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Star Wars: L’ascesa di Skywalker, di J. J. Abrams

“Tanto tempo fa in una galassia lontana, lontana…”,

eppure non molto distante nel tempo né tantomeno nello spazio, è l’incipit leggendario di una delle saghe più belle e più seguite di tutta la cinematografia mondiale: Star Wars (o come i nostalgici ancora la chiamano Guerre Stellari).

E così dal 18 dicembre 2019 in tutti i cinema uscirà l’ultimo capitolo di Star Wars (l’episodio IX: l’ascesa di Skywalker) che vedrà contrapposta la Resistenza con una nuova ma antica minaccia rinominata “l’Ordine Finale”, con a capo uno storico personaggio della saga… ma non voglio svelare di più, che l’allerta spoiler è sempre dietro l’angolo.

Rispetto ai precidenti due capitoli della nuova trilogia firmata Disney (episodio VII: Star wars e il risveglio della forza ed episodio VIII Star Wars e gli ultimi jedi), il terzo capitolo vede attenuarsi sensibilmente gli intrighi e gli inganni di “buoni” e “cattivi”, prediligendo le scene di azione, di combattimento e le ricerche in una galassia tanto immensa quanto piccola.

Una narrazione travolgente con repentini cambi di scena e una buona dose di suspence (finalmente si conosce la vera storia di Rey e della sua “discendenza”), immerge lo spettatore, fra nuovi eroi e vecchie glorie del passato, in una dimensione tanto vicina alla nostra realtà da dimenticare di trovarsi in un futuro-passato non troppo distante né nello spazio né nel tempo dal nostro mondo.

Sì, perché in Star Wars: l’ascesa di Skywalker c’è tanto cuore e anima (forse troppo, ma d’altronde è ormai pur sempre un film Disney), in cui si affrontano tematiche attuali (guerre, giochi di potere, stragi), ma, soprattutto, si evidenziano i valori e i principi di ogni essere umano e la sua natura.

Una natura complessa e complicata. Infatti, perno centrale del film è l’animo umano, il suo essere, il lato oscuro e luminoso che alberga in ognuno di noi. Il “bene” ed il “male” smettono di essere facce della stessa medaglia e diventano un’unica faccia nella quale entrambe si avviluppano e intrecciano fra loro, generando confusione ed incertezze. La luce accecante che proietta le sue ombre è ottenebrata da un’oscurità non del tutto cupa, nella quale risiede, anche se nel profondo, un barlume di speranza… un labirinto in cui a volte ci si perde, altre si ritrova la strada per poi riperdersi e nuovamente ritrovarsi in un cerchio infinito; dove né la forza né il lato oscuro sono preponderanti poiché tutto dipende dalle scelte di ognuno di noi. Ma, soprattutto, non importa chi siamo, da dove veniamo, la nostra discendenza, perché ciò che davvero conta è ciò che facciamo, come agiamo e… le colpe dei padri non possono e non devono ricadere sui figli. Perché Star Wars: L’ascesa di Skywalker questo insegna: non siamo ciò che siamo, ma siamo ciò che scegliamo di essere. Perché la vita di ognuno di noi è composta da luci ed ombre, da un lato chiaro e uno scuro, dal “bene” e dal “male”, ma sta a noi optare per l’uno o l’altra strada con fermezza e determinazione, speranza e volontà.

In conclusione, quindi, molti fan delle passate trilogie (soprattutto le prime in cui il fascino di Dart Fener rimane e rimarrà incontrastato per l’eternità) storceranno un po’ il naso (soprattutto per qualche errore di troppo e qualche caduta un po’ di stile), ma rispetto ai precedenti episodi della nuova trilogia, Star Wars: l’ascesa di Skywalker è nettamente superiore sotto tutti i punti di vista.

Un universo che ha fatto sognare e crescere generazioni, che ha formato uomini e donne si conclude con l’ultima lezione di vita, forse la più importante: che siamo noi gli artefici del nostro destino e che nonostante tutto c’è sempre speranza per ognuno di noi.

Ma noi tutti non dimenticheremo mai Star Wars, Guerre stellari perché quella storia vivrà sempre in noi e nei nostri cuori e non si concluderà mai perché vivrà nei nostri ricordi:

“Tanto tempo fa in una galassia lontana, lontana….”

Solo: A Star Wars Story, di Ron Howard

Approda oggi in tutti i cinema il nuovo audace capitolo della saga stellare ideata da George Lucas:  Solo: A Star Wars Story secondo spin off, dopo Rogue One, estrapolato dal filone narrativo centrale che intanto procede sui binari di una nuova trilogia sequel.
Come suggerisce il titolo, il film è un origin story che intende approfondire il background di uno dei personaggi più emblematici dell’universo narrativo di Star Wars, il contrabbandiere Han Solo.
Il film quindi ripercorre una parte delle vicende precedenti alle avventure vissute dall’eroe nella serie canonica, gettando così un ponte che connette l’oscuro passato sul pianeta di origine al personaggio che irrompe nella pellicola del ’77.

All’epoca Han Solo – che per esattezza di cronaca da noi si chiamava Jan Solo e che come tutti gli altri personaggi ha recuperato il nome originale nella versione italiana solo a partire dalla più recente trilogia – aveva il volto di Harrison Ford, un’incarnazione la sua che è entrata di diritto nella leggenda.
Questa dunque la sfida maggiore a cui fare fronte: dare un volto nuovo a uno dei personaggi più iconici della storia cinematografica. Impresa non da poco se si aggiunge che il pubblico di Star Wars è esigente e nella maggior parte dei casi morbosamente attaccato al canone originale.
E le polemiche, come da copione, non sono mancate. Non ci si poteva certo aspettare che i fan di vecchia generazione digerissero facilmente la notizia di un Han Solo con una faccia nuova, nemmeno se questa connotazione include il volto sbarbato e il ciuffo ribelle di Alden Ehrenreich.
Il giovane attore però, già messo alla prova da una doppia collaborazione con Francis Ford Coppola e forte di una benedizione avuta da Ford in persona, regala un’interpretazione tutto sommato convincente e credibile, senza sbavature ma anche senza particolare spessore, sicuramente a causa proprio della pesante erdità di un ruolo a cui resta manualisticamnete fedele, senza aggiungere nulla di suo.

Nemmeno il pretesto di un “personaggio più giovane” basta da solo a giustificare un volto diverso dall’originale, per il semplice fatto che alla sua prima apparizione Ford incarnava un Han nel pieno della sua aitante e sfrontata giovinezza. Probabilmente, per risolvere in modo credibile la spinosa questione del cambio generazionale, sarebbe bastato anticipare ulteriormente l’anagrafica della nuova versione del personaggio e regalarci un Han appena adolescente, dai tratti immaturi e acerbi che si potevano credibilmente trasformare in quelli della irresistibile canaglia a cui il pubblico è affezionato.
Tuttavia un modo per sopravvivere alla logica impopolare della produzione hollywoodiana e godersi un film in fin dei conti ben confezionato esiste: è sufficiente ricordarsi che Han Solo è un personaggio. In quanto tale esso non si identifica con un volto ma con una serie di attributi e di caratteristiche che ne incarnano lo spirito. Preservare questo insieme di elementi è l’unica vera necessità per non tradirlo. I volti, lezione pirandelliana antipatica ma onesta, sono in questo senso del tutto intercambiabili.

Ma torniamo allo Han di Alden Ehrenreich che riporta sullo schermo un personaggio complesso proprio per la sua incrollabile autenticità. Conosciamo Solo come un eroe sui generis, scanzonato, sfrontato più che coraggioso, un mercenario scaltro, che si barcamena tra debiti e imprese pericolose, ma risponde a un codice etico di profonda lealtà e si schiera dalla parte dei buoni senza riserve.
La nuova versione rispetta il quadro originale ma lo arricchisce di una serie di sfumature che erano già in parte percepibili: il giovane Han è un ragazzo cresciuto in un ambiente di schiavitù e illegalità, è impetuoso e irresponsabile ma sopratutto è mosso da un desiderio di riscatto fuori dal comune. Del tutto refrattario all’autorità, abbadona l’Accademia Imperiale in cui si era arruolato per diventare pilota e si unisce a un gruppo di mercenari al servizio di un criminale senza scrupoli. Nel corso di un affare più grande di lui si imbatterà in una cellula primordiale dell’Alleanza Ribelle.

Una parte del materiale narrativo usato nel film deriva da una serie di pubblicazioni ufficiali uscite tra il ’97 e il ’98 e che a loro volta sviluppavano un filone inaugurato con la trilogia di romanzi di Brian Daley risalenti al 1979, incentrata sulle avventure di Solo. È il cosidetto Universo Espanso, un insieme di prodotti realizzati su licenza che comprendono storie riferite a una linea temporale di parecchie migliaia di anni precedenti La minaccia fantasma. Nei romanzi di fantascienza considerati canonici dalla Lucasfilm, si racconta ad esempio del primo incontro con Chewbecca, tuttavia la versione cinematografica ha sapientemente rimosso i passaggi più crudi e forse anche più coinvolgenti, nel rispetto di una logica di mercato che vuole prodotti adatti a un pubblico anche molto giovane.

Si punta quindi molto di più sul tono avventuristico delle vicende di Han e del suo inserapabile compagno Wookie, di cui si approfondisce anche la storia personale. Non manca qualche gag divertente per un duo dalla presenza scenica sempre vincente.
Altro merito del film è senza dubbio quello di non concentrarsi troppo sulla caratterizzazione del protagonista ma di lasciar spazio ad altre figure, vecchie e nuove, delinenadone contorni ben  definiti. Ogni personaggio ha la sua storia personale, agisce in funzione di proprie motivazioni e non mostra apertamente i propri intenti, con il risultato che nessuno di essi risulta banale.

Tra i personaggi di nuova generazione emerge la bella Qi’ra, interpretata da una sempre perfetta Emilia Clarke, donna carsimatica, di grande fascino, legata indissolubilmente al passato di Han in un modo che però resta oscuro, e capace di ritagliarsi uno spazio tutto suo all’interno non solo del film in questione ma dell’intero universo di Star Wars.
Potente figura di raccordo tra la pellicola e la saga originale è invece Lando Calrissian, che nella sua versione giovanile ha il volto dell’eclettico e talentuoso Donald Glover, il quale sembra per altro perfettamente a suo agio negli eccentrici panni del personaggio e ci regala un’interpretazione che non ha nulla da invidiare all’originale.

Soprendentemente ogni ruolo trova il suo posto all’interno di un mosaico più ampio, o allacciandosi in modo unico alla saga di riferimento o confermando quello che della storia già si conosce, come accade con l’epica partita di Sabbac che segnerà il destino di Han e che finalmente si svolge sotto gli occhi divertiti dello spettatore.

La regia di Ron Howard fa il resto: il ritmo è ottimo, mentre lo spirito documentaristico tipico del regista è funzionale alla costruzione di una realtà credibile, sopratutto in linea con il gusto vintage della prima trilogia. L’atmosfera da saga epica non manca ma è come se restasse confinata ad alcuni vertici narrativi, mentre a dominare è il registro avventuroso.
I canoni del film di azione ci sono un po’ tutti: dal western, con tanto di attacco al convoglio e esplosivo sui binari, alla spy story, con party lussosi in cui si fanno loschi affari.

A voler trovare un difetto, si può dire che qualche passaggio emotivo è troppo velocemente risolto e archiviato ma è pur vero che Han Solo è essenzialmente un personaggio d’azione (se vogliamo il personaggio d’azione per eccellenza della saga) e tanto basta a relegare il gusto del film al ritmo narrativo serrato e agli stereotipi del genere.
Il sapiente Howard, ben consapevole dei rischi che rappresenta la direzione di un film della saga di Star Wars, ha creato un giusto equilibrio tra la sua personale poetica, caratterizzata da una regia controllata e puntuale, e quello che il pubblico di estimatori si aspetta di vedere.

Compaiono uno dopo l’altro gli oggetti-attributo del protagonista, dal blaster, ai mitici dadi dorati che hanno un valore scenico enorme sottolineato da un richiamo visivo e mataforico costante, fino all’apparizione degna di una standing ovation del Millenium Falcon, la leggendaria nave che segnerà per sempre il destino del pilota più veloce della Galassia e che rappresenta uno degli elementi di massimo culto per i fan.
Ogni azione, sopratutto ogni reazione, porta Han Solo più vicino al personaggio della trilogia originale. Più che della nascita di un eroe, assistiamo quindi al suo graduale formarsi e delinearsi fino a incasellarsi nel posto in cui la storia ce lo ha consegnato: nella cabina di pilotaggio del Millenium con accanto il compagno di avventure di una vita, in un continuo battibecco con il rivale Lando, sempre pronto a inseguire l’affare successivo, rapido a imparare la lezione quando serve e anche a sparare per primo quando la situazione lo richiede (Greedo docet). In punta di piedi e in modo originale, il film introduce il tema dell’Alleanza Ribelle facendo intendere che il futuro eroico di Han è solo momentaneamente rimandato. È come se in questo primo capitolo della sua personale storia Han imparasse l’importanza della collaborazione e scoprisse quello che imparerà più avanti, a credere cioè che al di là di una realtà fatta di interessi personali e tradimenti, c’è un mondo di valori positivi per cui vale la pena combattere. Sarà questa lezione a trasformarlo da lupo solitario a eroe coinvolto nella difficile battaglia di Luke Skywalker, Leia Organa e Obi-Wan Kenobi. E sarà questo arco evolutivo a renderlo così amato dal grande pubblico.

Solo: A Star Wars Story continua il canone inaugurato dalla gestione Disney della Lucasfilm che intende accendere i riflettori sulle infinite pieghe narrative messe a disposizione dall’immenso universo ideato da George Lucas. Sono le storie che fanno parte del marchio Star Wars Legend, etichetta nata nel 2014 quando la Disney ha messo un punto ufficiale all’Universo Espanso e che comprende tutti i materiali ufficiali realizzati prima della nuova trilogia.
Dopo l’epica battaglia corale realizzata con Rogue One,  assistiamo ora a un vero e proprio viaggio iniziatico, all’investitura ufficiale di un eroe.
Perchè in fin dei conti tutti i grandi eroi hanno un’origine. È una lezione che ci ha trasmesso la mitologia greca, sempre protesa a definire cosmogonie di suoi personaggi di riferimento per avere metafore universali con cui definire la realtà. Certo, la Walt Disney Company è mossa da motivazioni molto più materiali, interessata com’è allo sfruttamento di un brand che è un cult da traghettare a una nuova generazione di appassionati compratori.
Ma resta pur vero che Star Wars è una saga che negli intenti e nel risultato ha lo stesso spessore di un racconto eroico delle civiltà antiche: una saga familiare, uno scontro tra il bene e il male che assume contorni mitici, personaggi iconici che rappresentano l’idealizzazione di valori quali il coraggio, la fedeltà, l’altruismo e il sacrificio.

Che la storia sia un arechetipo ancestrale o una pietra miliare della cultura pop contemporanea, che sia essa ambientata nell’antica Grecia o in una Galassia lontana lontana il risultato non cambia: il viaggio dell’Eroe ci appassiona perchè muove da un urgenza interiore all’azione e incarna quel desiderio di avventura che è patrimonio mondiale dell’umanità (nerd).
E Han Solo è un personaggio che vale la pena seguire sempre, al di là della sua incarnaziona fisica, fosse anche solo per il piacere di fare un giro sul Millennium Falcon. Per cui fidatevi del suo “buon presentimento” e godetevi il salto nell’iperspazio.

Star Wars: Gli ultimi Jedi, di Rian Johnson

Abbiamo visto in anteprima Star Wars: Gli ultimi Jedi. Il film ha le carte in regola per lasciare il pubblico senza parole… ma noi di ShakeMovies ne abbiamo qualcuna da rivelare. Senza spoiler, promesso!
Esce oggi in tutte le sale italiane il nuovo attesissimo capitolo della saga creata da George Lucas nell’ormai lontano 1977. Il tempo però non ha minimamente scalfito il potere carismatico del mito degli Skywalker, che vive una nuova giovinezza con il sequel del segmento centrale della storia, dopo il prequel che ci ha fatto conoscere il passato del temibile Darth Vader e dopo Rogue One il primo della cosiddetta serie Antology che spiega i retroscena di uno dei fondamentali snodi narrativi principali del filone centrale (non ci soffermeremo su cavillose diatribe relative all corretto ordine di visione dei film, siamo nerd è vero… ma manteniamo un contegno!).

Torniamo al film. Se il primo capitolo di questa terza (e ultima?) trilogia aveva lo scopo di emozionare puntando al ritorno in sala di una schiera di appassionati affamati di avventure di Han Solo e compagnia (e badate bene questa era la forza ma anche il maggiore ostacolo dell’operazione cinematografica), intento per altro riuscito se si mettono da parte le inevitabili polemiche che accompagnano ogni tentativo di toccare il mito, questo secondo tassello della saga aveva il compito un solo compito: confermare.

Confermare in primis la solidità di un inedito filone narrativo che nell’avvio prometteva bene ma allo stesso tempo rischiava pericolosamente il fallimento; confermare lo spessore di personaggi che, schierati accanto a figure entrate a pieno titolo nella leggenda cinematografica,  avevamo appena visto muovere i primi passi all’interno dell’azione inserendosi per altro all’interno di una scacchiera e di un universo che in virtù delle pellicole passate aveva solidissime basi.
Per finire questo ennesimo film doveva confermare che una storia all’apparenza già scritta (e volendo anche conclusa) ha invece altro da raccontare. Operazione riuscita. I tasselli del puzzle combaciano e lo fanno pure in modo spettacolare!

Scritto e diretto da Rian Johnson, prodotto da Kathleen Kennedy e Ram Bergman, Star Wars: Gli Ultimi Jedi riparte esattamente da dove ci aveva lasciato il capitolo precedente: da una parte Ray (Daisy Ridley) incaricata dalla Resistenza di recuperare il maestro Jedi Luke Skywalker (Mark Hamill), dall’altra il malvagio Kylo Ren (Adam Driver) frustrato dall’onta della sconfitta che brucia più delle ferite fisiche.

Intorno a questi due giovani poli del bene e del male ruota una schiera di personaggi tanto umani quanto divertenti, eroici ma pieni di limiti e di paure. Il cast, oltre ovviamente a riconfermare le figure già incontrate in Il risveglio della forza, si arricchisce di pedine interessanti: tra tutti spiccano Laura Dern, nel ruolo del Viceammiraglio Amilyn Holdo e l’attesissimo Benicio del Toro nei panni di un ambiguo hacker scassinatore (l’annuncio della sua partecipazione al film risale addirittura al 2015). Inutile sottolineare l’emozione di vedere ancora una volta la splendida Carrie Fisher nei panni della indomita principessa Leia. L’attrice, scomparsa lo scorso 27 dicembre, aveva già terminato le riprese de Gli ultimi Jedi e non sono state necessarie inserzioni digitali in CGI (che avrebbero fatto indiavolare molti, per primo papà Lucas).

J.J. Abrams, sveste per questo capitolo i panni del regista e si “limita” a ricoprire il ruolo di produttore esecutivo, insieme a Tom Karnowski e Jason McGatlin.
Inutile dire che la nuova gestione non si risparmia su effetti speciali e visivi (diretti rispettivamente da Chris Corbould e Ben Morris), scene di azione, esplosioni, combattimenti e salvataggi in extremis. Si conferma anche la cura per una fotografia volutamente spettacolare curata da Steve Yedin, che aveva già caratterizzato la storia di Rey dalla sua prima comparsa nel pianeta desertico Jakku, e le immancabili evoluzioni delle astronavi da guerra a cui siamo affezionati fin dal primissimo Guerre stellari. Il tutto letteralmente un colpo di scena dietro l’altro.

Lo zampino di un talentoso team di creativi dell’industria cinematografica emerge dalla cura e dalla spettacolarità di tutto un nuovo set di creature che popolano i vari pianeti della galassia di Star Wars, alcune delle quali sono state create in digitale altre invece frutto di uno straordinario lavoro di “trucco e parrucco” che non fa rimpiangere quel tocco vintage delle prime pellicole della serie. Tra gli autori di questi incantevoli dettagli: Rick Heinrichs (Scenografo), Peter Swords King (Hair e Make-Up Designer), Neal Scanlan (Supervisore creativo delle creature e dei droidi), Michael Kaplan (Costume designer) e Jamie Wilkinson (Responsabile degli oggetti di scena).

Un po’ di curiosità: Come Il risveglio della Forza, anche Gli ultimi Jedi è girato su pellicola a 35mm (diverse sequenze del film sono state girate in formato IMAX). Il regista Rian Johnson girava sul set con la sua personale camera e amava fotografare tutto quello che trovava interessante: tra le cose interessanti fotografate pare ci sia il suo nome inciso sul Millennium Falcon!
Lo stesso Rian Johnson per altro compare in un cameo in “Rogue One: A Star Wars Story” come tecnico imbarcato con la flotta imperiale.

Dei ben 120 set allestiti per il film, quello meno praticabile si è rivelato essere il villaggio dei Jedi: ideato per sorgere sulla West Coast in Irlanda, per ragioni pratiche, logistiche e di sicurezza è stato interamente ricostruito in studio. Solo dopo che le scene con gli attori erano state girate il set è stato smontato e ricostruito sulle coste irlandesi.

Tra atmosfere esotiche, rivelazioni e sacrifici eroici lo spettatore è portato a emozionarsi di volta in volta insieme ai personaggi principali per le loro scelte cariche di sofferenza: primo fra tutti un Luke tutt’altro che ascetico si mostra in una versione terrena, disillusa ma anche profondamente umana. Ray sospesa tra un passato oscuro e la sua forte volontà si scontrerà a viso aperto con la sua vera identità.
E ancora: Poe Dameron (Oscar Isaac), Finn (John Boyega) e la nuova coraggiosa leva Rose Tico (Kelly Marie Tran), ogni personaggio dovrà mettere in discussione la dicotomia tra buoni e cattivi, rivalutare i concetti di sacrificio e speranza, ognuno di loro dovrà fare i conti con il fallimento e con ciò che esso insegna. Sovrasta ogni singola storia l’eterno conflitto tra il Primo Ordine e la Resistenza. I giusti ingredienti della storia epica dunque non mancano.

In difesa quindi di chi grida al tradimento dello spirito originario della saga, possiamo dire che senz’altro il film appassiona, intrattiene, giustifica ogni passaggio e convince. Paradossalmente trovano giustificazione anche gli espedienti apparentemente più banali e semplicistici che si rivelano invece godibili nella loro gratuita spettacolarizzazione e in fin dei conti funzionali a preservare lo spirito di una storia basata sull’avventura, sul coraggio e sulla passione. Già perché questo è Star Wars per gli appassionati: l’emozione di una storia semplice, primordiale nel suo contrapporre il bene e il male in una sfida definitiva e senza sconti.
Una fede questa che moltissimi confermano nel tempo e che molti altri giovanissimi stanno scoprendo grazie ai film confezionati in casa Disney.

Insomma, ci sarà anche un’ondata di merchandising non proprio rispettosa del cult, ma vale sempre la pena farsi trasportare “in una galassia lontana lontana…”

I film del 2016 più amati dalla nostra redazione

L’anno cinematografico appena trascorso ci ha regalato grandi emozioni, riuscendo portare sul grande schermo film estremamente eterogenei tra loro, ma tutti di grande impatto visivo e narrativo. Scegliere quali film portare nel nuovo anno non è stato facile, proprio perché ognuna di queste opere cinematografiche segue un linguaggio diverso e sa veicolare le emozioni calandosi a fondo nella realtà oppure sconfinando nella fantasia, per questo abbiamo scelto le storie che più ci hanno toccato il cuore e che secondo noi sopravviveranno al passare del tempo per la loro forza espressiva. Questi sono i 20 film che abbiamo amato di più e che non smetteremmo mai di guardare. Buona lettura!

1 – Zootropolis, di Byron Howard e Rich Moore

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2 – Animali Fantastici e Dove Trovarli, di David Yates

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3 – Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti

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4- Perfetti sconosciuti, di Paolo Genovese

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5 – The Danish Girl, di Tom Hooper

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6- Il Piccolo Principe, di Mark Osborne

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7- Captain Fantastic, di Matt Ross

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8- The Hateful Eight, di Quentin Tarantino

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9- Room, di Lenny Abrahamson

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10- Revenant, di Alejandro González Iñárritu

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11- Il caso Spotlight, di Tom McCarthy

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12 – Carol, di Todd Haynes

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13- Deadpool, di Tim Miller

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14 – La pazza gioia, di Paolo Virzì

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15- Alla ricerca di Dory, di Andrew Stanton

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16 – Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards

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17 – Animali notturni, di Tom Ford

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18 – Sing Street, di John Carney

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19 – Macbeth, di Justin Kurzel

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20- Captain America: Civil War, di Anthony e Joe Russo

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Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards

Se mai un giorno la nostra civiltà sparisse e qualcuno dovesse studiarne la cultura, come noi abbiamo analizzato le antiche vicende di eroi della Grecia antica, l’archeologo incaricato non potrà esimersi dalla visione dell’intera saga di Star Wars, ma soprattutto, non potrà non notare le analogie che Rogue One: A Star Wars Story scatena con alcuni tra i brani più famosi dell’epos omerico e virgiliano, nonché con la più moderna epica cavalleresca.

Senza scendere troppo nel dettaglio per non togliere sorprese a quanti ancora non hanno goduto della visione di questo colossal, grandiosamente scritto a tal punto da suscitare l’approvazione fino alla commozione anche dello spettatore più scettico o meno ferrato.

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«Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana….»

Così, ovviamente, inizia anche Rogue One ed è subito chiaro che Edwards, pur mantenendo vivo il suo bambino interiore che ha plasmato quell’universo ormai consolidato in modo da adattarlo al suo mondo interiore, sfrondandolo dagli eccessi, dalla retorica fine a se stessa e dall’autocelebrazione a tutti i costi e generando tutta una serie di personaggi nuovi che vivono eventi, di cui, in realtà, si conosce già l’esito, ma che tengono con il fiato sospeso, sempre e comunque. Il merito va ad una sceneggiatura solida che unisce alla fervida e briosa immaginazione di Chris Weitz [Cenerentola, ma anche About a boy] e all’alto tasso di adrenalina di Tony Gilroy [a lui si deve l’adattamento della saga di Jason Bourne], sul soggetto originale del visionario Gary Whitta [Codice Genesi, After Earth e The Walking Dead: The Game – Season 1], che ha supportato John Knoll, alla sua prima prova da scrittore, ma che è, in realtà, una pietra miliare della saga, avendo saltato, da supervisore degli effetti speciali, solo Episodio V – L’impero colpisce ancora.

Una sceneggiatura che, tra le tante gesta degne di nota, narra un episodio di amicizia virile sincera e leale fino al comune tragico destino, un episodio simile a quello di Eurialo e Niso, reso esemplare da Virgilio nell’Eneide, ma anche imprese eroiche di uomini e donne con sommi ideali di giustizia e libertà gridati a gran voce e sbandierati fino al sacrificio estremo, come si tramanda nelle leggende popolari di tutto il mondo; e quando una figura si staglia sul campo di battaglia e attende inamovibile l’inesorabile destino, viene in mente la fierezza del gigantesco Aiace di Omero. Il legame con la leggenda diventa esplicito, poi, se il titolo usato per consegnare segretamente Rogue One nelle sale americane è stato The Alamo.

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Anche i nomi della tradizione lucasiana continuano a rimandare a duelli ancestrali tra il Bene e il Male, Yin contro Yang, che assumono le fattezze originarie di Mon Mothma, figura positiva legata anche etimologicamente al concetto ancestrale di dea “madre”, e Darth Vader, che rimanda alla radice indoeuropea da cui si è formata la parola “padre” e che possiede caratteristiche simili a quelle dell’Oscuro Signore di tolkeniana memoria, nonché al primordiale dio cornuto, la bestia che porterà all’armageddon attraverso un’arma di distruzione di massa, la Morte Nera, che si presenta all’apparenza ingannevole, simile ad una rassicurante luna che, attraverso la luce da sempre benevola, per tutte le culture, qui è latrice di devastazione e annichilimento di ogni forma di vita.

«Tu confondi la pace con il terrore»

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Il regista Gareth Edwards – già apprezzato dalla critica per l’affascinante Monsters, uno sci-fi found-footage catastrofico a low-budget, ed il riuscitissimo reboot di Godzilla – si conferma un fanatico vero della saga ideata da George Lucas ed opera con una cura maniacale del dettaglio, andando a sopperire a mancanze sostanziali come personaggi assenti durante le riprese, per diversi motivi, ricostruiti in CGI e dei quali non basta la notevole attenzione da “addetti ai lavori” per riscontrarne la mancanza di genuinità; oppure andando a riprendere e ricostruire stretto tra le aspettative di un pubblico storicamente molto esigente e integralista fino al midollo e la differenza di mezzi tecnici ed espressivi, che intercorrono tra Episodio III – La vendetta dei Sith (2005) ed Episodio IV – Una nuova speranza (1977), tra i quali va di fatto ad inserirsi secondo la logica temporale. Sì, perché le vicende narrate in Rogue One s’inseriscono appena prima dell’Episodio IV, anzi il plot narrativo da cui è partita la stesura del soggetto è proprio un estratto dal famosissimo opening crawl da cui tutto questo intramontabile fantasy ambientato nello spazio è partito, e cinque anni dopo la serie televisiva animata Star Wars Rebels (2014), prodotta da Lucasfilm e Lucasfilm Animation, a sua volta ambientata quattordici anni dopo l’Episodio III – La vendetta dei Sith.

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Nel corso della serie animata l’Impero Galattico allarga il proprio dominio sulla galassia, dando contemporaneamente la caccia agli ultimi cavalieri jedi rimasti, mentre una nascente ribellione contro l’Impero sta prendendo forma. Lo stile visivo di Star Wars Rebels è fortemente ispirato al concept art della trilogia originale di Guerre stellari (così lo chiamavano tutti allora) ad opera del premio Oscar® Ralph McQuarrie [E.T. e Cocoon] e non poteva che essere altrimenti per Rogue One. Troppo riduttivo chiamarlo spin-off.

«Le stelle più forti hanno un cuore di kyber»

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SINOSSI:

Lo scienziato Galen Erso [Mads Mikkelsen, Valhalla rising, Doctor Strange], dopo aver lavorato per anni per l’Impero Galattico, si è ritirato sul pianeta Lah’mu per vivere in serenità con la sua famiglia. Raggiunto dal Direttore Imperiale Krennic [Ben Mendelsohn], Erso viene catturato e costretto a completare la progettazione della Morte Nera, una stazione spaziale capace di distruggere con facilità un intero pianeta in pochi minuti. La figlia Jyn riesce a fuggire e a mettersi in salvo.

Quindici anni dopo, Jyn Erso [Felicity Jones, La teoria del tutto] è in una prigione imperiale e l’ufficiale ribelle Cassian Andor [Diego Luna, Il libro della vita], accompagnato dal fedele droide K-2SO [Alan Tudyk], ha ricevuto ordine dai ribelli di liberarla per rintracciare Galen ed impedirgli di completare l’arma. Nel frattempo lo scienziato ha inviato un messaggio di fondamentale importanza per le sorti della guerra che verrà e, in gran segreto, ha operato al fine di sabotare la Morte Nera. Sottrarne i piani di progettazione è l’unica soluzione, ma chi sarà tanto pazzo?

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«Non sono ottimista sulle probabilità»

Storia di società matriarcali contro società patriarcali, scontro generazionale per antonomasia, le Guerre stellari di Lucas continuano a separare Yin e Yang e i padri dai figli per ricongiungerli amaramente in abbracci negati. Ma vi è una storia parallela, di amicizia tra uomo e donna, forse un amore in forma embrionale, fatto sta che questa amicizia è suggellata da un abbraccio che rimarrà stampato indelebile nei ricordi dello spettatore proprio per il supremo valore che questo semplice gesto d’affetto può rappresentare. Abbracciandoci entriamo in contatto con la porzione vitale del corpo, adoperando un linguaggio che, senza parole, sa comunicare una gamma di sentimenti ed emozioni superiori a quelle di un bacio, anche il più sentito. Recenti studi scientifici sostengono che abbracciarsi crei addirittura una sincronizzazione cerebrale, anche tra estranei, un’armonizzazione che genera energie positive, paragonabile all’essenza stessa della Forza, in fondo. Ebbene, in quel gesto puro i cuori di due dei personaggi di Rogue One sembrano toccarsi, il loro respiro si sincronizza, il calore umano diviene quasi tangibile anche per il pubblico in sala. Tutto Star Wars è racchiuso in quei pochi secondi in cui niente si è detto ma tutto risulta chiaro, in cui non importa se si deve in fretta prepararsi a morire, perché non ci sono rimpianti ad immolarsi per il bene della propria patria e dei propri compagni d’avventura e, soprattutto, la morte non fa paura se la si può affrontare stretti nell’abbraccio di un vero amico.

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È qualcosa che fa dimenticare anche che non c’è che una spada laser in tutto il film, e nemmeno un cavaliere jedi, anche se è magnifica la scelta di far vedere come la Forza operi nel cuore di chi ha una salda volontà di fare del bene, un esempio per tutti il cieco Chirrut Îmwe [Donnie Yen, Ip Man] che, emulando Zatoichi, rievoca uno dei riferimenti principali di Lucas: l’affascinante cultura legata alla casta guerriera dei samurai. Il successo di Rogue One è tutto nella scrittura e nel suo fornire importanza estrema ai gregari e al sentimento di speranza che pervade l’intera opera e si riannoda a quel 1977 quando qualcosa stava per accadere in una galassia lontana lontana.

«Le ribellioni si fondano sulla speranza»

Quell’abbraccio rappresenta la speranza che ci sarà sempre un sentimento positivo tanto potente da saper contrastare ogni possibile perversità del lato oscuro della Forza. Inoltre, è l’abbraccio ideale dello spettatore e del fan-regista ai personaggi che tanto hanno generato partecipazione a livello empatico, come non capitava da tempo.

«Resto in disparte anche se c’è un problema all’orizzonte: non c’è orizzonte!»

Altro elemento immancabile e, in Rogue One, davvero ben orchestrato è il lato comico, affidato, come consuetudine, soprattutto al droide K2-SO, doppiato da Alan Tudyk, caratterista e doppiatore di successo [Io, robot, Big Hero 6, Frozen]. Un robot ben poco rassicurante per la sua matematica inclinazione al pensiero negativo come il Marvin di Guida galattica per autostoppisti ma che richiama l’automa di Laputa – Castello nel cielo di Hayao Miyazaki nella fisionomia e in una straordinaria dimostrazione d’affetto per l’«imprevedibile» Jyn.

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«Tra noi c’è chi ha deciso di cambiare le cose»

Terzo lungometraggio del franchise, il primo dopo Episodio III, ad essere girato direttamente in digitale con camere Arri Alexa 65, equipaggiate con lenti Ultra Panavision 70, Rogue One si distingue dagli altri film della serie anche per la colonna sonora, affidata per la prima volta non a John Williams, ma ad un altro premio Oscar®, Michael Giacchino [Up, Zootropolis, Doctor Strange, Inside out], che crea una nuova partitura che commenta senza predominare e rubare la scena senza però dimenticarsi di citare i brani tradizionali con delle reprise ad hoc.

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E ora? Aspetteremo con ansia l’uscita di Rogue One in DVD e BluRay e poi sarà la volta di Episodio VIII e Episodio IX, che sono stati annunciati per il 2017 e 2019 e saranno diretti rispettivamente da Rian Johnson molto apprezzato dalla critica per i suoi precedenti Brick – Dose mortale, The brothers Bloom e Looper, e Colin Trevorrow, conosciuto per aver diretto film di grande successo come Safety not guaranteed e il kolossal Jurassic World.

Inoltre, come già accaduto per DC, Marvel e lo Universal Monsters Universe, è stata annunciata la produzione di una serie di spin-off, chiamati Star Wars Anthology, programmati in modo da avere dal 2015 al 2020 un film della saga ogni anno. Quello del 2018 dovrebbe avere come protagonista Han Solo, quello del 2020 ancora è segreto. Il primo dei tre spin-off, diretto da Gareth Edwards è un capolavoro. Ora, con il beneplacito della Forza provate a fare di meglio!

«Non sono ottimista sulle probabilità»

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I film più belli del 2015

Il 2015 è stato un anno ricco di sorprese cinematografiche, in cui le opere di pregio dei cineasti più affermati hanno fatto a gara con pellicole di grande valore originalità di autori meno noti, ma non meno promettenti. La redazione di ShakeMovies ha selezionato i film più belli, quelli da vedere e rivedere senza stancarsi mai e da custodire gelosamente nella propria videoteca.

1. Birdman, di Alejandro González Iñárritu

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2. Whiplash, di Damien Chazelle

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3. Dio esiste e vive a Bruxelles, di Jaco Van Dormael

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4. Kingsman – Secret Service, di Matthew Vaughn

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5. MadMax: Fury Road, di George Miller

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6. Inside Out, di Pete Docter

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7. Cenerentola, di Kenneth Branagh

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8. Jurassic World, di Colin Trevorrow

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9. Star Wars: Il Risveglio della Forza, di J. J. Abrams

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10. Big Eyes, di Tim Burton 

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Regali di Natale? Suggerimento #4

Mancano poche ore e ancora non avete comprato niente per l’appassionato di cinema. Ma, cosa fargli che probabilmente non ha già? Occorre un regalo ricercato… Come Star Wars ha conquistato l’universo probabilmente fa al caso vostro: il libro che mette d’accordo tutti dal fan dell’ultima ora al maniaco di vecchia data, dal neofita al lettore più navigato. Il libro di Chris Taylor, edito da Multiplayer Edizioni, è un grande studio del capolavoro space fantasy che ha incantato generazioni per tanto tanto tempo e che sempre avrà da raccontare per tanto tanto tanto tanto altro tempo ancora.


«La realizzazione dell’opera di Lucas è divenuta leggendaria quasi quanto la storia che il film racconta e chissà che parte delle difficoltà e delle sfide affrontate dal creatore della saga cinematografica più celebre del mondo non abbia lasciato un segno più profondo di quanto non si pensi nel risultato finale e sull’evoluzione stessa della sua creatura. Molto è stato scritto e raccontato in proposito – e il presente libro è il resoconto più approfondito ed esaustivo sull’argomento che sia mai stato scritto finora – sia ufficialmente sia ufficiosamente, ma tutto ciò forse è assai meno importante rispetto all’impatto planetario che Star Wars ha avuto sull’industria cinematografica e, di conseguenza, sull’immaginario collettivo mondiale».

Il resoconto di Chris Taylor è dinamico e coinvolgente e spiega come il sogno di un regista si sia realizzato ben oltre la sua stessa fervida immaginazione.

Come Star Wars ha conquistato tutti con la sua leggerezza ed esuberanza, mantenendo comunque più piani di lettura anche seri, questo libro piacerà anche a chi non ha aspettato trepidante Il risveglio della Forza, perché la storia della saga più famosa di tutti i tempi è essa stessa avvincente e piena di sorprese. Per gli appassionati, ma anche per chi vuol fare bella figura ad una cena raccontando aneddoti che pochi conoscono, anche i fan più informati, questo è il regalo dell’anno!

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«Ciò che Lucas colse con spirito realmente pionieristico e visionario […] fu che il cinema era pronto per una nuova rivoluzione tecnologica e che allo stesso tempo il pubblico aveva nuovamente bisogno di storie che si riallacciassero al Mito».

Star Wars: Il risveglio della forza – J.J. Abrams

Un fan di Star Wars credeva di non dover mai affrontare certe cose nella propria vita e tra queste c’è la scrittura della recensione dell’Episodio VII visto in anteprima; non perché non voglia, ma perché la difficoltà nel farlo sarebbe molto più grande del piacere provato durante la visione. La saga stellare ha formato e forgiato la sua come quella di molte altre personalità: scegliere un lato della una forza invece che un altro è una tra le metafore di vita più completa ed esaustiva. Non è, infatti, solo una questione di battaglie stellari a bordo di caccia, droidi teneri e spade laser.

Per provare a scrivere un pezzo esaustivo e non guidato dalla pancia, lo smembrerò in tre momenti, quelli che hanno caratterizzato la mia visione del film.

Primo momento: seduta in sala indossando gli occhialetti 3D (per una volta usato con coscienza e giustificabile). La semplice scritta della Galassia lontana lontana… inizia a far venire la pelle d’oca e il ritorno dei protagonisti della trilogia originale (con droidi nuovi e vecchi, teneri e familiari come non mai) commuove fino alle lacrime. Lungi dallo scadere in sentimentalismi, anche i parallelismi scenici, scenografici, di montaggio, di storia, di costumi e fotografia e gli effetti speciali ben dosati (e non protagonisti assoluti della storia, al punto da viziarla) dissetano un animo pretenzioso di dettagli e i dialoghi frizzanti stemperano al punto giusto la tensione su una nuova guerra in corso. I non detti stuzzicano al punto giusto la curiosità e non pochi sono gli interrogativi lasciati in sospeso. L’insieme lascia ben sperare su un coerente sviluppo dei successivi episodi.

Star Wars: Il Risveglio della Forza

Secondo momento: in metropolitana appena uscita dal cinema. Perplessità è la costante delle reazioni a caldo. Troppe sono le note dolenti che durante la visione l’emozione e l’entusiasmo non hanno lasciato emergere. Una su tutte la scelta del cattivo di turno. Kylo Ren non convince, pur nella sua embrionale forma di cattiveria e pur essendo il suo un percorso di crescita oscura intimo e disperato, giovane e bisognoso di una guida. Non possiede quell’aura di terrore che il semplice motivetto della marcia imperiale suscitava. Non chiaro il progetto che vuole portare avanti, forse perché ancora è una semplice pedina nelle mani di un giocatore esperto e più forte. Adam Driver, poi, non incide per espressività e rigore interpretativo. Guardando alla sceneggiatura, sorge il dubbio che l’episodio non si il VII ma un IV bis, un reboot bello e buono: i parallelismi che durante la proiezione avevano emozionato risultano eccessivi e il ritmo della storia appare troppo simile agli episodi precedenti.

Terzo momento: la mattina del day after. A mente fredda il quadro si delinea più chiaramente e il giudizio si stempera in considerazioni più obiettive e meno viziate dal trasporto emotivo: Star Wars: Il risveglio della forza non è un nuovo capitolo della saga. È un film che parla alle nuove generazioni (non è un caso che la Disney stessa dichiari sin da subito che per capirlo e apprezzarlo “si può anche essere ignari di tutti gli episodi precedenti”) che si sono cibate di quella cultura pop inevitabilmente influenzata da Star Wars ma che non sono nate con esso, e per questo si entusiasmano con una storia fitta di citazioni, rimandi e parallelismi che, tuttavia, non hanno un legame logico con gli eventi degli episodi passati. Una generazione è, allora, la protagonista dell’Episodio VII: la parabola dei vecchi personaggi è finita. Ne sta iniziando una nuova, caratterizzata da diversi sentimenti e modi di approcciarsi alla vita: in questo convincono i personaggi. Lo Stormtrooper traditore Finn (John Boyega) dimostra che c’è sempre la possibilità di scegliere nonostante il potere della forza; Kylo Ren approfondisce un modo di nuovo di approcciarsi alla forza, non pervasiva e totalizzante ma difficile da controllare e contraddittoria pur nel suo fascino di potere; Rey (Daisy Ridley) porta alla ribalta un personaggio interessante, ben interpretato e… donna. In realtà Star Wars: Il Risveglio della forza potrebbe essere considerato, per certi versi, un film femminista ma non mi piace virare il mio giudizio verso tematiche ideologiche troppo forti. La regia, infine, ammicca con lungimiranza al passato, l’unica scelta che J.J. Abrams avrebbe potuto compiere per rimanere coerente con il tono di futuro nel passato che si è voluto dare al film.

Star Wars: The Force Awakens

I sentimenti contrastanti che hanno caratterizzato il secondo momento, pur se non annullati, vengono mitigati. Un’attesa così grande corre sempre il rischio di una delusione, inevitabile anche se il film fosse stato diverso. Diverso? Come? Forse questo era l’unico modo di tornare con Star Wars. Insieme a Han Solo siamo tutti tornati a casa. Tutto sta a vedere se avremo la voglia di rimanerci.