atterraggio e, anche se gli alieni manifestano una certa volontà di comunicare, i governi non sono in grado di stabilire un contatto produttivo. Così il Ministero della difesa americano incarica la linguista accademica Louise Banks [Amy Adams] di instaurare un dialogo con gli alieni, scoprire quanto più possibile e prima che qualche altra nazione scateni una guerra le cui conseguenze non possono essere che disastrose. In team con il fisico Ian Donnelly [Jeremy Renner, The Avengers], Louise dovrà affrontare una corsa contro il tempo in cerca di risposte che possono cambiare il corso degli eventi e, probabilmente gli stessi postulati fisici che sono alla base della conoscenza della razza umana.

«La lingua è il fondamento della civiltà, […] è la prima arma che si sfodera in un conflitto».

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Ad interpretare il colonnello Weber, il personaggio che sceglie Louise per “salvare il mondo” è l’ormai veterano della fantascienza Forest Whitaker: dopo aver preso parte a Ultracorpi – L’invasione continua, la personale versione di Abel Ferrara del classico The Body Snatchers, ha recitato in Specie mortale, è stato co-protagonista dell’intrigante Repo Men ma, soprattutto, è stato il carismatico Saw Gerrera in Rogue One: A Star Wars Story. Il colonnello sceglie Louise per la sua grande capacità di immergersi nella lingua per trovare la giusta mediazione e non è una sorpresa se Denis Villeneuve sceglie Amy Adams per l’umanità che sa trasmettere ai personaggi da lei interpretati, e rimane solo una battuta goliardica il fatto che le abbia giocato a favore essere la fidanzata di uno degli alieni più amati dal pubblico, Superman, L’uomo d’acciaio, e rimane una pura coincidenza che i due nomi Lois/Louise si somiglino. A fianco a lei anche Jeremy Renner, chiamato a rappresentare la personificazione della razionalità pura, del calcolo logico, della scienza che sa fare un passo indietro per lasciare la scena a chi ha incamerato le regole, le ha rielaborate e le ha stravolte in maniera geniale.

«Tu affronti le lingue da matematico».

La comunicazione è proprio una delle chiavi di lettura principali, sicuramente quella più evidente, sin dai primi frame. Ma la grandezza del film sta proprio nell’importanza di ogni tassello.

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La fotografia di Bradford Young [Selma – La strada per la libertà, La grande partita] ben si sposa con il tono poetico della storia: è desaturata, molto curata nella composizione, che sfrutta nel migliore dei modi e nella giusta misura la regola dei terzi, le diagonali e, quando è possibile, la sezione aurea, senza tediare con il virtuosismo fine a se stesso, al fine di dare risalto ai personaggi e alla comunicazione visiva, di supporto a quella verbale, protagonista indiscussa della sceneggiatura di Eric Heisserer [Lights Out: Terrore nel buio, ma anche Van Helsing, il reboot annunciato per l’ambizioso Universal Monsters Universe].

La difficoltà di comprensione è ben rappresentata e sottolineata in modo implicito, ma comunque abbastanza evidente nella versione originale del film, dal nome che Ian dà ai due interlocutori extraterrestri: Abbott & Costello, il duo comico che ha reso celebre il numero “Who’s on first”, derivato dagli intrattenimenti leggeri del vaudeville, e diventato lo sketch che rappresenta per antonomasia ed in maniera esilarante il misunderstanding verbale. Probabilmente per non far calare troppo la tensione (Abbott & Costello in Italia sono Gianni & Pinotto) e fornire un riferimento più popolare, la traduzione italiana ha deciso di sostituire con Tom & Jerry i nomi originali. Lungi dal demonizzare una scelta che sarà sicuramente studiata su basi di calcolo matematico, per il bene del film e per la completezza del suo messaggio sarebbe stato opportuno rischiare. Ma si parla, in fondo, di “pelo nell’uovo”!

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Proseguendo l’analisi del film e addentrandosi in un livello ulteriore di significazione, ci si imbatte nel meccanismo ad orologeria di Arrival, il concetto-cluster di TEMPO, che trascina a sé tutto il resto e lo condensa nella forma simbolica del CERCHIO e nella sua declinazione a tre dimensioni: la sfera, schiacciata per ottenere una particolare forma di astronave che possa richiamare un altro simbolo che nell’iconologia classica incarna insieme i concetti di perfezione e vita, l’uovo, o i “gusci” come vengono chiamati nel film.

Assieme, cerchio e tempo, in interconnessione simbiotica di significato, abbracciano materie e culture ben differenti, ma che contribuiscono al sapere dell’umanità e forniscono una connotazione molto alta al testo cinematografico. Senza scendere troppo nel dettaglio e per lasciare al lettore la libera scelta di documentarsi prima per una miglior comprensione o di verificare i molti rimandi solo successivamente alla visione di Arrival, è opportuno segnalare la massiccia presenza di citazioni di materia scientifico-linguistica come la successione di Fibonacci, la formula per calcolare la variazione dell’entropia che campeggia su una lavagna quando Louise spiega che prima di chiedere qualsiasi cosa deve accertarsi che gli alieni capiscano cosa sia una domanda, il concetto di “gioco non a somma zero” ma anche di logogramma, le scritture semasiografiche, l’ipotesi di Sapir-Whorf, l’ensō (= cerchio) del buddhismo zen inteso come sintesi perfetta della libertà d’espressione del tutt’uno corpo-spirito, gli orecchini a forma di nautilus e i nomi dei due protagonisti che diventano un omaggio allo scrittore di fantascienza Iain Banks.

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Se il punto di riferimento per gli esseri alieni eptapodi sembrano essere le descrizioni degli Antichi di Lovecraft, innestate su di un’ibridazione di animali terrestri comuni come polpi, elefanti, ragni e balene, per quanto riguarda gli spunti di riflessione ed il voler innalzare ad un livello più alto la conversazione fantascientifica al cinema non poteva non essere il Nolan di Interstellar e Inception, che «hanno raggiunto un traguardo incredibile, al livello di Spielberg» in Incontri ravvicinati del terzo tipo, secondo il regista Villeneuve. Anche Arrival come il film di Spielberg, e come 2001 di Kubrick, gioca molto sull’elemento sonoro. Quando il guscio-monolito è inquadrato un suono particolare, forse di un didgeridoo, e questo suono dal sapore ancestrale gradualmente si fonde, per stratificazione, con i rumori diegetici e con la musica minimalista, composta da Jóhann Jóhannsson [La teoria del tutto, Prisoners], in un tutto armonico, che sembra suggerire una primitiva armonia con il creato mescolata con la paura-fascino per il perturbante, rappresentato da tutto ciò che è alieno.

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In maniera più intrinseca, poi, nel sottotesto, Arrival pone anche altri quesiti. Dietro al “da dove venite” e “perché” si nascondono domande di natura esistenziale, introspettiva e tipicamente umana: chi siamo? da dove veniamo? dove siamo diretti?

E se c’è qualcosa che il film lascia da elaborare mentre la melodia palindroma del violino accompagna i titoli di coda è una riflessione sull’amore, che risulta l’unico elemento cosmico slegato da qualsiasi legge o altra forma di sottomissione gerarchica: l’amore fa il suo corso dove e quando vuole ed è ciò che rimane anche quando tutto il resto è finito. Nessuno sa se nell’infinito ci sia amore ma una sensazione innata ci spinge a credere che l’amore sia infinito, al di là di ogni logica, e «inarrestabile», come la giovane Hannah (altro palindromo!) e la scelta d’amore di sua madre!

«Se potessi vedere la tua vita dall’inizio alla fine, cosa cambieresti?».
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