A Quiet Place II, di John Krasinski
Non far rumore, non muoverti, non respirare. Loro possono sentirti. Ogni passo, ogni crepitio, può essere fatale. Per questo la famiglia Abbott ha costruito un sentiero di sabbia nel bosco, sui cui camminare a piedi scalzi, per attutire ogni rumore. Ora però è giunto il momento di avventurarsi oltre il sentiero, di esplorare il mondo, o quello che ne è rimasto, per sopravvivere, spingendosi oltre il bosco, oltre il loro nascondiglio, lasciandosi il passato alle spalle.
Sono passati tre anni da quando John Krasinski con A Quiet Place ha posto un nuovo tassello nel genere thriller-horror costruendo tutta la sua narrazione sul silenzio, in un universo immaginario in cui il rumore è diventato il nemico nel momento in cui un’invasione aliena ha portato sulla terra delle creature assetate di sangue, sensibili unicamente ai suoni. In una manciata di secondi il mondo per come lo conoscevamo si è trasformato in un incubo, la vita quotidiana in un survival-horror in cui tutto ciò che produce un suono viene immediatamente attaccato, fatto a pezzi e divorato.
In questa apocalisse la famiglia Abbott ha cercato di ambientarsi, creando nell’orrore una dimensione di tranquillità, una quotidianità in cui le parole, e la musica sono banditi, è vietato uscire di casa senza un fucile e non può mancare il coraggio di uccidere a sangue freddo qualunque creatura minacci la propria vita o quella di un membro della famiglia.
Nonostante gli Abbott abbiano imparato a conoscere i mostri, ne abbiano studiato i punti deboli e capito come sopravvivere senza essere attaccati, o perlomeno limitando gli attacchi, il primo film della saga ha visto due grandi perdite, il piccolo Beau che per errore accende un areoplanino nel bel mezzo del bosco, e il suo papà Lee, che si sacrifica per far sfuggire il resto della famiglia ad un feroce attacco delle creature.
Così il secondo capitolo di A Quiet Place inizia in medias res, riavvolgendo l’azione dal punto in cui si era interrotta. Della famiglia sono rimasti solo Evelyn (Emily Blunt), i due figli, Regan e Marcus (Millicent Simmonds e Noah Jupe) con al seguito l’ultimo nato, che viaggia in una scatola di legno collegato ad una bombola d’ossigeno per non far sentire alle creature pianti e singhiozzi.
Così organizzata, la famiglia parte alla ricerca di nuovi nascondigli, fonti di sostentamento e anche di possibili superstiti con cui allearsi e continuare insieme il cammino. In questo viaggio un ruolo importantissimo lo giocherà Regan, che imbraccia letteralmente, oltre al fucile, le sorti della famiglia, spingendosi oltre i limiti del bosco in cerca di una speranza di salvezza.
Il suo coraggio apre scenari imprevisti, in cui non solo le creature aliene rappresentano una minaccia, ma anche gli umani sopravvissuti abbrutiti da un mondo crudele, costruito sulla paura, in cui i mostri hanno preso il sopravvento e l’essere umano, per quanto forte o furbo possa essere, rischia di soccombere ad ogni passo.
Su questa sensazione di pericolo costante Krasinski costruisce anche il suo secondo film, che ricalca le orme silenziose del primo, senza perdere neanche per un istante la sua carica emotiva. Ogni scena è imbastita nella paura, nel terrore di un attacco incombente, e non c’è mai un momento in cui tirare un respiro di sollievo, riposare, o forse piangere i propri morti, prima di rimettersi in cammino.
La tensione è costante, alle stelle, e i mostri sono inarrestabili. Nonostante tutti i tentativi degli umani di combatterli, si sono evoluti e sono ancora più letali. Per questo è necessario che gli Abbott e i loro nuovi alleati mettano in campo tutti gli strumenti in loro possesso per contrastare l’avanzata del male e ricostruire in un posto sicuro una vita se non uguale alla precedente, perlomeno abbastanza confortevole da poter vivere i rapporti umani senza timore, parlare, piangere, urlare il proprio dolore e ridere forse, senza essere fatti a pezzi. Questa però è una speranza che viene affidata al futuro del prossimo capitolo.
Bulbbul, di Anvita Dutt
Sposa bambina a soli cinque anni di un uomo che potrebbe essere suo padre, Bulbbul va incontro al suo destino con coraggio, senza alcuna idea di chi sarà suo marito e di quella che sarà la sua vita dopo il matrimonio. Inconsapevole, innocente, e agghindata come una piccola dea, viene consegnata al ricco Indranil, ma ad attenderla trova suo fratello Mahendra, mentalmente instabile e fatalmente affascinato da Bulbbul, e il più giovane Satya, suo coetaneo, con cui nasce subito una grande amicizia. Il loro rapporto si fortifica con il passare degli anni e, quando i ragazzi diventano adolescenti, si trasforma in amore. Per la sua passione Bulbbul viene picchiata a morte, torturata e spezzata fisicamente e psicologicamente dagli uomini della sua nuova famiglia, mentre Satya viene mandato a studiare in Inghilterra. Al suo ritorno, alcuni anni dopo, trova una Bulbbul trasformata, forte, sfacciata e padrona assoluta del palazzo e della sua vita, ma soprattutto trova un villaggio terrorizzato dalla presenza inquietante di una strega, che di notte si aggira nei boschi circostanti e uccide senza pietà tutti gli uomini che si parano sul suo cammino.
L’orrore dei brutali omicidi della strega bilancia l’orrore della violenza inflitta sulle donne di questa comunità bengalese, accolta da tutti, nel 1880, come una triste normalità di ossa spezzate, ematomi e stupri a cui le famiglie assistono conniventi, sporcandosi del sangue delle loro mogli, figlie e sorelle, non più della strega del bosco. Bulbbul raccoglie le confessioni delle donne del viaggio e si oppone con forza alla violenza che lei stessa ha subito, trovando un alleato nel dottor Sudip, che ha curato le sue ferite più profonde e continua a difenderla, a costo di mettere a repentaglio la sua stessa vita. Il suo comportamento però suscita molti sospetti in Satya che, ritenendolo colpevole degli omicidi, inizia una vera e propria “caccia alle streghe” per smascherare il responsabile e fare giustizia.
Ma chi può definire la giustizia e chi è degno di compierla in questa realtà grondante di sangue? La regista Anvita Dutt si muove proprio in questa ambiguità, sul filo sottile che separa giusto e sbagliato, vita e morte, portando l’orrore a un livello successivo, più rilevante dal punto di vista sociale che strettamente cinematografico, facendo di Bulbbul un horror squisitamente femminista. Le figure femminili disegnate dalla Dutt non sono relegate al ruolo di screaming queens ma dominano la scena, prima tra tutte Bulbbul, lasciando ai personaggi maschili non solo ruoli di contorno, ma anche estremamente negativi, in balia come sono delle passioni più torbide e completamente incapaci di avvicinarsi al mondo femminile senza esercitare il potere e la violenza che la società ha concesso loro.
Qui che entra in campo la strega, testimone onnipresente dei torti subiti dalle sue sorelle, forse anche da lei stessa, e spietata mano vendicatrice, elevata a dea protettrice delle donne, che si insinua nelle case e tra i boschi come un fuoco dirompente. Ed è proprio nel fuoco della vendetta che Anvita Dutt imprime la sua firma, portando sugli schermi un horror anticonvenzionale, soprattutto per l’ambientazione, che sa compensare alle mancanze tecniche con una potenza evocativa senza precedenti e che accende l’interesse verso un mondo lontano nel tempo e nello spazio, ma sempre tristemente attuale.
It: Capitolo due, di Andy Muschietti
27 anni dopo il loro scontro con la terrificante creatura chiamata It, il Club dei Perdenti è cresciuto e ognuno bada ai fatti suoi molto lontano da Derry. Solo Mike [Isaiah Mustafa: Shadowhunters, Crush] è rimasto in quella città maledetta come bibliotecario, così, quando le misteriose sparizioni di bambini e gli efferati omicidi ricominciano chiama i suoi vecchi amici per radunarsi, come promesso, per sconfiggere definitivamente il mostro.
Prima di tutto, però, Bill [James McAvoy: Split, X-Men: Apocalypse], Stan [Andy Bean: Swamp Thing, The Divergent Series: Allegiant], Bev [Jessica Chastain: Interstellar, Crimson Peak], Ritchie [Bill Hader: Saturday Night Live, Tropic thunder], Eddie [James Ransone: Captive state, Sinister 2], Ben [Jay Ryan: Beauty and the Beast] dovranno affrontare i loro “mostri”.
«Per ventisette anni… vi ho sognato. Vi ho bramato. Oh, mi siete mancati. …aspettando questo, preciso, momento! È tempo di galleggiare!»
It è un romanzo dalla terrificante magnificenza, capace di trattare temi come razzismo, omofobia, narcisismo, mobbing, violenza e suscitare riflessioni sulla vita e sul nostro personale concetto di realtà, che va al di là delle verità superficiali che sfioriamo tutti i giorni senza scavare a fondo. Sarebbe riduttivo se si trattasse solo dell’eterna lotta tra Bene e Male: King disegna personaggi che devono scegliere tra vita attiva e vita contemplativa. Chi sfiderebbe un mostro dotato di poteri capaci di governare le menti in modo da sfruttarne fantasie e paure a proprio vantaggio? senza un aiuto altrettanto sovrumano, come potrebbero riuscire a fermarlo in maniera definitiva? Non c’è bisogno di andare a scomodare Platone, Aristotele o Hannah Arendt per capire che il messaggio sotteso al testo è di avere uno spirito umanistico-filantropico, un amore fraterno, che spinga a scendere in campo anche in sfide che sembrano invincibili ma anche distanti dalla nostra sfera d’influenza umana. Lavorare, operare e agire sono attività connesse ai presupposti generali dell’esistenza umana e radicate nella natalità in quanto hanno il compito di fornire e preservare il mondo per i posteri. Ed è questa la missione che si sono prefissati i Perdenti: lottare e chiudere il conto per non lasciare ad altri l’incombenza, per non dover diventare come gli altri adulti di Derry, inconsapevoli o indifferenti all’orrore che la città stessa rappresenta.
«Prima dell’universo esistevano solo due cose. Una era It e l’altra la Tartaruga. It era arrivato sulla Terra molto tempo dopo che la Tartaruga si era ritirata nel suo guscio, e lì aveva scoperto una facoltà immaginifica del tutto nuova, quasi straordinaria. Le capacità di questa immaginazione rendevano il cibo molto nutriente. I suoi denti straziavano carni paralizzate da esotici terrori e paure voluttuose: esseri che sognavano di mostri notturni e sabbie mobili; contro la loro stessa volontà, si affacciavano su baratri senza fondi.
Grazie a quel cibo nutriente It conduceva la sua esistenza in un semplice ciclo di veglia per mangiare e sonno per sognare. Aveva creato un luogo a sua immagine e lo rimirava con orgoglio dai pozzi neri che aveva per occhi. Derry era il suo mattatoio, la popolazione di Derry erano le sue greggi.
Così era stato.
Poi… quei bambini.
Un fatto nuovo. Per la prima volta da sempre.»
Pur ringraziando sentitamente Muschietti per la sua aderenza scrupolosa alla maggior parte delle vicende narrate dal Maestro, il risultato finale, facendo una media matematica fra il meritato successo del primo capitolo e il passabile secondo, è la confermata consapevolezza che il romanzo It vada trasposto in una serie TV.
La pantagruelica mole di materiale ben si presta ad una serializzazione: ogni caso irrisolto di sparizione di bambini o di resti di cadaveri ritrovati potrebbe benissimo essere la materia di un episodio o di più, tutti i personaggi potrebbero avere maggior respiro e anche le tematiche più forti troverebbero la loro naturale esposizione senza incorrere nella censura preventiva per salvaguardare i guadagni.
It: capitolo due pecca, infatti, per due principali motivazioni:
- se non dai modo e tempo allo spettatore di approfondire di nuovo i personaggi principali nelle loro vite da adulti ottieni lo stesso risultato dell’intervento della polizia nelle indagini dei film secondo il parere di Alfred Hitchcock: una noia mortale! Inoltre, non ti affezioni agli adulti come ai bambini, quindi rimani distaccato e che cosa può ottenere di buono un film che perde il coinvolgimento del pubblico?
- se hai confezionato una quantità di girato estremamente nutrita già dal primo capitolo, pur tagliando notevolmente, è logico dover rinunciare a qualcosa; quello che non è assolutamente accettabile è che si rinunci ad approfondire trame lasciate in sospeso nel primo capitolo; ad esempio, l’origine dell’aspetto umano preferito da It nelle sue battute di caccia, quel Pennywise che giustifica e alimenta la nostra coulrofobia: era stata vagamente accennata come legata alla tragedia di Pasqua alle Ferriere Kitchener e al clown ballerino che negli stessi anni lavorava nel circo, ma non è stata più portata avanti – comprensibile perché meritava quasi un capitolo a parte, certo, e così dura già come un kolossal d’altri tempi, ma un binario morto ingiustificato dal punto di vista diegetico è qualcosa che va contro ogni principio di narrazione.
- la genesi del Male sfiora invece il ridicolo: la “Divoratrice di mondi” avrebbe il suo antagonista naturale in Maturin, una sorta di tartaruga gigante, altrettanto ancestrale, ma avendola completamente epurata nella trasposizione e avendo tolto la sua guida telepatica ai Perdenti, il rito di Chüd, che è la chiave di volta dello scontro finale, diventa così una sorta di sit-in di protesta non violenta che nemmeno Gandhi penserebbe di fare contro una creatura mangiabambini. La soluzione alternativa è operare degli atti di bullismo per atterrire un mostro che si nutre di paura, sfruttandone a proprio vantaggio i poteri. Geniale su carta ma insoddisfacente sullo schermo se non è accompagnata da una conclusione spettacolare almeno quanto le uccisioni che ha inflitto alle sue vittime. In questo stesso contesto risulta enigmatica la frase di It «Guardatevi… siete grandi. Ne è passato di tempo!» che lascia spazio a dissertazioni che confermano la stretta connessione dell’It come romanzo di formazione con i riti di iniziazione e passaggio dall’adolescenza all’età adulta che sono alla base della nascita della fiaba popolare.
La struttura letteraria non può essere riportata perfettamente in un racconto filmico, ovviamente. Basti pensare alla parte in forma di diario o all’inserimento di un haiku, componimento poetico primitivo, forse addirittura preistorico, che ben si abbina alla cosmogonia quasi lovecraftiana trattata:
Brace d’inverno,
i capelli tuoi,
dove il mio cuore brucia.
In questo secondo e ultimo capitolo il regista ha apportato sostanziali modifiche attraverso la sceneggiatura in parte discutibile di Gary Dauberman [Swamp Thing, Annabelle 2: Creation, Annabelle 3]. Si poteva fare molto di più. Guardando prima il lato positivo, si noterà che Pennywise è meno presente e quindi si possono vedere le diverse incarnazioni del Male. Per quanto le gigionerie macabre di Bill Skarsgård [Deadpool 2, Atomica bionda, Castle Rock] abbiano retto da sole tutto il primo capitolo, con questa mossa è possibile finalmente far strisciare nel pubblico il sospetto che il mostro sia qualcosa di ben più grande e potente di un pagliaccio mangiabambini da fiaba popolare.
Nelle illustrazioni del concept artist Vincent Proce [La forma dell’acqua – The shape of water, Scary stories to tell in the dark, Qualcuno salvi il Natale] si può ammirare tutto il lavoro dietro le quinte per la creazione di tutto ciò che concerne la CGI. Il regista Muschietti si lascia addirittura prendere la mano in questa fase realizzativa e confeziona con Proce una meravigliosa citazione de La Cosa di John Carpenter.
It: Capitolo 2 (2019) La Cosa (1982)
Nonostante appaia in numerose forme perlopiù attinte dal repertorio d’immaginazione delle specifiche vittime e da ciò che più le terrorizza, It ha, infatti, una certa predilezione per la forma di Pennywise, alter ego di Bob Gray, un clown sadico e perverso descritto come molto simile a un incrocio tra Bozo il clown e Clarabell, con due ciuffi di capelli arancioni a punta, vestito con un largo costume di seta color argento, una cravatta blu, un colletto increspato e inquietanti pompon arancioni che sono stati sfruttati alla perfezione dal costume designer Luis Sequeira [Carrie, La madre].
Io sono la Mangiatrice di Mondi!
Dato che il flusso analitico ci ha portato praticamente a presentare già quasi tutto il cast, approfitto per “nominare” – è proprio il caso di utilizzare questo termine, data la sua presenza costante negli ultimi anni di Academy Awards – il maestro Benjamin Wallfisch [Dunkirk, Blade Runner 2049, Il diritto di contare, 12 anni schiavo, Il piccolo principe] che compone una nutrita e avvolgente musica che, praticamente, accompagna lo spettatore senza lasciarlo mai da solo nel silenzio spettrale della fotografia di Checco Varese [Pacific rim]: un altro fiore all’occhiello, senza virtuosismi, ma sempre funzionale alla concretezza materica delle mostruose fantasie, all’atmosfera asfittica e al senso di oppressione diffusa e continua del film tanto nelle tenebre del sottosuolo [come aveva fatto per The 33] quanto sotto la luce “rassicurante” del sole [vedi Miracoli dal cielo].
La luce, nelle opere di Stephen King, non rappresenta quasi mai qualcosa di buono. Siamo abituati a sentir raccontare come rassicurante “quella luce in fondo al tunnel”. La speranza, giusto? Ecco, nell’idea del Maestro la luce che nasce per contrasto dalle tenebre diventa il tradimento per eccellenza delle aspettative. Lucifero non significa, tra l’altro, letteralmente “portatore di luce”? Così l’abituale lettore di King, ormai, quando “vede” una luce in fondo ad una galleria buia come minimo si aspetta un treno che gli viene (in)contro!
Nel caso di It ci troviamo di fronte ad una luce fatta di tre elementi – una e trina – che non si può non interpretare attraverso un simbolismo religioso.
Una luce che ammalia, che fa leva sulle coscienze più suggestionabili e le rende schiave delle loro angosce, paralizzate dalle loro paure. Fino a nutrirsi della loro energia vitale. Fino a nutrirsi di loro mentre sono inermi burattini senza fili.
«Venite a giocare, Perdenti! […] Riesco a percepire l’odore della vostra paura!».
La paura diventa motore di tutto.
Da una parte la creatura ancestrale che per natura deve nutrirsi – fin qui tutto sommato niente di immorale – ma che lo fa di bambini, “più teneri e succulenti” direbbero i Grimm, perché sono privi di malizia, di esperienza, perché in una parola hanno un’innocenza pura che perderanno solo nei pochi istanti prima di essere dilaniati o che perderanno solo diventando adulti, come accadeva nei riti di iniziazione, nel passaggio fisico e simbolico nell’età adulta, nel momento delle scelte di coscienza, dei bivi e delle sliding doors che li porteranno a plasmare individui apparentemente privi di paure solo agli occhi dei bambini.
Dall’altra parte i Perdenti, ormai adulti, rappresentano proprio questo passaggio, che per loro è rimasto in sospeso. Hanno costruito le loro vite cercando di fare come gli altri cresciuti a Derry, dimenticando il bello e il brutto dell’essere bambini. La paura, per loro, è il motore del risveglio dall’oblio. In una lotta contro il tempo per fermare il mostro prima che sia abbastanza nutrito da essere invincibile, prima di dover rimandare lo scontro finale ad altri 27 anni dopo, infiacchiti dall’età avanzata, gli amici d’infanzia dovranno sfruttare proprio la paura per riportare indietro l’orologio biologico interiore. Ricordare il rimosso per riscoprire un bambino lasciato in letargo è un imperativo da cui dipendono le sorti di ognuno. Nessuno dei Perdenti ha avuto figli. Per caso? Per scelta? O piuttosto per un inconscio timore di commettere un atto di egoismo nel dare alla luce – in pasto alla luce – “un figlio in un mondo come questo” – quante volte avete sentito anche voi ultimamente la gente ripetere come un mantra una frase simile? – eppure hanno scelto di mettere un punto all’abominio perpetrato nella loro città natale.
Una Derry che somiglia terribilmente alla cittadina di Bangor, nel Maine, dove un giovane Stephen King ha scritto gran parte del romanzo ispirato da una fiaba e dalla realtà che, come al solito, sa essere più crudele della fantasia.
Mi riferisco ad un serial killer vestito da clown di cui avevo un vago ricordo… un rimosso di chissà quando a cui magari risale la mia poca simpatia verso i pagliacci. Magari grazie proprio alla nuova attenzione mediatica verso It e Joker, che aumentano la coulrofobia di tutti, non ci è voluto molto a trovarlo, e su wikipedia si può leggere un resoconto dettagliato dei suoi crimini. Si tratta di John Wayne Gacy che fu soprannominato Killer Clown per aver rapito, torturato, sodomizzato e ucciso 33 vittime, tutte adolescenti e di sesso maschile, 28 delle quali seppellite sotto la sua abitazione o ammassati in cantina, dal 1972 fino alla sua cattura avvenuta nel 1978, in seguito a un errore nell’occultamento della sua ultima vittima. Il nome con cui è diventato noto deriva dal fatto di aver intrattenuto i bambini durante alcune feste con costume e trucco da clown facendosi chiamare Pogo il Clown. Pochi sospettavano che fosse segretamente bisessuale, perché era sposato; inoltre era un tipo socievole e pareva quindi insospettabile agli occhi dei concittadini. Alla conclusione del processo venne condannato a morte e giustiziato con l’iniezione letale nel 1994.
Le perizie psichiatriche effettuate su di lui dimostrarono (come per molti serial killer “organizzati”) una notevole intelligenza; all’esame dei periti risultarono vari disturbi della personalità (disturbo istrionico di personalità, disturbo narcisistico, disturbo antisociale) correlati con il sadismo e combinati con l’omofobia interiorizzata. Alla sua morte lasciò un discreto numero di disegni raffiguranti pagliacci ora parte di collezioni private. La vicenda e gli omicidi di Gacy contribuirono ad alimentare la paura del “pagliaccio malefico” nell’immaginario popolare.
L’aneddoto legato al nucleo della storia, invece, è raccontato spesso dallo stesso King. Pare che una sera del 1978, proprio l’anno in cui fu catturato Killer Clown, King uscì a piedi per andare da solo a ritirare la macchina dall’officina. Lui e la sua famiglia in quel periodo vivevano a Boulder, in Colorado. Per raggiungere il meccanico dovette passare su un vecchio ponte di legno, con una strana forma a gobba e fu così che gli ritornò in mente una favola norvegese, I tre capretti furbetti (Three BILLY goats gruff ), in cui tre capre dovevano attraversare un ponte che un troll affamato aveva eletto a sua dimora. King decise di trapiantare la struttura e parte dello scenario della fiaba in un contesto di vita reale, ambientando la storia in un luogo che gli ricordasse la sua infanzia: Bangor, nel Maine, come è stato già detto, che diventa Derry, ma che rappresenta per antonomasia tutte quelle cittadine, quei paesi dove possono accadere le cose più terribili, tanto tutti si fanno i fatti loro e nessuno ha visto e sentito niente.
«Può un’intera città essere posseduta?».
Della fiaba sono presenti archetipi e funzioni, compresi i poteri magici dell’antagonista contrastati da quelli dell’eroe e dei suoi amici: coraggio, fantasia creativa, fede in se stessi maturati in un vogleriano viaggio dell’eroe che è prima di tutto interiore. Il bambino interiore che deve rimanere in noi anche crescendo, perché possiamo vivere apprezzando ciò che abbiamo e lasciando il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Non è un caso se nella Clubhouse dei Perdenti è presente il poster di Lost boys, horror vampiresco che rivisita Peter Pan.
«Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste.» [dalla dedica del romanzo]
Questo ci riporta a quella filosofia antica di cui parlavamo all’inizio. Una vita attiva fatta di curiosità, approfondimento e spirito critico porta ad assomigliare a degli eroi moderni. Una vita meramente contemplativa porta solo ad essere schiavi delle influenze di qualcun altro, che non esiterà a distruggere chi non gli è più utile. Nessuno vuol farsi divorare dai desideri altrui, quindi non diamogli questo potere. Questo insegna l’It di Stephen King, questo insegna l’It di Muschietti. La morale della fiaba!
«Io ho vissuto sempre nella paura: paura di quello che sarebbe venuto dopo, paura di quello che mi lasciavo alle spalle. Voi non fatelo. Siate chi volete essere. Con orgoglio. E se trovate qualcuno che vale la pena di tenersi stretto, non lasciatelo mai e poi mai andare. Seguite il vostro sentiero. Dovunque vi porti. Pensate a questa lettera come a una promessa. Una promessa che vi chiedo di fare. A me. L’uno all’altro. Un giuramento. Vedete la cosa bella di essere un perdente è che non hai niente da perdere. Perciò… siate sinceri. Siate coraggiosi. Siate forti. Credete… E non dimenticate mai. Noi siamo i perdenti e lo saremo sempre.»
Diventa eroe chi è in grado di superare le proprie limitazioni personali ed ambientali. L’Eroe simboleggia quell’immagine divina, creativa e redentrice che è nascosta in ognuno di noi e che attende solo di essere trovata e riportata in vita. Come nei miti e nelle fiabe popolari, in It si riflettono quei meccanismi junghiani della mente umana e si eleva, quindi, come loro, a rappresentare una sorta di moderna mappa della psiche, valida dal punto di vista psicologico e realistica dal punto di vista emotivo.
Interpretando la Mangiatrice di Mondi/It come un Mutaforma, gli si può pertanto attribuirle la funzione di catalizzatore del cambiamento, di simbolo dell’impulso psicologico alla trasformazione. Nell’affrontare un Mutaforma l’Eroe viene profondamente scosso e turbato, costretto a mutare la propria opinione sul sesso opposto o ad affrontare parti nascoste di se stesso, immagini e idee sulla sessualità e sui rapporti con gli altri. La funzione del Mutaforma è dunque quella di seminare il dubbio, creare spunti per una profonda riflessione. Questa interpretazione starebbe alla base della scena di sesso scritta da King e tanto bersagliata dalla critica, trattata sempre con l’autoironia che lo contraddistingue. E anche questo, nel suo carnascialesco cameo da negoziante/rigattiere che critica il protagonista scrittore, risulta ben chiaro:
Bill [notando un suo libro sulla cassa]: Vuole che glielo autografi?
Negoziante (Stephen King): Nah. Non mi è piaciuto il finale!
The Grudge, di Nicolas Pesce
L’ “onryō” è uno dei fantasmi tipici della tradizione giapponese, destinato a ritornare nel mondo dei vivi per cercare vendetta, solitamente dopo una morte violenta. La frequente rappresentazione dell’onryō nel teatro kabuki ha contribuito a definire dei tratti comuni per i fantasmi di sesso femminile, solitamente vestiti con il kimono bianco delle funzioni funerarie, e con lunghi capelli neri scompigliati che incorniciano un viso pallidissimo.
Quando pensiamo a The Grudge, la prima immagine che viene in mente è quella di Kayako, l’onryō per eccellenza, accovacciata sotto il letto o in un angolo buio, con gli occhi sgranati e le braccia bianche e sottili pronte ad afferrare il malcapitato. Kayako è la protagonista della serie cinematografica horror, Ju-on, ideata da Takashi Shimizu, e meglio conosciuta in occidente per i suoi remake statunitensi come The Grudge. A lei si affianca anche la sua versione maschile, incarnata dal piccolo Toshio, che come lei infesta la casa dove hanno trovato la morte.
La maledizione di The Grudge inizia infatti in una casa di Tokyo dove Kayako è stata uccisa insieme a suo figlio dal marito, geloso del suo amore non ricambiato per un professore universitario. Da qual momento chiunque metta piede nella casa rimane contagiato dalla maledizione, e la porta con sé in qualunque parte del mondo. I fantasmi inseguono i malcapitati ovunque, apparendo loro con sembianze terrificanti, con l’unico obiettivo di ucciderli. Non c’è un posto sicuro dove rifugiarsi, perché la rabbia dei morti non si può fermare, né placare, so non con la morte.
Da qui Nicolas Pesce è partito per immaginare il suo remake, ma qui Kayako fa solo una breve comparsa, nelle poche scene che vedono Fiona Landers a Tokyo, prima di tornare America dove, dopo essersi riunita con il marito Sam e la figlia Melinda, uccide entrambi e si suicida pugnalandosi al collo. Il poliziotto che si occupa del caso, dopo essere entrato nella casa, inizia ad avere orrende visioni e viene rinchiuso in manicomio.
Lo stesso orrendo destino attende alcuni anni dopo la detective Muldoon, che si reca nella stessa casa, ora abitata dalla coppia di anziani Faith e William Matheson, per indagare sulla morte di una donna trovata nel bosco in avanzato stato di decomposizione.
Come da copione, la maledizione legata alla casa insegue e uccide chiunque vi metta piede, ma questa volta Nicolas Pesce non rievoca i fantasmi classici della saga, ne crea invece di nuovi a partire da una nuova tragedia e da una nuova casa infestata dall’altra parte del mondo.
Sebbene non manchino i jump scare e immagini tipiche dell’iconografia dell’horror giapponese, la pellicola sembra sfruttare un’idea già consumata, già troppo sfibrata da sequel e remake (a partire dal remake statunitense The Grudge del 2004, per continuare con The Grudge 2 nel 2006 e The Grudge 3 nel 2009) e che oltretutto, vedendo venir meno i suoi protagonisti, non possiede più il suo tratto distintivo, quello che distingue la saga da qualunque altro horror sulle case infestate. Così come The Ring non potrebbe esistere senza Samara, ed è indissolubilmente legato alla sua triste storia, allo stesso modo The Grudge, senza Kayako e Toshio è svuotato della sua personalità e non riesce a trasmettere lo stesso senso di inquietudine degli altri film della saga.
The Lodge, di Severin Fiala e Veronika Franz
Freddo. Un freddo che entra nelle ossa, nel sangue, nel cervello, che offusca la ragione e porta alla pazzia. Il freddo è l’elemento dominante di The Lodge, tagliente come le inquadrature di Severin Fiala e Veronika Franz. Squadrate, pulite, vuote, bianche come la neve che domina la scena. Gli elementi scenografici sono ridotti al minimo, creando la paura dal vuoto, dall’assenza più che dalla presenza.
Stanze e corridoi vuoti, congelati nel tempo, immobili, così come Richard e i suoi due figli, Mia e Aiden, intrappolati in una dimensione sospesa tra la vita e la morte, quasi fantasmi di loro stessi, dopo il suicidio della loro mamma. Ora il papà ha una nuova compagna, Grace, che i ragazzi faticano ad accettare, non solo perché la mamma si è tolta la vita a causa sua, ma anche per un oscuro episodio del suo passato, legato a uno spaventoso caso di suicidio di massa, in cui lei era stata l’unica a sopravvivere.
Sembra che la morte segua Grace come un’ombra, che la perseguiti e non la abbandoni mai, neanche di notte, quando gli incubi la fanno vagare in preda al sonnambulismo. Eppure Richard, curandosi solo del suo amore per Grace, non esita a lasciarla sola con i due ragazzi per passare le vacanze di Natale in uno chalet di montagna, perso nella neve, a chilometri di distanza da qualunque forma di vita. Prigionieri di una tormenta di neve inarrestabile, e da una casa dall’ossatura gelida, i tre si trovano costretti a combattere con il gelo interiore ed esteriore che li divora.
L’orrore di Severin Fiala e Veronika Franz è più vicino all’inquietudine che serpeggia sotto la superficie di una quotidianità ordinaria, che a un evento straordinario, paranormale. Ma non per questo la paura è smorzata, se mai il contrario. Quando l’elemento perturbante arriva inaspettato, l’impatto sullo spettatore è ancora più devastante. Ed è proprio sull’inaspettato che The Lodge punta tutto, dando più spazio ai colpi di scena che alla narrazione effettiva degli eventi, che spesso rimangono offuscati, nascosti da una spessa coltre di neve che ne fa intravedere solo i contorni.
Sei ancora qui – I still see you, di Scott Speer
Sei ancora qui dimostra che una storia avvincente, filmicamente ben orchestrata, vale più di centinaia di minuti spesi per un prodotto in CGI con gli attori più in vista del momento a fare i fighi davanti ad un green screen.
Sei ancora qui è un thriller sovrannaturale basato sul romanzo young adult di Daniel Waters Break my heart 1000 times, finora inedito qui da noi; ma niente panico: dal 2 ottobre 2018 il libro sarà disponibile per l’acquisto con lo stesso titolo italiano del film di Scott Speer [Step Up Revolution, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], edito da Sperling & Kupfer, ormai la storica casa editrice di Stephen King e Dean Koontz, per citarne due a tema.
In seguito ad un incidente catastrofico, avvenuto in un laboratorio di ricerche di Chicago, gran parte della popolazione è morta ma non ha abbandonato definitivamente il suo posto.
«Una parte di loro è rimasta. Li chiamiamo “i redivivi”».
Non si tratta dei soliti zombie e nemmeno di ectoplasmi più o meno appiccicosi, né tantomeno di poltergeist che possano infestare i luoghi a cui sono in qualche modo legati. Si tratta invece di presenze, che sono state rese un po’ più materiche di un ologramma dalle particelle sprigionate dall’esplosione nell’atmosfera terrestre, e che, però, si dissolvono come una nuvola di fumo condensato non appena un vivo le sfiora.
«Quando muoriamo lasciamo dietro di noi come una scia. Queste scie sono delle tracce che ci possono condurre indietro per interagire con i vivi».
Una situazione paradossale in cui il bambino protagonista de Il sesto senso di Shayamalan non si sentirebbe di certo più a disagio: è un mondo in cui i morti camminano, mangiano, dormono – in una parola “vivono” – con i vivi.
In questo mondo distopico in cui le barriere tra vita terrena e aldilà hanno subito in qualche modo un cambiamento radicale, le anime sono bloccate in un piccolo loop: appaiono ai vivi in un episodio di routine quotidiana, come il residuo che rimaneva a volte sugli schermi tv catodici quando si spegneva, ma non interagiscono in alcun modo con loro.
Ognuno può continuare a vedere, perciò, i propri cari, ma non solo… Senza interagire, senza poter comunicare e senza che essi possano in alcun modo interferire con i sopravvissuti. Queste sembrano le regole non scritte che valgono per tutti. Tutti tranne uno, che sembra voler a tutti i costi comunicare qualcosa ad una ragazza: Veronica Calder, soprannominata Ronnie, diciassettenne inquieta che non ha mai elaborato il lutto che l’ha colpita, che ogni mattina fa colazione con il padre perso nel famoso Incidente e che tutti i giorni saluta la madre e passa oltre un vicino di casa anch’esso morto oppure, in sella alla sua bicicletta, passa letteralmente attraverso un’anziana che tutti i giorni alla stessa ora cammina in mezzo alla strada nello stesso punto.
Ma Ronnie oltre al compianto papà, e ai vicini, ora vede un’altra presenza in casa. Si tratta di un ragazzo a lei sconosciuto. Lo spirito che vuol comunicare con lei sembra avere uno scopo, una volontà che lo rende diverso dagli altri fantasmi; la segue ovunque, le appare ovunque, non solo nella sua routine residuale. Cosa le vorrà comunicare? Le sue intenzioni saranno meramente platoniche o terribilmente malvagie?
«Ho paura che voglia farmi del male».
Per scoprirlo Ronnie si farà aiutare da un ragazzo asociale ed emarginato come lei, Kirk – interpretato da Richard Harmon [Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini, Judas Kiss, Adaline – L’eterna giovinezza], e dal suo insegnante di liceo, il professor Bittner – un convincente Dermot Mulroney [Il matrimonio del mio migliore amico, Insidious 3 – L’inizio, Truth – Il prezzo della verità].
«Sai che qualcosa sta per accadere, vero?».
Ronnie è interpretata da Bella Thorne [La babysitter, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], che aveva già lavorato con il regista e la scelta di affidare a lei il ruolo della protagonista si è rivelata azzeccatissima: l’attrice sa essere convincente nella profonda tristezza che deve trasmettere al pubblico insieme alla frustrazione e al senso di colpa perché all’età di 9 anni ha perso davvero il padre e ha vissuto nascondendo nel profondo dell’animo gli stessi sentimenti del personaggio che è chiamata ad interpretare nel film. Il tocco in più quella parrucca nera che le conferisce un dark mood perenne, quasi voglia reprimere una evidente bellezza per autopunirsi.
I temi della perdita degli affetti e della pena autoinflitta, della presenza casuale a fronte di un’assenza forzata, dell’impossibilità di costruire legami terreni come di spezzare i vincoli con ciò che non c’è più assumono l’aspetto di una punizione estrema, potenzialmente infinita sia per i vivi sia per i morti. Come questo continuo trovarsi davanti il proprio oggetto dell’elaborazione del lutto non porti alla pazzia i personaggi lo sanno solo scrittore e sceneggiatore.
La reiterazione dell’episodio vitale dei cosiddetti “redivivi” congela una loro scena quotidiana come il cinema “immortala” una sequenza di fotogrammi. Un famoso critico dei Cahiers du cinéma, André Bazin, nel suo saggio Morte ogni pomeriggio, si scagliava contro chi spettacolarizzava la morte come fosse un atto superficiale e teorizzava un’origine psicanalitica di questa ossessione delle arti plastiche, e quindi anche del cinema, per la morte e la considerava legata ad un “complesso della mummia”: l’uomo avrebbe infatti il bisogno primordiale di difendersi dal tempo e il cinema assolve questa esigenza, perché “fissa artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per “strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita”, realizzando il nostro inconscio desiderio di “rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio” e avere l’illusione di sconfiggere il tempo.
Oltre a tutte queste tematiche legate alla morte, in Sei ancora qui è presente un riferimento neanche troppo velato all’11 settembre. Forse anche più di uno, ma lascio che sia la sensibilità dello spettatore a cogliere questo genere di connessioni tra film e vita reale.
Al fine di ottenere il massimo impatto drammatico, in scene che dovevano esprimere anche epicità e mistero, sono stati adoperati gli obiettivi anamorfici Hawk, montati su una immancabile ARRI® Alexa, ed è stata fatta una scelta non si sa quanto dettata dall’economia, ma sicuramente ben giustificata dal regista: «non volevamo fare un film interamente in CGI – spiega Speer – volevamo un film drammatico portato avanti dalla recitazione dei protagonisti in cui ogni tanto potevano comparire degli effetti speciali» e per le sequenze in cui compaiono alcuni personaggi che poi spariscono nel nulla «giravamo l’intera sequenza e poi, con la mdp che ancora registrava, chiedevo all’attore che impersonava il fantasma di camminare fuori dall’inquadratura. La mdp così poteva riprendere tutto ciò che si trovava sullo sfondo. Dopodiché mandavamo tutto alla VFX Cloud di Vancouver. Quelle scene le abbiamo girate in digitale, ma avresti potuto farle anche 100 anni fa, perché fondamentalmente si tratta di una semplice doppia esposizione».
Curioso che dopo i passi in avanti delle tecniche CGI per avere effetti speciali strabilianti si torni indietro nel tempo alla sovraesposizione. Ma non è il solo elemento vintage addicted molto evidente inserito dal regista, che ha reso palesi i suoi riferimenti cinematografici di genere: «Alfred Hitchcock è stato il mio punto di riferimento per quello che riguarda la messa in moto dei sentimenti di paura e per bilanciare al meglio la tensione tra le emozioni; c’è molto di Vertigo – La donna che visse due volte e alcune influenze di Psycho. Gli horror odierni sono ben fatti ma alla fine, per far spaventare davvero, mi sono dovuto ispirare alla vecchia scuola». Come dargli torto?
Molto lontano dall’essere un capolavoro da rivedere spesso, il Sei ancora qui di Scott Speer, grazie a tutta questa attenzione nei confronti della storia, dei sentimenti e del mistero, si segue volentieri e riesce nell’intento di suscitare qualche riflessione, magari non sul senso della vita ma sicuramente sull’ossessione: che sia per la morte, per la conoscenza o per la verità è un’ossessione che probabilmente avrà un seguito…
In molti si sono chiesti perché far uscire film e libro a settembre e non in un periodo horror-friendly o sfruttando il clima invernale da neve, dato che il film cerca dichiaratamente «quella sensazione di inverno permanente» che c’è in Se7en di David Fincher.
La scelta di far uscire il film di 27 settembre non convince ma è spiegabile con dei ragionamenti di marketing basilari: Sei ancora qui si svolge più che altro in ambiente e periodo scolastico; a settembre il ritorno tra i banchi di scuola spinge il target giovanile di riferimento verso un luogo di evasione che può essere il cinema; pur non essendo ben marcata è presente una venatura horror, ma non tale da propendere per il periodo di Halloween quando in un film si cerca qualcosa di meno profondo e più goliardico; in più, uscendo in sala ora, può puntare a fare cassa a febbraio con il mercato homevideo.
Tutto ha una spiegazione tranne la morte.
A Quiet Place – Un posto tranquillo, di John Krasinski
Quando si dice “iniziare in media res”, ossia nel bel mezzo del racconto, senza introduzioni e preamboli-spiegoni noiosissimi, ma gettando subito lo spettatore nel vivo della suspense da slasher horror moderno, s’intende proprio questo tipo di film che ha un incipit giocato sulle inquadrature ravvicinate, e soprattutto di dettaglio, e sulle soggettive sonore che, dato il tema trattato, diventato un leit motiv indispensabile per creare quel clima di angoscia e terrore che un silenzio forzato, la cui pena sarebbe la morte certa.
Nel 2020, la popolazione della Terra è stata quasi completamente sterminata da una razza aliena giunta da non si sa dove, come e quando. I mostri – ibridi tra il Saturno dipinto da Francisco Goya, gli Xenomorfi parassiti di Alien e il collaudato Demogorgone di Stranger Things – sono completamente ciechi, ma dotati di un udito sensibilissimo e divorano qualsiasi cosa produca il seppur minimo rumore. Gli Abbott, una famiglia composta da madre, padre e tre figli, sembrano gli unici superstiti umani al mondo. Cercano di sopravvivere in una fattoria isolata, nel più completo silenzio, comunicando solo con il linguaggio dei segni.
Se questa loro competenza è giustificata dal fatto che la figlia maggiore è sorda, nulla spiega in maniera soddisfacente la presenza dei mostri e la loro fame incontrollata, irrispettosa delle regole di equilibrio biologico: si tratta di creature fameliche tanto veloci quanto spietate, che non hanno nessuna intenzione di lasciare in giro qualche essere vivente per non rischiare di morire di inedia. Sopravvivere dignitosamente si può a vedere gli Abbott. Basta non emettere mai alcun suono, ma … ci riusciranno?
A quiet place – Un posto tranquillo è un horror particolare che, nonostante la sua semplicità strutturale e formale, sa far trattenere il fiato dall’inizio alla fine. Essendo abituati all’ecatombe che possono produrre creature come gli Xenomorfi di Alien, potrebbe essere di notevole aiuto non porsi troppe domande, altrimenti il labile patto di sospensione dell’incredulità, che è alla base del film, decadrebbe come un castello di carte davanti ad un ventilatore (non domandatevi, nemmeno quando i personaggi ve lo sbatteranno in faccia, perché non rifugiarsi in un luogo come una cascata, dove il rumore assordante permetterebbe di parlare liberamente passandola sempre liscia). Se non ci si ferma troppo a pensare, la calamita funziona e lo spettatore si ritrova attratto al centro della scena a tremare o a tramare per la sorte dei protagonisti, a seconda che si parteggi per le vittime o per i carnefici, come spesso accade ai fan degli horror.
La sceneggiatura di Bryan Woods e Scott Beck, inizialmente pensata per aderire al franchise di Cloverfield, contiene una sola linea di dialogo, il film ne presenta un paio in più. Questa carenza di comunicazione verbale non deve far pensare ad un’attenzione minore nella recitazione: John Krasinski, in A quiet place – Un posto tranquillo al suo debutto da regista, nasce come attore [Qualcosa di straordinario, Licenza di matrimonio] e ha fatto della comunicazione visiva, della mimica facciale e della gestualità teatrale uno dei punti di forza della pellicola, curando nei minimi particolari la colonna sonora e il montaggio sonoro, nonché la recitazione del cast, scritturando persino un’attrice realmente sorda, la bravissima Millicent Simmonds [La stanza delle meraviglie], per la parte della figlia maggiore. L’attore-regista, per questo suo esordio, ha completato il cast scegliendo Emily Blunt [I guardiani del destino, Edge of Tomorrow – Senza domani, Il ritorno di Mary Poppins], sua moglie nel film e nella vita reale, Noah Jupe, il protagonista eccezionale di Wonder, e Cade Woodward alla sua prima fugace apparizione cinematografica.
Negli Stati Uniti A quiet place – Un posto tranquillo è stato vietato ai minori di 13 anni non accompagnati da adulti per via della quantità di sangue e di terrore, mentre in Italia è vietata ai minori di 14 anni.
It: Capitolo uno, di Andrés Muschietti
Feroce, crudele, macabro e violento nella misura richiesta dal pubblico, apprezzato in ogni suo aspetto formale, l’It: Capitolo uno di Andrés Muschietti si eleva a capolavoro indiscutibile del genere horror adolescenziale. Il Pennywise che Bill Skarsgård [Allegiant, Atomica bionda] si è cucito addosso, ammalia e terrorizza con i suoi occhi penetranti e taglienti, con le sue movenze scattose e una verve che fa quasi impallidire il generoso Tim Curry che da solo, letteralmente da solo, salvava la ormai dimenticabile produzione televisiva degli anni ‘90.
Il Male innominabile, nascosto nel profondo di ogni comunità, per quanto piccola, e nel profondo del subconscio di ogni essere umano, per quanto coraggioso, si manifesta principalmente nelle sembianze di un clown che indossa un costume dal design molto ricercato e studiato nei minimi particolari. Per riassumere in un unico capo d’abbigliamento tutte le generazioni in cui It ha portato a termine il suo bisogno di sangue, la costumista Janie Bryant ha ideato una tuta sagomata che include contemporaneamente reminescenze medievali, rinascimentali, elisabettiane e vittoriane, con tanto di plissettatura fortuny che contribuisce a rendere ancora più barocco, e quindi enigmatico, per anacronia, tutto l’insieme.
Una sorta di “lasciate che i bambini vengano a me”, ma con un epilogo contrario al messaggio evangelico-cristiano. Pennywise rappresenta il baratro della paura più profonda, il buio denso dove ogni cosa può perdersi per sempre, persino la più pura delle innocenze. Il Male nel suo stato più beffardo: orditore di inganni, come il Diavolo delle leggende popolari. Una creatura mutaforma che vive del dolore e delle sofferenze altrui e si nutre di sangue innocente, non prima di averlo annegato nella paura più soffocante.
«Galleggerai quaggiù! Tutti galleggiamo quaggiù! Sì! Galleggiamo!»
A sorprendere piacevolmente, se così si può dire anche in un horror, sono anche le molte trasformazioni di It, ben bilanciate tra citazioni letterali del romanzo e nuove idee che scavano nell’immaginario collettivo. L’essere senza forma che vive nelle acque nere e che, come l’acqua per mostrarsi in forma tangibile assume le sembianze di qualsiasi recipiente che possa scatenare sgomento, la bestia che sopravvive nei secoli dei secoli grazie ad un tacito tributo di carne fresca, fornito da vittime innocenti, non è che la naturale evoluzione di un archetipo che ha origine nella notte dei tempi: non c’è bisogno di scomodare trattati di antropologia per riconoscervi la paura allo stato puro, quella che i primi uomini esorcizzavano disegnando nelle grotte, protetti dal fuoco. È scritto nel nostro stesso DNA. Basta solo che ciascuno di noi ricordi. Stephen King ha solo dato voce a quello che abbiamo vissuto, per diretta esperienza, figurata o reale che sia, e che torna virtualmente negli incubi notturni, quando siamo più fragili e indifesi. O nel buio di una sala, come ha fatto egregiamente Muschietti.
L’opera più corposa di Stephen King (1986) è diventata negli anni il prototipo di tutta una sequenza di storie, nella sua stessa bibliografia come in quella di altri scrittori e sceneggiatori successivi. Da Stand by me a Cuori in Atlantide, se si vuole rimanere tra le pagine kinghiane, da I Goonies al più vicino, per ordine di tempo e per le sue molte affinità, Stranger things, tutti hanno raccolto spunti a piene mani, imparando la lezione che una ricetta perfetta è il risultato di una successione di ingredienti ben ponderati e pesati.
Un pizzico di Goonies, una bella dose di Stand by me, tanto Nightmare on Elm Street e, per finire, una spolverata quanto basta di Stranger things e la ricetta per il successo del nuovo It è pronta, basta infornare in una grande sala buia, ben climatizzata e dall’audio avvolgente e aspettare solo che la storia faccia il suo corso. E che storia! Una rivisitazione della fiaba gotico-grottesca tipica dei Grimm con tanto di utilizzo del sottotesto allegorico: sono tantissime le allusioni ai rituali d’iniziazione, alla perdita dell’innocenza, alla crudeltà amorale dell’infanzia, ai patti di sangue e ai tributi e sacrifici ad una divinità latente. Ma se sono una presenza costante nel romanzo, non lo sono così tanto nel film, per non appesantirne troppo la fruizione, probabilmente. Alla luce di questo, per quanto sia entusiasta di It: Capitolo uno, rimango dell’opinione che, per mettere ben in evidenza questi interessanti aspetti nascosti del romanzo, la forma perfetta sia una serializzazione di più ampio respiro. Netflix, pensaci tu!
«Prenderò tutti voi e mi nutrirò della vostra carne come mi nutro delle vostre paure!»
Resta scritto negli annali, comunque, che il più famoso romanzo di King ha finalmente avuto il degnissimo adattamento che meritava, con buona pace dei fan più integralisti. La Warner Bros, dopo ben due defezioni che avrebbero potuto minarne alle fondamenta la progettazione, ha coraggiosamente affidato il film ad un regista emergente ed è stata ripagata davvero a peso d’oro. Andrés Muschietti, argentino di chiare origini italiane, aveva diretto in precedenza solo un altro film: La Madre, un horror-thriller ben giudicato dalla critica internazionale, che ha come protagonista la Jessica Chastain che, quasi sicuramente, interpreterà la Beverly adulta in It: Capitolo due.
Dopo l’enorme successo ottenuto da It: Capitolo uno, per Muschietti si vocifera già di un nuovo ambizioso progetto da tramutare in oro: la trasposizione live-action di Robotech, la risposta datata 1985 agli anime giapponesi della Tatsunoko, di genere sci-fi war, che ha per protagonista un’intera fanteria di giganteschi robot. Nell’attesa, analizziamo quello che è a tutti gli effetti da considerare il nuovo horror campione d’incassi della storia del cinema.
I sette “Perdenti” [“Losers” in originale, come si può notare dalla scritta sul gesso di Eddie] hanno ottimamente interpretato i loro ruoli coinvolgendo non poco un target molto ampio di spettatori. Jaeden Lieberher [Midnight special, St. Vincent] è BILL DENBROUGH, che non ha mai superato la scomparsa del fratellino Georgie, finita nelle fauci di It. Il chiacchierone dalle mille voci RICHIE TOZIER è interpretato da Finn Wolfhard [protagonista di Stranger Things], Jeremy Ray Taylor [42, Geostorm] è l’architetto in erba BEN HANSCOM; Jack Grazer [Tales of Halloween, e prossimamente Shazam!] invece è il cagionevole EDDIE KASPBRAK. A completare il cast Wyatt Oleff [Guardiani dellae Galassia] alias STANLEY URIS, Chosen Jacobs, ossia MIKE HANLON, e Sophia Lillis, attrice estremamente fotogenica che sembra già di un altro pianeta mentre interpreta il personaggio di BEVERLY MARSH, e ha ancora solo 15 anni.
Al momento non è stata annunciata ufficialmente la lista completa degli attori chiamati ad interpretare i teenager ormai divenuti adulti in It: Capitolo due. Vi terremo aggiornati!
Insidious: l’ultima chiave, di Adam Robitel
L’effetto sorpresa è una delle componenti più importanti di un film horror, e non solo nella sua connotazione più immediata del jumpscare, ma in quella più estesa che riguarda l’intreccio, in cui un evento inaspettato arriva a capovolgere la situazione o l’immagine di un personaggio generando la paura. Ecco, in Insidious: l’ultima chiave l’effetto sorpresa manca completamente. Sarà perchè la saga che vede come protagonista la sensitiva Elise Rainier è ormai giunta al suo quarto capitolo, o perchè ha giocato le sue cartucce migliori nei due primi episodi diretti da James Wan, per poi limitarsi ad oscillare avanti e indietro nel tempo per cercare nuovi spunti narrativi, ma sembra che Insidious stavolta sia giunto davvero alla fine.
In questo capitolo il regista Adam Robitel fa un salto indietro nel tempo rispetto ai primi due episodi della saga, così come ha fatto il suo predecessore Leigh Whannell per Insidious 3 – L’inizio, ma stavolta il tempo si arrotola su se stesso fino agli anni Cinquanta, quando Elise Rainier era ancora una bambina e i suoi poteri si stavano appena risvegliando. Elise a quel tempo viveva nel New Mexico con i suoi genitori e il suo fratellino e lottava quotidianamente con i fantasmi che abitavano la sua casa. Lei era l’unica della famiglia a percepire la presenza di queste anime in pena, spesso morte tra atroci sofferenze e in cerca di aiuto, ma quello che per sua madre era un dono prezioso veniva percepito da suo padre come una sciagura e l’uomo non perdeva occasione di punire la figlia nella maniera più atroce possibile.
Da questo punto in poi l’asse temporale si sposta nel presente, ma in un momento precedente ai fatti dei primi due film della saga, quando Elise viene chiamata per estinguere le presenze che infestano la sua vecchia casa nel New Mexico. Il viaggio diventa l’occasione per scoprire l’origine del male che si nasconde tra le mura della sua infanzia e quanto il suo potere sia importante per aiutare sia i vivi che i morti. Nulla però sarebbe possibile senza l’aiuto della sua famiglia, o meglio di ciò che ne resta, e dei suoi fedeli aiutanti di Elise, Specs e Tucker, che non perdono occasione di alleviare la tensione con le loro gag esilaranti, mentre accompagnano la sensitiva nel suo viaggio verso l’Altrove.
L’Altrove, questa dimensione oscura in cui i demoni più malvagi trovano asilo e a cui solo pochi eletti possono accedere per estirpare il male alla radice, era l’effetto sorpresa del primo capitolo di Insidious, l’elemento inaspettato che trasformava la storia di una casa infestata simile a mille altre in qualcosa di completamente nuovo. Ora però la presenza dell’Altrove è qualcosa a cui lo spettatore si è abituato, e che per questo ha smesso di far paura. E sebbene sia un elemento irrinunciabile ormai, perchè rappresenta il tratto distintivo della saga se, come in questo caso, non viene supportato da svolte narrative all’altezza perde completamente il suo potere. In questo senso Insidious: l’ultima chiave, più che aprire nuove porte nella dimensione oscura che avvolge la saga, finisce per chiudere quelle già aperte riavvolgendo la storia invece che portarla avanti, in modo tale da far coincidere la fine con l’inizio. E sebbene questo nuovo capitolo sia fondamentale per comprendere l’origine del male che ha dato avvio ai tragici eventi che hanno costellato tutta la saga, è evidente che gli spunti creativi dei suoi autori si siano gradualmente esauriti e che sia giunto davvero il momento di mettere un punto a Insidious.